“Varo, rendimi le mie legioni!”
(Augusto)
Singoli eventi possono avere una portata dirompente nel corso della Storia e uno di questi é proprio la battaglia di Teutoburgo. Certo, sarebbe più corretto chiamarla disfatta o massacro, atteso che non vi fu alcuno scontro in campo aperto tra Romani e barbari i quali attesero i primi nella selva per tendere loro un’imboscata. Tre furono le legioni annientate, comandate dal governatore Publio Quintilio Varo e altrettante le insegne perse, il massimo del disonore per la mentalità romana che disprezzava la debolezza e la sconfitta.
Nel mese di settembre del 9 d.C. tramontava definitivamente il sogno di Augusto, ormai in veneranda età, di romanizzare i territori compresi tra il Reno e l’Elba, spostando ancora più ad est il limes che separava l’Impero romano dal mondo non civilizzato. Ciò era stato possibile per il tradimento di Arminio, cittadino romano di adozione, ma anche principe della tribù germanica dei Cherusci, artefice dell’inganno che condusse i legionari nelle fauci del lupo. Condotto a Roma insieme al fratello Flavus, quando erano entrambi bambini, era stato cresciuto come un buon civis dell’Urbe la cui parola d’ordine era “assimilazione”. Difatti, l’Impero riteneva che il miglior modo di proteggersi fosse non solo di vincere guerre, ma anche di integrare le tribù barbare la cui élite veniva cooptata: i figli dei nobili stranieri, quindi, erano condotti a Roma come ostaggi e qui per l’appunto “romanizzati”, ossia immersi nel benessere, nei valori civici, nella lingua e nel mos maiorum che solo la civiltà latina sapeva offrire. Ciononostante, il destino dei due fratelli non poté essere più diverso: Flavus rimase un fedele servitore di Roma come ufficiale dell’esercito, a dispetto di Arminio che decise di tradirla.
Teutoburgo fu la peggiore disfatta militare dopo Canne e l’ultima dopo quella di Adrianopoli del 378, preludio alle invasioni barbariche e alla caduta dell’Impero d’Occidente. Nel 16 d.C., due anni dopo la scomparsa del divino Augusto, Germanico, figlio adottivo e padre di due imperatori, rispettivamente Tiberio e Caligola, riuscì a lavare l’onta, sbaragliando le truppe di Arminio nella battaglia dell’Idistaviso e riuscendo addirittura a recuperare due delle tre aquile perse a Teutoburgo. Tuttavia, non venne mai più tentata una nuova campagna di conquista volta a fare della Germania una provincia romana. Taluni affermano che l’ordine di Tiberio di ritirarsi dopo la vittoria fosse dipeso da invidia personale nei confronti di Germanico, ormai molto popolare e morto poco tempo dopo in circostanze mai del tutto chiarite. Altri, viceversa, riconoscono a Tiberio stesso la lungimiranza di aver evitato un’impresa militare che avrebbe logorato le risorse dello Stato in termini di uomini e mezzi, peraltro in territori non coltivabili e privi di giacimenti di metalli preziosi. Pertanto, il confine si attestò definitivamente lungo il Reno a ovest e lungo il Danubio a sud-est.
L’ultimo vero trionfo dell’Impero, ancora unificato, contro i Germani vi sarebbe stato nella battaglia di Strasburgo del 357, magistralmente vinta dal Cesare d’Occidente Giuliano, futuro Augusto il quale, emulando le gesta di Cesare e Germanico prima di lui, poi attraversò il Reno, spingendosi quasi fino all’Elba e riducendo all’obbedienza tutti i barbari ribelli. Fu l’ultimo colpo di coda militare di Roma prima che nel 403, complice l’inverno rigidissimo, i barbari attraversassero il Reno ghiacciato e si riversassero in massa in Gallia, dando inizio al “crepuscolo degli dei” e accelerando la caduta dell’Impero d’Occidente, già piegato all’interno dalla decadenza dei costumi, dalla crisi economica, dal calo demografico e dall’endemica instabilità politica. Con l’avvento dei regni romano – barbarici, la conoscenza del latino tra la popolazione gradualmente venne meno, eccezion fatta per le abbazie dove i monaci amanuensi, meritoriamente, salvarono una piccola parte dell’immensa produzione letteraria greco – romana tra cui il De origine et situ Germanorum o, com’è comunemente noto, il De Germania dello storico Tacito, autore altresì delle Historiae e degli Annales, rispettivamente sulla prima dinastia flavia e su quella giulio-claudia. Ricopiata nel IX secolo e, in seguito, riscoperta e diffusa nel ‘400 in pieno Rinascimento, tale opera descrive gli usi delle tribù barbare al di là del limes.
Tali tribù si chiamavano tra loro con nomi diversi, dunque a Tacito si deve la parola con cui tutte venivano chiamate nel complesso: “Germani”, ossia abitanti della “Germania”. L’autore ne esalta l’intrepido coraggio in battaglia e l’austerità dei costumi, a dispetto di una certa “mollezza” che già tra il I e il II secolo i Romani cominciavano a manifestare. Queste comunità erano perennemente in lotta, salvo quando vi fosse un nemico esterno contro cui coalizzarsi, com’era accaduto contro Roma ai tempi di Varo.
Arminio, come rammentato, era stato sconfitto in seguito da Germanico sull’Idistaviso ed entrambi, per curiosa coincidenza, trovarono la morte nel 19 d.C., il primo ucciso dai suoi stessi sudditi che ne temevano il crescente potere. D’altra parte, l’eco della battaglia di Teutoburgo non si spense e si ritiene che proprio la figura di Armino abbia ispirato il personaggio eroico del biondo e glabro Sigfrido nella saga mitologica dei Nibelunghi. Per Roma Arminio altri non era che un traditore, per la sua gente e nelle canzoni che ne narravano le gesta, invece, un eroe che aveva difeso la sua patria contro dei biechi invasori. Ergo, forse proprio a Teutoburgo vanno ricercate le origini dello spirito nazionale teutonico, fondato sul mito della terra e del sangue ed intriso di un paganesimo che, anche dopo la conversione forzata al cristianesimo ad opera di Carlo Magno, rimase sopito, eppure sempre vigile. La spaccatura geopolitica tra Nord Europa e Sud Europa affonda le radici nella disfatta delle legioni di Varo da cui sarebbe scaturita un’insanabile separazione fra la civiltà latina e quella nordica. Basti pensare a Martin Lutero e alla sua riforma protestante che nel XVI secolo ebbe come culla in cui gemmare proprio l’odierna Germania, all’epoca frammentata in tanti principati, capaci però, ancora una volta, di trovare unità per fronteggiare un nemico comune, in quel caso sempre Roma, non più quella dei Cesari, ma dei Papi.
D’altra parte, é nell’Ottocento che il mito di Arminio e di Teutoburgo risorge, andando di pari passo con la progressiva gestazione del II Reich. Se il 17 marzo 1861 era nato il Regno d’Italia, riunendo i territori della penisola sotto l’egida politica del Regno di Sardegna, retto dai Savoia, in Germania si verificò un processo analogo, sotto la guida però del Regno di Prussia e del suo Primo Ministro Otto Von Bismarck. Il 18 gennaio 1871, dopo la sconfitta della Francia di Napoleone III nella battaglia di Sedan e la fine del Secondo Impero francese, pallida imitazione di quello di Bonaparte, nella sala degli specchi della reggia di Versailles, fiore all’occhiello del Re Sole Luigi XIV, vi fu la solenne incoronazione di Guglielmo I, già re di Prussia, come primo imperatore della Germania unita. Il suo appellativo fu quello di Kaiser, ovverosia Cesare, lo stesso di cui si fregiavano gli imperatori romani.
Appena quattro anni dopo, nel 1875, fu inaugurato a Detmold, località a sud della foresta di Teutoburgo, una colossale statua, lì ubicata ancora oggi e raffigurante Arminio che con la mano destra solleva la spada verso il cielo in segno di vittoria e con il piede sinistro schiaccia un’aquila e un fascio littorio, simboli rispettivamente delle legioni romane e della potestà magistratuale dei consoli. Nessuna immagine può essere più eloquente di questa sul piano simbolico e altrettanto può dirsi per un altro monumento, il Walhalla di Ratisbona. Trattasi di un edificio a forma di tempio neoclassico, commissionato dal Re Ludovico I di Baviera e completato nel 1842, con all’interno i busti dei grandi eroi nazionali della storia tedesca tra i quali trova posto persino Alarico I, Re dei Visigoti, primo barbaro a saccheggiare Roma nel 410 d.C. dopo Brenno che l’aveva violata esattamente ottocento anni prima. Arminio occupa un posto d’onore, non dentro il tempio il cui nome richiama l’Olimpo degli dei norreni, comandati da Odino, equivalente di Giove, bensì all’esterno, sui bassorilievi del frontone, mentre respinge e piega al suo dominio dei legionari inermi, con Varo nell’atto di suicidarsi, non reggendo il peso della vergogna.
Arrivando a tempi più recenti e più tragici, si può dire che l’ultimo figlio spirituale della battaglia di Teutoburgo sia stato un caporale austriaco in servizio durante la Grande Guerra e futuro dittatore tedesco: Adolf Hitler. Non a caso, in occasione della sua seconda visita in Italia, nel 1938, su consiglio di Heinrich Himmler, famigerato capo delle SS e di Alfred Rosenberg, ideologo del nazismo, il Fuhrer chiese a Mussolini di avere il prezioso Codex Aesinas, oggi conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Roma e contenente proprio la monografia di Tacito sulla Germania. Hitler, infatti, era convinto di aver trovato nella celebre opera dello storico romano una giustificazione alle sue folli teorie sulla purezza razziale, più precisamente nella parte in cui l’autore scrive:
“Io sono d’accordo con quelli che ritengono che i popoli della Germania, non macchiati da nozze con altri individui di altre nazioni, sono risultati una stirpe a sé stante, pura e simile solo a se stessa. Di qui il medesimo aspetto fisico degli abitanti, sebbene in un così grande numero di individui”.
Pertanto Hitler, imbevuto, oltre che di antisemitismo, di paganesimo e pangermanesimo wagneriano fin dalla giovinezza, decise di riproporre a fini propagandistici e in maniera distorta e criminale quei valori che Teutoburgo incarna da sempre per il popolo tedesco: indipendenza, grandezza e forza.
In definitiva, quella di Teutoburgo é una lunga storia che ci accompagna da oltre duemila anni, un filo rosso della memoria che sarà del tutto dipanato se e quando, forse, verrà recuperata la terza ed ultima delle aquila perdute.
Dr. Jacopo Bracciale