Amazio, il Cesare redivivo: quando Roma finì nelle mani di un liberto

Amazio, il Cesare redivivo: quando Roma finì nelle mani di un liberto

Sedizioni, caos e linciaggi: Roma non può che essere in tumulto. All’indomani del Cesaricidio, in cui un manipolo di novelli Trasibuli ha posto fine all’onta juliana della bramosia regale (“Adfectatio Regni”), l’ordine fatica a essere ristabilito per i rioni dell’Urbe. Le folle si accalcano, si radunano nuove compagini dal suburbium e le truppe di Lepido, militare, collega e amico di Cesare, non riescono a mantenere la quiete neppure nelle ore notturne, laddove gli stessi usi d’un tempo scoraggerebbero i più a intraprendere i vici della città. Roma, un manto di porpora che lambisce le estremità del Mediterraneo in quell’imperialismo legiferante che ha permesso di sommare conquiste e annessioni nei secoli decisivi del suo espansionismo, è “spaccata” in due. Da una parte abbiamo il partito cesariano, in balìa dei suoi stessi avventori, i senatori alleati di Cassio e Bruto e che ora s’impegnano affinché sempre più “philoi” di Cesare ne condividano la stessa, macabra, sorte. Dall’altro lato vi sono i senatores, membri dell’aristocrazia e custodi del monumento tradizionale repubblicano fatto di prerogative e antichi privilegi. Le Idi di Marzo segnano una battuta d’arresto per la politica popolare dell’orfù dictator poiché, venendo a mancare proprio il suo “campione”, il volgo non sa più a chi rivolgersi. E’ in quell’istante che si erge a paladino della plebe una vecchia conoscenza della scena politica romana: Amazio. Un agitatore di folle d’umili origini ma che aspira all’ascesa sociale con lo stesso ardore con cui infiamma gli animi di chi lo ascolta presso i rostri del foro.

Sono le ore di “vigilia” tra il 16 e il 17 marzo del 44 a.C.
All’ombra del Tempio “sub terras”, il simulacro della Dea Terra, Marco Tullio Cicerone, eroe delle Catilinariae, e Marco Antonio, cugino e braccio destro di Cesare, i due antipodi per antonomasia della politica di quegli anni, si consultano riguardo il da farsi per dare pace all’Urbe. Non bastano le ore passate ad ascoltare le testimonianze di colleghi, Edili e liberti, per comprendere appieno la reale entità della confusione generale generatasi per le strade. I due “homines novi” nemmeno erano d’accordo su dove incontrarsi, figuriamoci su di un’eventuale strategia volta a pacificare il vulgus. Il luogo per il conciliabolo fu solo un fortuito caso di comprensione e diplomazia. Un luogo ai margini dello scenario urbano di Roma e su cui nessuno avrebbe sospettato. Sacro e inviolato. Il tempio di Tellus sorgeva al tempo sul declivio meridionale dell’Esquilino, vicino al luogo delle Carinae di pompeiana memoria. Qui il “Magnus” aveva edificato la propria domus fortificata e agevolato il domicilio dei suoi sostenitori, creando ex novo un quartiere clientelare cui attingere sostegno politico. Che fosse in realtà un rimando all’ultimo eroe della Repubblica, il martire di Farsalo? Non solo. Forse v’è qualcosa di più nel significato di quella locatio così insolita e desueta in cui rifugiarsi durante i disordini di quei giorni. Tellus è una degli Dii indigites, i numi tutelari primigeni, sorti nella religione romana arcaica risalendo a un tempo indefinito tra Storia e Leggenda e che, nell’accezione ctonia, ricordava come nel sangue fosse sorta Roma. Che si trattasse di quello di Remo o di Cesare poco importava! E a proposito di vermiglio e sangue, dell’altro ne sarebbe stato versato. “Amatius necandum est”.

Il motivo di tanta segretezza risiedeva nel forte ascendente che aveva un esule sulla folla della plebs urbana. Tornato dalla relegatio in Oriente, Amatius era ora pronto a mettersi a capo del partito popolare cesariano per guidarne l’ascesa sociale nelle istituzioni tribunizie prima, consolari poi. Si trattava di un plebeo, di oscuri natali, assai noto nelle cronache degli ultimi anni della Res Publica. Compare per la prima volta nel 45 a.C. in una lettera dell’ex console Marco Cicerone. Egli in una lettera all’amico Pomponio Attico si lamenta di come l’appoggio dei ceti più umili, accresciutosi, abbia reso Amatius arrogante a tal punto da scrivere allo stesso Cicerone per un consulto legale. Il fatto non dovrebbe stupirci: seppur contraddistinta dalla comparsa di homines novi, la tarda Repubblica è pur sempre un apparato statale con classi sociali ben distinte tra loro cui è difficile immettersi, se non con mezzi economici o di natura militare, vedasi l’ascesa alle alte cariche castrensi o all’accumulo di ingenti ricchezze da parte del ceto medio plebeo. Escludendo quindi i suddetti casi, larga parte degli humiles mai avrebbe osato intromettersi direttamente negli affari privati di un pater conscriptus al dì fuori della supplica clientelare che forniva ad ogni patricius, ora dominus publicus, il suo seguito di sicofanti e seguaci.

Eppure Amatius optò per rapportarsi col celebre oratore di Arpino come se fosse suo pari. Perché?
La risposta può risiedere nell’enorme ricchezza di cui faceva sfoggio nella Suburra, il vicus plebeo per eccellenza, sede di ogni vizio e tugurio dove la massa poteva sfogare la sua boria. Amatius affermava di essere figlio dello zio acquisito di Cesare, Gaio Mario. Grande generale e console, autore di una riforma che portò a conclusione il lungo processo di professionalizzazione dell’exercitus e che salvò Roma dalle invasioni di Cimbri e Teutoni prima (sul finire del II sec. a.C.) e gli empori commerciali africani dalle sedizioni di Giugurta dopo. Acclamato Pater Patriae, è lui ad aprire la lunga stagione dei bella civilia che faranno precipitare l’Urbe in una scia di tensioni socio-politiche senza precedenti. Scontratosi poi con Silla, Mario morirà lasciando come eredità lo scontro col partito degli Optimates al suo seguace e amico Sertorio, in Hispania. E’ qui che nasce, in una data imprecisata, Amatius. Apparteneva alla familia dei Marii. Se però tale termine genetliaco facesse riferimento alla gens o al suo nucleo di schiavi, non è dato saperlo, giacché l’accezione “familia” poteva significare tanto i patrizi tra loro imparentati, quanto il numerus servorum alle loro dipendenze. Poteva forse trattarsi di un liberto, cioè uno schiavo affrancato su indicazione testamentaria dallo stesso Mario e perciò adottato di nuovo dalla gens Maria per farne un philos mediante nuovo giuramento (“promissio iurata liberti”)? Possibile. E ciò potrebbe spiegare come potesse un perfetto sconosciuto di origini ignote, ingraziarsi il vulgus con la commissione e costruzione di giardini privati aperti al pubblico. Poteva forse aver tratto i mezzi economici del peculium, ossia una somma in denaro e preziosi, accumulato in anni di affari per conto del celebre generale Gaio Mario. Non solo. Alcuni autori antichi si riferiscono ad Amatius come Pseudo-Marius, come a rimarcare un (presunto) nesso di parentela tra i due. Lo stesso Cicerone nella prima delle sue Philippicae sembra, sommessamente, ammetterlo.

Per dovere di cronaca, riportiamo altresì come alcuni autori, primo fra tutti Valerio Massimo, anni dopo i fatti narrati, asserissero che Amatius in realtà altri non fosse che un graeculus scappato dall’Oriente e precedentemente chiamato Herophilus, un moedicus specializzato nel trattare problemi di vista. Ipotesi affascinante, seppur infondata o quantomeno rintracciabile in una rielaborazione fantasiosa dell’esperienza di esilio dello stesso Amatius in Oriente.

Infatti accadeva nel 45 a.C. che il liberto dei Marii fosse così popolare tra i ceti meno abbienti della plebs urbana di Roma da provocare prima lo sgomento e poi la preoccupazione dello stesso Giulio Cesare. Profittando dell’assenza di quest’ultimo, impegnato a concludere le ultime campagne in Spagna contro i Pompeiani, Amatius aveva a gran voce invocato la ripresa delle pretese da parte plebea di migliore parità socio-politica nelle istituzioni senatorie e nel cursus honorum. Egli si dichiarava protettore e portavoce (“patronus”) dei veterani mariani di tutte le provinciae da questi conquistate. Patronus delle intere coloniae fondate da Mario, sia in Spagna sia in Italia. I Marii mal sopportavano una presunta parentela con un fomentatore delle folle e che non aveva nessi comprovati di parentela acquisita o di sangue con l’illustre gens, stando alle orationes tenute in senato, poiché la questione risultò in pubbliche interrogazioni legali.

Fu infine lo stesso Cesare che spinse gli advocati della famiglia dei Marii, con cui ancora intratteneva rapporti in ricordo del suo zio materno (“avunculus”) Gaio Mario, ad arringare nella Curia il Senato per espellere una volta per tutte Amatius. Stando alle cronache, il fatto sarebbe successivo all’episodio in cui il nostro “furor populi” avrebbe avvicinato Gaio Ottavio, vero nipote di Cesare, tra la folla folla per ricordagli lo “ius parentale” che avrebbe legato i due. Ottavio ne fu scosso e vide in tutto ciò un affronto alla sua recente promozione sacerdotale come pontifex voluta da Giulio Cesare. Un tentativo per ostacolare il futuro imperatore Augusto? Può darsi.

Nel riferire dell’episodio, Nicolao di Damasco, sempre successivamente ai fatti, non riporta altre notizie e afferma soltanto che tale onta sulle gentes Mariana e Octavia bastò per segnare il destino di Amatius.
Se poi si chiamasse davvero così non ci è dato saperlo. Dopotutto le fonti in nostro possesso neanche concordano sul nomen di questo “capitano del popoloante litteram: Tito Livio propone un accordo tra le teorie sull’origine ellenofila e quella italo-iberica coll’appellativo “Chamates”, cui deriverebbe la variante “Amatius” fornitaci da Appiano.

Torniamo agli eventi di poco successivi al Cesaricidio.
Con il conferimento unanime da parte del senatus della dittatura a vita, Cesare è ora padrone dell’Urbe e non teme rivali. Sono lontani i tempi in cui una congiura di Senatori e capi-tribù galli foederati aveva ordito l’eliminazione fisica del prediletto da Venere. Amatius volle perciò tornare a Roma, forse dall’Egitto, all’epoca regno cliente della Repubblica e rifugio per ogni rinnegato del patriziato romano, calcolando opportunamente il fattore di rischio e l’opportunità di riscattarsi. Nell’Urbe possedeva, a quanto pare, delle tenute conferitegli anni addietro dai componenti dei Marii trapiantati in Hispania ma che ancora godevano delle rendite fondiarie e urbanicianae di alcuni immobili. Fu forse con queste dotazioni pecuniarie che riuscì a finanziare, quindi ad aprire, per il diletto del popolo, degli immensi giardini. Negli stessi organizzava poi feste e libagioni, all’insegna del vero e proprio evergetismo con cui accaparrarsi voti per una futura ascesa al tribunato plebeo. Infondata sarebbe la notizia invece di alcuni spettacoli teatrali con “caveae” lignee organizzati da lui, poiché una lex del 154 a.C. ne proibiva la messa in scena.

L’occasione per accendere gli animi dei suoi philoi, successivamente, furono proprio le Idi di marzo, laddove il clima, seppur teso, di tranquillitas e stabilità vennero a mancare con l’uccisione del loro promotore: il dictator Caesar. Le cohortes equitatae di Lepido erano quindi accorse nel Campus Martius e sbarravano le portae della città, le bande armate dei cesaricidi perlustravano gli ambitus tra le insulae in cerca di nemesi o presunti sostenitori dei Populares. L’instabilità istituzionale rendeva vacante quella sicurezza, almeno apparente, fondamentale per garantire solido governo in una capitale in piena ascesa politico-militare.
Chi poi avrebbe garantito il lascito di Cesare con cui la plebe poteva godere, in quanto erede designata, di somme di denaro e annona alimentare per un anno? La rabbia esplodeva velocemente e la folla si raggruppava e si disperdeva senza che le forze di polizia urbana potessero sedarla o trattenerne i vertici di rivolta. Amatius volle rendersi protagonista con un gesto plateale.

Il giorno seguente l’uccisione del dominus julianus nella curia di Pompeo, Amatius, appresa la notizia, non aveva perso tempo. Una volta saggiata la veemenza della folla nel suo manifestare apertamente la collera verso i cesaricidi, aveva aperto l’ostius della propria domus immettendo nei giardini larghe turme di facinorosi. Qui, con dialettica e abile interpretazione, aveva arringato sulle libertà repubblicane, sugli antichi culti e l’onore perduto dei senatori. Come avevano potuto costoro, elìte dell’organo più sacro della Res Publica, custode da tempi immemori dei costumi degli antichi, insanguinare la toga dell’orfù Cesare? Ben presto dalle mala verba si passò ai fatti, armandosi di clave e torce la folla scemò fuori dalla domus amatiana e imperversò per gli stretti vicoli della città. Amatius aveva promesso la “decollatio” di Giunio Bruto e Cassio Longino. In occasione quindi della “caccia all’uomo”, il liberto mariano guidò i sediziosi fin dentro il Foro di Cesare e colà eresse una colonna votiva e infine un fuoco (bustum) a celebrazione del defunto. Secondi gli storici odierni il significato del gesto è da ricercarsi nella squisita tradizione romana di legittimare secondo diritto (Jus) e religione (fas) un voto, rendendo il medesimo sotto forma solenne.
Il rito, seppur improvvisato, era riconducibile quindi all’uso macabro della “consecratio”. Mondare l’assassinio del Dictator era dovere etico e morale di ogni civis, non solo in quanto facente parte della comunità urbana e ad essa votato all’onere di preservazione (“polymeutha”), ma anche perché memori delle opere di risanamento pubblico senza precedenti attuate da Cesare. Qui la vendetta trova diretto significato con il suo epigone latino: “vindicatio”. Ossia rivendicare quindi riottenere, mediante la persecuzione dei responsabili, la Res Publica nelle mani dei quiriti, la civitas tra i suoi cives, dopo la macabra rivoluzione (“res nova”) del 15 marzo.

Le fiamme lambiscono il plumbeo empireo dove i Numina osservano da dietro le nubi. Il rogo lo si può vedere dalla sommità di tutti i montes di Roma. Preoccupa come un liberto, un popolare plebeo di umili origini ma con retaggi politici di tutto rispetto, riesca a infiammare il vulgus. Per i rioni neanche più si avventurano le guardie altrimenti impegnate a ristabilire la pax urbana. Sembra sia sorto un novello Cesare redivivo. Occorre agire!

Nella notte in cui Antonio e Cicerone discutono e si affannano per trovare delle soluzioni a breve termine, si accalcano fuori dal pronao del Tempio di Tellus alcuni senatori. Si salutano, si guardano attorno scrutando eventuali pericoli nell’oscurità. Infine bussano chiedendo a gran voce delle risposte ai due senatori. Non c’è più tempo. Un accordo è stato trovato. O così pare. Antonio esce per primo. Tace. Osserva calmo i senatori e dirimpetto li istiga ad agire. Li arringa, proprio come aveva fatto Amatius coi suoi partigiani e come farà successivamente lo stesso Antonio di fronte alla folla durante i funerali di Cesare.

Promette una riappacificazione coi Cesaricidi, i quali lo incontreranno ore dopo nella zona franca per eccellenza nell’Urbe: l’insula tiberina. Essa però si trovava dall’altra parte di Roma. Come arrivarvi? Come anche solo si poteva ipotizzare un iter scevro dai pericoli che i fedelissimi di Amatius potevano comportare?
Prima si doveva togliere di mezzo il liberto più odiato e temuto di tutti, poi rovesciarne la fazione.
I senatori applaudono, annuiscono sollevati dal rinnovo del pactum tra le due guide dei partiti degli Optimates e dei Populares.

Il mattino seguente, svegliati allo stridio del tubicen, le cohortes urbanae si precipitano nel foro ove già alcuni delegati di Antonio, agenti in vesti plebee col compito di spargere voci e confutarne altre (“speculatores”), avevano riabilitato la figura del braccio destro di Cesare e di Lepido. La folla si raduna quindi di fronte ai Rostri dove Amatius prepara la spedizione punitiva contro i Cesaricidi. Qualcosa però non va per il verso giusto. I facinorosi sono divisi e alcuni già discutono animatamente. C’è chi appoggia Antonio e chi vi preferisce il liberto dei Marii. Presto scoppiano i primi focolai di violenza. Amatius cerca di placare il vulgus ma è tardi. Antonio si è fatto garante del lascito testamentario di Cesare: ognuno avrà il suo. I philoi di Amatius lo lasciano solo mentre cercano di sedare le risse. E’ isolato, vulnerabile. E’ in quel frangente che i milites di Antonio lo braccano. Lo spingono al dì sotto della tribuna in pietra. Nemmeno il tempo di accorgersene che il “capitano del popolo” era inviso al popolo, tanto volubile quanto pericoloso. La vendetta contro Bruto e Cassio non era affare da poco ma, come scriverà Virgilio tempo dopo, “Auri sacra fames”. L’avidità è assai più appetibile del riscatto morale: i congiurati possono aspettare perché sarà Antonio a restituire loro il destino che meritano. Adesso è il momento di pagare. Le casse saturnine dell’Erario elargiranno gli aurei dovuti ai cives su testamento di Cesare, Amatius invece renderà conto della bramosia di potere contro le istituzioni (“pothos”). Sono gli speculatores ad iniziare. Calci. Percosse e infine i primi affondi di lama. Ben presto Amatius non è che la nemesi sacrificale della folla. La stessa acclama ora il nuovo redentore della Res Publica: Antonio. Fu su ordine di quest’ultimo che il corpo di Amatius venne “scomposto” in più pezzi e gettato nel Tevere, come offerta al Deus Tiber, in promozione inaugurale dell’incontro con Bruto e Cassio di cui sopra. Un’offerta di pace che avrebbe garantito il ritorno dell’ordine pubblico e suggellato un’intesa per superare le difficili settimane a venire.

Si conclude così, nella peggiore delle previsioni, la breve quanto mai sconosciuta epopea populista di un eterno “secondo della Storia”. Chi fosse davvero Amatius non è dato saperlo. Tuttavia possiamo, attraverso lo chronicae su di lui, capire realmente quanto Roma fosse in bilico tra il dominio violento dei patrizi e dei generali, ossia i “migliori” (“aristopolitheia”) e l’anarchia volgare delle genti più umili, vero bacino cui attingere per smuovere le fondamenta statali della Res Publica in qualsiasi momento. Mai come negli anni delle guerre civili l’Urbe rischiò di crollare su sé stessa e sulle sue istituzioni, messe in discussione come mai prima d’allora.

 

Francesco Rossi

Bibliografia:
  • Tito Livio, “Historia Ab Urbe Condita”
  • Appiano, “Storie Romane”
  • Valerio Massimo, “Facta et dicta memorabilia”
  • Marco Tullio Cicerone, “Philippicae”
  • Rita Mangianelli, “Tra duces e Milites”
  • Michael Parenti, “L’assassinio di Cesare: una storia di popolo”
  • Massimo Blasi, “I dieci incredibili avvenimenti che hanno cambiato la storia di Roma Antica”
  • Sara Prossimarti, “I grandi delitti di Roma Antica”