
A Roma, già in età repubblicana, diverse famiglie patrizie pretendevano di avere una qualche divinità come capostipite; la stessa gens Iulia, quella di Cesare, Ottaviano Augusto e alcuni dei primi imperatori, nel discendere da Venere, non si distingueva particolarmente dalle altre. Nessuno poteva tuttavia vantarsi di essere addirittura figlio di un dio. Le cose cambiarono con l’assassinio di Giulio Cesare. Contrariamente a quanto speravano i congiurati, il popolo non si schierò con il presunto ripristino della libertà, ma al contrario rimpiangeva il dittatore. Violando le leggi civili e religiose, esso sottrasse il corpo di Cesare dal Campo Marzio, esterno al pomerio, dove normalmente si svolgevano i funerali, e lo cremò nel cuore di Roma, nel foro, come onore particolare. Non solo: nacque anche un culto religioso, inizialmente spontaneo, per il Divo Giulio. Per il nipote ed erede Ottaviano, futuro Augusto, che allora non si trovava ancora a Roma, questo culto era potenzialmente scomodo, data la sua volontà di mostrarsi rispettoso della tradizione repubblicana. Seppe invece volgerlo a proprio favore, per rafforzare la propria posizione, in quanto figlio (se pur adottivo) di un dio; parallelamente, portando Cesare in una sfera divina, si annullava in qualche modo la sua dimensione umana e politica, con le sue pericolose e sgradite ambizioni monarchiche (dalle quali Augusto voleva mostrarsi lontano). Il culto fu dunque istituzionalizzato dal primo imperatore e nel foro, sul luogo stesso della cremazione, venne eretto un tempio, regolarizzando quello che all’origine era un atto sacrilego. Furono anche diffuse ad arte delle voci secondo cui il vero padre naturale di Augusto non era un uomo, bensì Apollo, congiuntosi con la madre in forma di serpente (storia copiata, a dire il vero, da Alessandro Magno, anche se in quel caso il dio era Zeus).

In seguito, Augusto stesso e diversi imperatori furono divinizzati post mortem, e anche alcuni personaggi della famiglia imperiale, sempre nell’ottica di rafforzare il potere del successore. Formalmente a decretare la divinizzazione era il Senato (a riprova del significato più politico che religioso), tant’è che ne furono esclusi, ovviamente, quelli morti come nemici pubblici; perfino Adriano, normalmente considerato fra i più illuminati, ma il cui rapporto coi padri coscritti fu difficile, venne divinizzato diversi mesi dopo la morte, e solo per l’insistenza del successore Antonino Pio. Chiaramente, Adriano era già stato cremato e sepolto, ma, in situazioni normali, la divinizzazione avveniva durante i funerali stessi, nel Campo Marzio. Il culmine della cerimonia era il rogo dell’ustrino, una struttura lignea a più piani di larghezza decrescente verso l’alto, su cui veniva collocata la salma: quando l’edificio crollava, consumato dalle fiamme, un’aquila, sacra a Giove, si levava in cielo, a simboleggiare che l’anima del defunto volava agli dei, per unirsi a loro.

Nel Campo Marzio, in particolare presso Montecitorio, vennero costruiti diversi monumenti celebrativi di questo evento: dei recinti marmorei concentrici, impropriamente chiamati ustrini, ma in realtà costruiti in seguito dove si trovavano gli ustrini lignei. Oltre ad essi vi erano altri monumenti rievocativi, come la colonna per i Divi Antonino Pio e Faustina. Di essa rimane solo il basamento, del quale qui ci interessa in particolare il rilievo su uno dei lati, che rappresenta simbolicamente questa cerimonia di apoteosi. In basso a destra, una donna seduta su una catasta di armi è la personificazione di Roma; in basso a sinistra un giovane semisdraiato che abbraccia un obelisco simboleggia il luogo, cioè il Campo Marzio (l’obelisco infatti faceva parte di una meridiana lì presente, nota come “orologio di Augusto”). In alto il giovane alato è Aion, simbolo del tempo eterno, e trasporta sulle sue spalle Antonino e la moglie Faustina (morta in realtà molto prima di lui). Le due aquile presenti ai loro lati simboleggiano il nuovo status divino, ma, come abbiamo visto, erano presenti anche nella realtà. Un altro rilievo molto simile rappresenta forse la divinizzazione di Sabina, moglie di Adriano.

Il culto imperiale dunque si diffuse molto a Roma, ma riguardava solo imperatori defunti e assolutamente non quello vivente, in quanto venerare un uomo sarebbe stato inconcepibile per la mentalità romana. Il fondamento che rendeva la divinizzazione di un morto accettabile dalla religione tradizionale era che essa potesse essere ottenuta come premio dopo la morte, grazie alle proprie imprese (emblematici alcuni miti come quello di Ercole). Casi come quello di Domiziano, che da vivo pretendeva di farsi chiamare “dominus et deus” erano l’eccezione, fonte di grande scandalo e di odio, e forse sono esagerati dalle fonti posteriori. Piuttosto, anche un po’ come espediente, si venerava il Genio dell’imperatore, sorta di personificazione del ruolo, come il Genio del Senato o del popolo, ma non la persona fisica.
Diverso era il discorso nelle province, specialmente in quelle orientali, dove il culto del sovrano faceva parte delle tradizioni fin dai tempi di Alessandro Magno o, per alcuni popoli non greci come gli Egizi, anche da molto prima. Nelle province occidentali, invece, non vi era questo tipo di tradizione, ma il culto dell’imperatore vivente fu comunque adottato per convenienza politica, per non essere da meno degli altri territori. Naturalmente, tutto ciò era favorito dall’autorità centrale, pur con l’apparenza, semplicemente, di non opporsi. Un incremento, specialmente in occidente, sembra aversi proprio sotto Tiberio, che pure in patria si mostrava restio a ogni forma di adulazione, per non parlare degli onori divini. Tramite questo culto, che ben poco aveva a che vedere col sentimento religioso, i provinciali mostravano il proprio lealismo politico e la propria adesione al nuovo ordine, anche in implicita opposizione a quello senatorio, che, in generale, aveva depredato le provincie più che farle prosperare come avverrà in seguito. Dunque in parte questa adesione politica poteva essere sincera. Tacito, all’inizio degli Annales, racconta con un certo sconforto che a Roma nessuno, né fra il Senato né fra il popolo, si opponeva al nuovo potere di un uomo solo instaurato da Augusto: chi per paura, chi per servilismo, chi per convenienza, chi per disinteresse, chi perché troppo giovane per ricordare la “libertà”; le provincie invece non si opponevano perché “diffidavano del dominio del Senato e del popolo [cioè del sistema repubblicano n.d.R.] a causa delle rivalità fra i potenti, della cupidigia dei magistrati, senza che le leggi sconvolte dalla violenza, dall’intrigo, alla fine dalla corruzione, fossero di valido aiuto”[1].
Diversi erano i luoghi del culto imperiale in ogni città delle province, sia per imperatori defunti che per quello vivente. Citerò pertanto solo alcuni di quelli importanti, senza pretese di completezza. Uno fra i santuari più precoci si trovava a Tarraco, odierna Tarragona, capitale dell’Hispania Tarraconensis. Ancora vivente Augusto, vi si trovava un altare a lui dedicato. Un giorno degli ambasciatori della città, per adularlo, lo raggiunsero e gli dissero che sull’altare era cresciuta miracolosamente una palma (simbolo di vittoria); ma Augusto, noto anche per il suo sarcasmo, rispose che, se era nata una palma, voleva dire non sacrificavano molto spesso su quell’altare, altrimenti nulla sarebbe riuscito a germogliarvi! In seguito, sempre i Tarraconesi chiesero a Tiberio il permesso di erigere un tempio vero e proprio ad Augusto ed egli acconsentì, per dare l’esempio anche alle altre province. Rimanendo sempre in Spagna, occorre citare il tempio per il Divo Traiano fatto costruire da Adriano a Italica, città natale del primo e forse anche del secondo.

Nelle Gallie fu molto importante il santuario di Lugdunum (Lione), che era il principale non solo della Gallia Lugdunense ma di tutte le province galliche. Esso comprendeva anche un anfiteatro, non solo per gli spettacoli ma anche per riunioni, delle quali diremo più avanti. Per la Britannia vi era quello di Camulodunum (Colchester), prima capitale della provincia; proprio il rifiuto di offrire tributi a questo culto fu il pretesto per lo scoppio della rivolta di Boudicca sotto Nerone e, una volta riportato l’ordine, la capitale fu spostata per sempre a Londinium (Londra). Ma questo caso di rifiuto fu più l’eccezione che la regola e i Britanni non furono mai un popolo completamente romanizzato. In Germania vi era l’ara Ubiorum (altare degli Ubii). Gli Ubii erano una popolazione germanica fedele a Roma che, per motivi di sicurezza, fu fatta insediare sulla riva sinistra del Reno (cioè quella romana). Qui innalzarono questo altare del culto imperiale e, durante le campagne di Germanico, in questo luogo nacque sua figlia Agrippina Minore, futura moglie di Claudio; in seguito, sotto Claudio, da questo nucleo nacque una nuova città, chiamata Colonia Claudia Ara Agrippinensis (oggi, più brevemente, Colonia).
Per l’Africa si può citare Leptis Magna, nel cui foro erano presenti statue della dinastia giulio-claudia di grandezza colossale. Ma su questa città, rimandiamo a un nostro precedente articolo. In Egitto, provincia sui generis in quanto proprietà personale del princeps, il culto imperiale assunse forme particolari, poiché gli imperatori, così come i re macedoni prima di loro e prima ancora quelli persiani, erano venerati in tutto e per tutto come da millenni si veneravano i faraoni, dèi in terra, con tanto di statue e iscrizioni geroglifiche indistinguibili da quelle faraoniche, a un occhio inesperto.
Quanto all’oriente bisogna fare senz’altro riferimento al Sebasteion di Afrodisia, città formalmente libera della Caria, nella provincia d’Asia. Sebasteion è più o meno in greco l’equivalente del latino Augusteum, cioè, ancora una volta, un santuario del culto imperiale. Esso è famoso per i rilievi che ornavano il suo doppio portico, alcuni dei quali riferiti ai vari imperatori giulio-claudii, altri mitologici, altri ancora con figure femminili dalle diverse caratteristiche, personificazioni di popoli e terre sottomesse all’impero o che, auspicabilmente, lo sarebbero state presto (caratteristica ideologica dell’impero era, appunto, considerare il mondo intero sotto la propria egemonia anche se, momentaneamente, non ancora tutto sotto controllo). Ad Ancyra (odierna Ankara), capitale della Galazia, vi era un altro tempio di questo culto, noto soprattutto per il ritrovamento delle Res Gestae Divi Augusti, un’iscrizione in cui il primo imperatore fa un resoconto di tutte le proprie imprese. L’originale si trovava presso il suo mausoleo a Roma, ma le copie erano state inviate in tutto l’impero e quella trovata ad Ankara è la più completa, anche se non l’unica. Anche su questo argomento si può vedere un nostro precedente articolo.

Molti altri sarebbero i luoghi da citare, ma ora vorrei piuttosto soffermarmi sulla loro funzione. Chiaramente, in quanto templi e santuari, vi si svolgevano sacrifici e attività religiose e, come già detto, servivano a esprimere lealismo politico. Ma i più importanti di essi erano anche i luoghi di riunione dei concilia provinciarum (koinà in greco), delle assemblee di provinciali nelle quali ogni comunità locale inviava delegati in proporzione alla propria grandezza e/o importanza. Tendenzialmente ad ogni provincia corrispondeva un’assemblea, ma non necessariamente, poiché potevano essere su base etnica. Perciò ad esempio le province galliche avevano in realtà una sola assemblea, con sede a Lione. Al contrario in Asia Minore, dalla popolazione molto più composita, vi erano più koinà in una stessa provincia, in base alle regioni storiche più che alle divisioni amministrative. La sede era in genere la capitale provinciale, ma poteva essere una città diversa o poteva cambiare a rotazione. Tutto ciò indica come queste assemblee, sebbene permesse e incoraggiate dal potere centrale, fossero parallele e indipendenti rispetto all’organizzazione provinciale. La loro funzione pratica principale era di presentare eventuali lamentele o ricorsi contro i funzionari provinciali o addirittura di intentare delle cause contro i loro abusi. Non necessariamente questi delegati erano tutti cittadini romani, specialmente nelle aree di cultura greca, dove, anche per un certo attaccamento delle elites locali alla propria polis, la cittadinanza romana era poco diffusa e forse poco desiderata. Tuttavia, rivolgendosi direttamente all’imperatore, di cui erano sacerdoti, avrebbero certamente trovato ascolto. Non dimentichiamo che l’imperatore era, automaticamente, patronus (cioè protettore) di tutti coloro che erano sotto la sua autorità e, contrariamente alle rappresentazioni cinematografiche che lo mostrano sempre intento nelle gozzoviglie, rispondere a una quantità infinita di richieste faceva parte dei suoi doveri, provenissero esse da associazioni o da singoli. Una volta si dice che una donna insistesse per parlare con Adriano e, poiché questi diceva di non avere tempo, abbia replicato: “E allora non fare l’imperatore!”. Non sempre è facile la vita del dio… Comunque, certamente, presentarsi collettivamente dava maggiore speranza di successo e la causa poteva essere seguita da un avvocato famoso, come ad esempio Plinio il Giovane. Sappiamo di molti processi di questo tipo, che si conclusero anche con diverse condanne. Molti altri furono invece assolti, ma certamente nessuno prendeva alla leggera, in età imperiale, una causa da parte dei provinciali. Anche in età repubblicana esistevano queste cause ma, senza l’imperatore, era più facile che il Senato, dalle cui fila provenivano gli imputati, difendesse la propria categoria, dunque le condanne erano più rare; un’eccezione importante fu la condanna di Verre, avido governatore della Sicilia, ma allora gli accusatori erano sostenuti nientemeno che dal grande Cicerone! Insomma, il culto imperiale non era poi un’istituzione così inutile e l’amministrazione imperiale delle province (pur sempre – ricordiamolo – territori conquistati) non era poi così brutale come viene spesso dipinta.

Per concludere, il culto imperiale subì un certo declino durante la crisi del III secolo, con una generale perdita di prestigio e di solidità dell’istituzione imperiale stessa. Si tentò poi di ripristinarlo durante la tetrarchia, perseguitando contestualmente i cristiani che rifiutavano di praticarlo. Tuttavia, contrariamente alle apparenze, il culto imperiale non cessò col trionfo del cristianesimo, ma semplicemente si trasformò. L’imperatore non poteva ovviamente essere un dio, essendo Dio uno solo; tuttavia non era nemmeno un uomo come tutti gli altri, ma un intermediario fra Dio e gli uomini, scelto direttamente da Dio (e non dal Senato o dall’esercito) per essere un Suo strumento sulla terra. Oltretutto, l’imperatore pagano era sì un dio, ma uno fra i tanti e nemmeno il più importante; quello cristiano rappresentava invece l’unico vero Dio in cui si credesse. Questa concezione sarebbe perdurata anche dopo il 476, nel medioevo e oltre, e fu una delle cause profonde dello scontro tra impero e papato. Perfino Napoleone, che si ritiene fosse ateo, nell’essere incoronato imperatore con la Corona ferrea, avrebbe detto: “Dio me l’ha data, guai a chi la tocca!”.

Filippo Molteni
[1] Tacito, Annales I, 2, traduzione di Bianca Ceva.
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