De Urbe condita: sulla nascita di Roma

De Urbe condita: sulla nascita di Roma

È un albero, la pianta più maestosa che abbia mai visto. Il tronco è ben visibile, robusto. I suoi rami, lunghe braccia possenti, si ergono fino al cielo e oltre, raggiungendo la casa degli immortali. I suoi fiori abbelliscono l’intero mondo. I suoi frutti sfamano interi popoli. Le sue foglie, verdi e rigogliose, lo arricchiscono, rendendolo la creatura più bella e invidiata. Musa di pittori e poeti, salvezza per molti. Emblema di eternità, di gloria. Similmente a tutto ciò che in questo mondo appare sovraumano, opera del divino, le sue radici sono nascoste nel terreno, invisibili all’occhio. Uno spesso strato di fango, terra e detriti ne infittiscono la trama, annebbiando il meraviglioso disegno che tutti desiderano ammirare. Come è nato questo albero? Quanto in profondità scava la terra? Quali sono le origini del nostro albero eterno, della nostra Roma?

Nella nebbia prendono forma i miti, racconti che cercano di sopperire alla mancanza di informazioni, donando un valore simbolico e religioso ad eventi apparentemente inspiegabili. Per ciò che concerne la nascita dell’Urbe, sono state narrate, scritte e tramandate numerose leggende, alcune connesse tra loro, altre che, simili a linee parallele, tracciano il loro corso senza mai incrociarsi.

Virgilio, Livio, Dionigi di Alicarnasso sono solamente alcuni degli autori che hanno tentato di rispondere alla grande domanda: come è nata Roma?

Varrone, storico latino, fece risalire il dies natalis romano al 21 aprile 753 a.C.[1], data importante anche nell’ambiente greco, dove stava prendendo avvio la democrazia ateniese con l’avvento degli Arconti. L’intento di Varrone, al quale faranno seguito molti altri autori, era evidentemente quello di unire le radici della città eterna con quelle della grande Grecia, donando onore e prestigio a questa neonata città latina, spora dell’evolutissimo mondo greco.

Durante il principato augusteo, la necessità di donare lustro alle origini dell’Urbe – e, conseguentemente, anche alla discendenza del princeps – si fece sempre più pressante.

Virgilio diede vita alla leggenda dell’eroe troiano Enea, figlio della dea Venere e del mortale Anchise, fuggì alla distruzione di Troia, portando con sé il padre Anchise sulle spalle ed il figlio Ascanio, chiamato dai latini con il nome di Iulo. Imbarcatosi assieme ad alcuni compagni, prese il mare.

Una tempesta provocata da Giunone fece naufragare i troiani sulle coste cartaginesi, dove vennero accolti dalla regina Didone, anch’ella esule greca dopo la morte del primo marito Sicheo. Enea, reso ancora più affascinante dall’intrusione della madre Venere, ammaliò gli occhi della regina e ne conquistò l’animo con i racconti delle sue vicissitudini.

Didone accecata dal furor, cedette alla passione con l’eroe troiano, provocando l’ira di Iarba, re dei Getuli, il quale era stato rifiutato in passato dalla regina.

Iarba invocò il re degli dèi, pregandolo di volgere i suoi occhi verso quelle terre, osservando l’affronto che gli era stato rivolto.

Per volere di Giove, Enea ricevette la visita inaspettata di Mercurio, messaggero degli dèi, venuto a ricordare al troiano il volere degli immortali. Enea abbandonò Didone, lasciò le coste cartaginesi, imbarcandosi alla volta del Lazio.

Arrivato alla foce del Tevere, vinto il leggendario scontro con Turno, re dei Rutuli, Enea sposò Lavinia, figlia del re Latino, e fondò la città di Lavinium, seguendo ciò che Giove aveva lui ordinato.

Il figlio Iulo diede origine alla città di Alba Longa, governata dai suoi discendenti, fino a quando il potere non giunse nelle mani di Numitore.

La figlia di Numitore, Rea Silvia, incoraggiata dallo zio paterno Amulio, diventò vestale e, in quanto tale, obbligata a rispettare il voto di castità. Marte, dio della guerra, si invaghì della ragazza.

Nell’Antica Roma, la donna era considerata incapace di resistere ai suoi impulsi, passioni, sentimenti e nemmeno Rea Silvia fu immune a tale condanna: dalla loro unione nacquero i gemelli Romolo e Remo. Tuttavia, a causa della grave colpa di cui si era macchiata – aver infranto il voto di castità – Rea Silvia fu sepolta viva ed i gemelli, lasciati in una cesta, furono abbandonati alle correnti del Tevere.

La leggenda narra che la cesta si impigliò tra i rami del fico Ruminale. I gemelli, con i loro vagiti, attrassero una lupa, che li allattò. Successivamente, furono cresciuti dal pastore Faustolo. Molto probabilmente, i bambini vennero allattati dalla moglie di Faustolo, la quale si era guadagnata il soprannome di “lupa[2] per il suo passato da prostituta.

Divenuti adulti, i gemelli vennero a conoscenza delle loro origini: sconfissero lo zio Amulio e riconsegnarono il regno di Alba Longa nelle mani del nonno Numitore. Ritornarono sulle rive del Tevere, dove decisero di fondare una nuova città: Roma.

Si racconta che per stabilire chi avrebbe dovuto regnare sul nuovo regno, i fratelli decisero di affidarsi al volere degli dèi, espresso tramite il volo degli uccelli. Remo avvistò per primo sei avvoltoi dalla sua postazione sull’Esquilino. Romolo, poco tempo dopo, ne avvistò dodici dalla sua postazione sul Palatino. L’impossibilità di stabilire se fosse più rilevante il fattore tempo o quantità portò ad uno scontro armato, durante il quale Remo perse la vita.[3]

Romolo tracciò un solco limitando l’area dalla quale aveva avvistato i dodici avvoltoi: diede origine ad un luogo sacro ed inviolabile, il templum, che garantiva il diritto d’asilo a chiunque vi si rifugiasse.

Romolo regnò su Roma fino all’ultimo dei suoi giorni, portando la pace con i popoli confinanti ed un’alleanza con il popolo dei Sabini, governato da Tito Tazio. La sua morte, narrata da Livio, è ancora oggi avvolta da una nube di mistero.

“Dopo aver compiuto queste opere immortali, mentre teneva un’assemblea nel campo presso la palude della Capra, per passare in rassegna l’esercito, una tempesta scoppiata all’improvviso con gran fragore e tuoni avvolse il re con una nuvola così spessa che tolse la vista di lui all’assemblea; e Romolo non fu più in terra.”[4]

Colui che piantò il seme dell’albero più maestoso, colui che per primo nominò Roma, ebbe una fine tanto enigmatica quanto le radici della nostra amata pianta: venne inghiottito dal cielo.

 

Sabina Petroni

 

[1] Varrone effettuò un calcolo approssimativo a partire dalla data del 509 a.C., anno durante il quale venne cacciato l’ultimo re Tarquinio il Superbo e proclamata la repubblica. Varrone ipotizzò che ogni re avesse regnato per 35 anni – cifra alquanto inverosimile viste le prospettive di vita dell’epoca.

[2] Dal sostantivo latino lupa, ae : prostituta.

[3] Un’altra versione del mito narra che Remo perse la vita, per mano del fratello, per aver sorpassato il pomerium, ovvero il solco sacro della città di Roma.

[4]His immortalibus editis operibus cum ad exercitum recensendum contionem in campo ad Caprae paludem haberet, subito coorta tempestas cum magno fragore tonitribusque tam denso regem operuit nimbo ut conspectum eius contioni abstulerit; nec deinde in terris Romulus fuit.” Livio, Ab Urbe Condita, I, 16.

 

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