Afghanistan e Italia: seguire l’egemone

Afghanistan e Italia: seguire l’egemone

Le drammatiche immagini dell’aeroporto internazionale di Kabul preso d’assalto hanno sollevato molti interrogativi, sia di natura pratica che morale. In Occidente ci si domanda come sia possibile che il popolo afghano venga abbandonato dopo vent’anni di sostegno, immaginando ora tetri scenari futuri. Gli “studenti” (questo significa taleban in pashtu) s’imposero alla guida dell’Afghanistan negli anni Novanta dopo aver ripulito il paese dai signori della guerra locali, riconsegnando una fedele adesione alla legge islamica al Paese degli aquiloni. Rei di aver dato supporto a Bin Laden, il loro regime fu spazzato in poche settimane dall’invasione americana all’indomani dell’11 settembre.

A due decenni di distanza, il loro trionfale ritorno al potere suona come una cocente sconfitta per la superpotenza, ancor più se si considera la rapidità e l’efficienza con cui la riconquista è avvenuta. Aspetto enfatizzato dai media occidentali: la rovinosa ritirata da Saigon, nella guerra del Vietnam, si pone come facile quanto affascinante paragone. A ben guardare, i due eventi hanno in comune ben poco, se non il fatto di essere entrambi pressoché irrilevanti sul piano strategico.

Innanzitutto, la ritirata era stata ampiamente programmata. Obama, Trump e ora Biden. Quest’ultimo ha potuto ufficializzarlo nella prima metà dell’anno, ma l’accordo con i Taliban era già stato raggiunto nel febbraio 2020. A Doha, Qatar, la Turchia aveva fatto da mediatore (s’inseriscano delle virgolette) tra Usa e talebani. Un negoziato a testimoniare che gli americani hanno deciso cosa fare della “tomba degli imperi”: lasciarla a qualcun altro. Possibilmente cinesi, russi o turchi. L’accordo era molto semplice, e prevedeva che al ritiro delle truppe Usa seguisse il ritorno dei talebani, a patto che quest’ultimi non facessero rimpiombare il paese nel caos. Effettivamente, il cambio di regime è avvenuto senza spargimenti di sangue ed efferatezze proprio per evitare che la retorica del peace-bulding fallito comportasse una reazione stizzata degli Stati Uniti. E tuttavia, l’imbarazzo nella coalizione internazionale non è mancato a causa della velocità con cui il paese si è consegnato ai talebani. Sorprendentemente, nessuno ha ragionato sul fatto che i famosi 300 000 uomini dell’esercito afghano avevano ben poca voglia di morire per combattere una fazione che era già stata dichiarata vincitrice 18 mesi prima. I talebani hanno colto la palla al balzo per imbarazzare l’egemone a stelle e strisce.

Cosa accadrà ora quindi all’Afghanistan? Con ogni probabilità tornerà ad essere irrilevante nello scenario globale come vent’anni fa. Un paese guerriero, ma economicamente scarso, soprattutto dal punto di vista infrastrutturale. Se si parlerà ancora di Kabul, sarà in ottica pakistana e quindi cinese. Il Pakistan infatti deve diventare, secondo Pechino, il corridoio per arrivare al mare senza passare per lo stretto di Malacca. L’instabilità della regione potrebbe seriamente complicare il progetto della Belt and Road Initiative. Non a caso, il ministro degli Esteri Wang Yi si è preoccupato di ricevere una delegazione della Commissione Politica talebana a Tianjin, nel tentativo di dare legittimità internazionale al nuovo (vecchio) regime. E per evitare che Kabul si metta a sostenere i separatisti uiguri che la Cina sta cercando faticosamente di assimilare. Schivando per ora quindi la trappola americana.

Altrettanto improbabile è che nel buco nero degli -Stan ci finiscano i russi. Memoria storica suggerisce di stare ben lontani. E per quanto il voler essere potenza imponga di ficcare il naso quasi dappertutto, difficile che Mosca possa ritenere strategico questo territorio. Lo stesso dicasi per i turchi, che condividerebbero con i russi le difficoltà tecniche di uno stiracchiamento così esagerato. Eppure la Turchia ha ben ragione di immaginare il proprio spazio di competenza sull’Asia centrale, in quanto abitato da popolazioni turciche. Fino allo Xinjiang, la provincia più instabile della Repubblica Popolare, confinante proprio con l’Afghanistan e foriera di attentati jihadisti.

Esistono in ogni caso fattori che dovrebbero preoccupare l’Europa. In tutti questi anni, i profughi afghani hanno seguito una rotta ben precisa, ossia quella dell’oppio e delle droghe più pesanti che partono dal Pakistan, scavalcano l’Iran e raggiungono la Turchia. Quindi i Balcani e l’Europa, esattamente come le tratte dei siriani. C’è d’aspettarsi che questa via diventi particolarmente trafficata e pericolosa: la Turchia avrà seri problemi nel contenere la probabile nuova ondata e l’Europa potrebbe ritrovarsi nella stessa situazione del 2016, quando la Germania negoziò (leggasi pagò) Ankara per tappare la rotta balcanica.

Al netto quindi di due decenni di conflitto, e dato per scontato che si trattò di un fallimento, ogni nazione della coalizione dovrebbe trarne un insegnamento. Per quanto concerne l’Italia, si è molto dibattuto se sia stata cosa saggia accompagnare Washington nelle sabbie afghane. Nonostante la regione sia forse una delle meno rilevanti per i nostri interessi, seguire l’egemone non è di per sé un errore. È il compito dei satelliti. Ma la lezione che dovrebbe imparare l’Italia è che non ci si deve spendere a titolo gratuito, ma che anche i piani più sgangherati hanno un costo. Secondo il classico do ut des, i sacrifici in termini economici, ma soprattutto di vite umane, andrebbero ricompensati ottenendo qualcosa in cambio. Possibilmente per favorirci contro gli attuali competitor, per usare un termine morbido, come Turchia o Germania nei Balcani. O garantire la nostra solidità nei mercati finanziari. O evitare che la Libia si frantumi.

Da corollario, la massima da tenere a mente è quindi che si deve essere consapevoli di cosa chiedere, mentre, per ora, tutto quello che ci viene domandato dagli Stati Uniti è un rimedio a una nostra disattenzione, se non peggio. Un esempio, la nostra Marina che deve raggiungere il Mar Cinese per compensare il Memorandum del 2019. Valutare se vale la pena di intraprendere una battaglia è forse il primo requisito per non uscirne con le ossa rotte. Ma se proprio non possiamo fare a meno di buttarci nella mischia, facciamo almeno in modo che i sacrifici siano serviti a qualcosa.

 

Matteo Gravina

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