Giuliano l’Apostata: il custode del mos maiorum

Giuliano l’Apostata: il custode del mos maiorum

 

“Aveva tutte le qualità di Traiano; tutte le virtù di Catone, tutte le qualità che ammiriamo in Giulio Cesare; ed ebbe anche la continenza di Scipione. Infine, egli fu in ogni cosa pari a Marco Aurelio, il primo degli uomini”. (Voltaire)

 

Il regno di Giuliano é stato brevissimo, ma ha lasciato un segno nella Storia.

Molto é stato scritto su questo imperatore nel corso dei secoli per infangarlo o per elogiarlo e, ancora oggi, si porta dietro il marchio di “Apostata” per aver rinnegato la religione cristiana, tentando di restaurare il paganesimo.

Nei libri di scuola, generalmente, un trafiletto é dedicato a questo sovrano, a dispetto del suo insigne antenato Costantino la cui statua oggi campeggia vittoriosa sul sagrato della Basilica di San Lorenzo Maggiore a Milano, la stessa città dove nel 313 d.C., un anno dopo la celebre battaglia di Ponte Milvio contro Massenzio, Costantino stesso, d’intesa con il cognato Licinio, promulgò il famoso editto che concedeva ai cristiani la libertà di culto, sancendo la fine delle persecuzioni contro di loro.

Solo decenni più tardi, nel 380, gli imperatori Graziano, Teodosio I e Valentiniano II avrebbero promulgato l’editto di Tessalonica con cui il cristianesimo veniva proclamato religione di Stato e il paganesimo bandito con il divieto di officiarne i riti e di frequentarne i templi.

Costantino non visse così a lungo per assistervi, ma é indubbio che la sua scelta politica di tolleranza verso i cristiani o “Galilei”, come qualcuno li chiamava, cambiò in modo significativo il corso degli eventi, specie dopo che egli sconfisse Licinio, “Augusto d’Oriente” nel 324, potendo così finalmente governare su un Impero unificato fino alla morte, avvenuta tredici anni dopo.

I funerali ebbero luogo in forma solenne nella capitale da lui stesso fondata sulle rive del Bosforo e definita la “seconda Roma”, Costantinopoli e, per la precisione, nella Chiesa dei Santi Apostoli, a testimonianza dell’ormai sempre maggiore influenza del culto cristiano nelle alte sfere del potere pubblico e, segnatamente, nella casata imperiale.

Volendo ricercare il più grave errore commesso da Costantino quando era in vita, si potrebbe certamente imputargli di non aver pianificato con lungimiranza la sua successione onde garantire pace e stabilità.

Difatti, numerosi erano i pretendenti al trono e tutti risiedevano nel palazzo imperiale di Costantinopoli dove molto presto vi sarebbe stata una drammatica resa dei conti.

In primis, vi erano i discendenti diretti di Costantino, ossia i figli Costanzo II, Costante e Costantino II, nonché le figlie Elena e Costantina.

In secundis, vi era Giulio Costanzo, nato dalle seconde nozze di Costanzo Cloro, padre di Costantino, con Teodora e che, a sua volta, aveva avuto due figli maschi da mogli diverse, Gallo e il piccolo Giuliano che nel 337 aveva sei anni.

Il cadavere del primo imperatore cristiano non si era ancora raffreddato quando, appena due mesi dopo la sua scomparsa, un’immane tragedia si abbatté sulla vita di Giuliano, testimone involontario del massacro di tutti i suoi parenti, il padre, lo zio e diversi cugini, tutti membri del ramo cadetto della dinastia costantiniana, passati a fil di spada nel cuore della notte dai soldati della Guardia Palatina.

Messo in salvo insieme al fratellastro maggiore Gallo da due sacerdoti, Giuliano serbò sempre nella memoria questo ricordo indelebile che, nel tempo, avrebbe alimentato un profondo rancore nei confronti del cugino Costanzo II.

Il ruolo di quest’ultimo nelle strage é ancora dibattuto e non é chiaro se fu lui il mandante diretto.

Sta di fatto, comunque, che le fonti storiografiche sono concordi nel descrivere Costanzo come un sovrano mediocre, geloso, avido e vendicativo, non meno peraltro dei fratelli Costantino II e Costante i quali perirono entrambi di morte violenta, l’uno per mano di uomini al servizio di Costante stesso e quest’ultimo, invece, per ordine di un usurpatore di nome Magnenzio.

Le trame oscure, la segretezza e la paura del tradimento caratterizzarono l’intera esistenza di Giuliano, ultimo esponente, per ordine di nascita, della stirpe dei nuovi Flavi, iniziata nel 268 d.C. con l’ascesa al soglio imperiale di Claudio II il Gotico.

Quella tragica notte egli era stato risparmiato, ma il sangue nobile che scorreva nelle sue vene lo rendeva pericoloso, ragion per cui venne inviato dalla nonna materna a Nicomedia il cui vescovo, lo stesso che aveva battezzato Costantino in punto di morte, si impegnò a garantire al bambino un’educazione rigorosamente cristiana.

Proprio a Nicomedia, Giuliano conobbe una delle poche persone davvero importanti nella sua crescita umana e spirituale, vale a dire Mardonio, insegnante di retorica e grammatica che lo introdusse alla lettura di Omero ed Esiodo e allo studio della cultura classica in generale.

Nel suo precettore egli trovò anche quella figura paterna che troppo presto gli era stata strappata e per tutta la vita ripenserà a lui con grande nostalgia.

Formalmente cristiano alle soglie dell’adolescenza, ma già amante della civiltà ellenica, Giuliano soffrì molto per il distacco da Mardonio e dalla nonna quando, morto il vescovo Eusebio, venne ricongiunto al fratellastro Gallo nella sperduta località di Macellum, in Cappadocia, in una sorta di esilio dorato nel corso del quale i due furono istruiti e, soprattutto, sorvegliati per conto di Costanzo II da una nutrita schiera di vescovi, presbiteri, monaci e teologi.

Nuovamente separati nel 348, Giuliano si recò a Costantinopoli dove rincontrò con immensa gioia il maestro Mardonio e condusse una vita molto semplice, dividendosi tra lo studio e la partecipazione a messe e processioni, com’era dovere di ogni membro della famiglia imperiale.

Egli era un uomo qualunque, persino anonimo e, tuttavia, proprio questo suo comportamento ingenuo ed informale gli attirò le simpatie della gente del posto, cosa che fece storcere non poco il naso a Costanzo, per nulla amato dai suoi sudditi e che decise di correre ai ripari, mandando via il cugino il quale, diciottenne, fece ritorno a Nicomedia ed ivi rimase dal 349 al 354.

D’altra parte, si rivelò una mossa del tutto errata, dato che in città Giuliano venne a contatto con gli insegnamenti ed il pensiero del retore Libanio, alfiere della fazione pagana che sognava la riscossa contro l’oscurantismo cristiano.

Egli venne iniziato allo studio della filosofia neoplatonica di Plotino e fu allora che, per la prima volta, cominciò davvero a mettere in discussione la veridicità di ciò che gli era stato inculcato fin dall’infanzia sulla religione dei “Nazareni”.

In verità, in quegli stessi anni Costanzo II aveva ben altre gatte da pelare poiché, una volta sconfitto e ucciso l’usurpatore del trono Magnenzio già responsabile, come ricordato, della morte del fratello Costante, egli si ritrovò a fare un bilancio della situazione che, nel complesso, risultava tragica.

Costanzo non aveva ancora un figlio maschio e il ramo collaterale della dinastia era stato a suo tempo sterminato, fatta eccezione ovviamente per Gallo e Giuliano dei quali l’uno, viziato e superficiale, trascorreva il suo tempo tra feste ed avventure amorose e il secondo, inadatto alla politica, immerso nello studio che costituiva il suo unico interesse.

Costanzo non ebbe molta scelta e il 15 marzo del 351 elevò Gallo alla dignità di Cesare, riesumando in tal guisa la “tetrarchia”, vale dire la riforma con cui Diocleziano aveva suddiviso le province dell’Impero in occidentali e orientali : le prime governate da un Augusto e un Cesare, colleghi tra loro e le seconde da un altro Augusto e un altro Cesare.

Proprio nella sua nuova veste di “Cesare d’Oriente”, Gallo fece sosta a Nicomedia dove ebbe modo di riabbracciare Giuliano dopo lungo tempo e quello sarebbe stato il loro ultimo incontro della vita.

Il loro rapporto era stato sempre discontinuo per via del corso degli eventi e la diversità caratteriale che li separava era siderale, ciononostante Giuliano nutriva affetto verso Gallo la cui cooptazione per la vita politica fu un vero sollievo per Giuliano stesso, convinto di poter trovare finalmente il vero equilibrio nella sapienza e nella ricerca della verità.

La sua fede cristiana era sempre più flebile, di mera facciata e non gli dava le risposte cui anelava, pertanto si gettò a capofitto in uno studio più approfondito del neoplatonismo che durante il IV secolo mirava a contrastare la crescente diffusione del monoteismo cristiano, preservando la cultura greca e, al contempo, rivisitandola e integrandola con la teoria dell’Uno, origine dell’intero universo e del quale gli dei non erano altro che ipostasi.

Affinando gli insegnamenti di Plotino, i suoi discepoli Porfirio e Giamblico speravano così di forgiare una religiosità nuova che andasse a soddisfare, in luogo del cristianesimo, il bisogno dei singoli di un rapporto diretto con il trascendente, nonché di un’etica superiore.

Questa sorta di “monoteismo pagano”, d’altra parte, non era affatto estraneo alla società romana, atteso che già nel III secolo l’imperatore Aureliano, che per le sue imprese militari si meritò l’appellativo di restitutor orbis, aveva introdotto il culto di matrice orientale del Sole invictus.

Si trattò, in verità, di un’iniziativa altamente simbolica: se nulla poteva esprimere l’idea di perfezione meglio del Sole, il predetto culto era congeniale alla celebrazione della ricostituita unità ed universalità dell’Impero, ritrovatosi sull’orlo del precipizio durante la c.d. “anarchia militare”.

Nessun popolo prima di quello romano era riuscito ad integrare culture tanto diverse tra loro e a farle coesistere pacificamente, portandole a riconoscersi in un bacino valoriale comune, meglio noto come mos maiorum, di conseguenza per i neoplatonici non vi era nulla di strano nell’innervare alcuni tratti positivi del cristianesimo nella tradizione pagana al fine di rafforzarla.

Costanzo accolse senza riserve la richiesta di Giuliano di lasciare Nicomedia per viaggiare tra la Grecia e l’Anatolia e migliorare la sua istruzione, salvo comunque assegnargli una scorta che non lo perdesse mai d’occhio.

Da Pergamo ad Efeso fino ad Eleusi, dove fu introdotto ai relativi Misteri, il giovane principe fece un vero e proprio “tour” immerso nell’ellenismo e fu anche, suo malgrado, testimone diretto della distruzione di un santuario dedicato a Demetra per mano di una folla inferocita di cristiani.

Davanti all’altare di Pergamo, una delle Sette Meraviglie del mondo antico, mentre era in compagnia di un giovane sofista di nome Antonino, sentì pronunciare da costui le seguenti parole : “Gli dei dell’Olimpo hanno sconfitto gli antichi dei, ma adesso, a loro volta, saranno sconfitti dai nuovi dei. I loro templi diventeranno sepolcri (…). Noi, retori, sofisti, sapienti, poeti, artisti, amanti della sapienza ellenica, siamo ormai inutili. Siamo nati troppo tardi. È finita!”.

Giuliano replicò timidamente : “E se non fosse così?”.

Egli non era certo un capo, non si intendeva di politica né di arte militare, pur avvertendo comunque il pericolo che tradizioni millenarie fossero cancellate dal dogmatismo e dall’intolleranza dilaganti.

I pagani d’Oriente vedevano in lui, il nipote di Costantino, un’ultima tenue speranza di riportare indietro le lancette della Storia ma Giuliano, invece, vedeva se stesso come uno scolaro umile e schivo e null’altro voleva essere.

Purtroppo, i suoi piani vennero scombinati quando la fortuna smise di arridere a Gallo il quale si dimostrò un pessimo amministratore della cosa pubblica.

Benché fosse troppo sregolato e inetto per costituire una vera minaccia, Costanzo II, da sempre paranoico e insicuro, non esitò a ordinarne la decapitazione, avvenuta a Fianona, nei pressi di Pola, dove molto tempo prima era stato giustiziato uno dei figli di Costantino, Crispo, per una relazione illecita intrattenuta con Fausta, seconda moglie del padre.

Correva l’anno 354 e Giuliano si convinse che fosse giunta la sua ora, dato che non solo fu informato delle tragiche circostanze della morte del fratellastro, ma ricevette altresì l’invito ufficiale di Costanzo a recarsi da lui a Milano, nuova capitale dell’Impero d’Occidente a seguito dell’attuazione della riforma della “tetrarchia” da parte di Diocleziano.

Giuliano era scampato miracolosamente alla morte da bambino quando assistette al massacro della sua famiglia, eppure quello spettro non lo aveva mai abbandonato e, uscito di scena Gallo, era rimasto davvero solo al mondo; d’altro canto, non poteva sapere che il Fato avesse in serbo per lui un altro destino.

Arrivato a Milano, seppe che il cugino si era dovuto recare in tutta fretta in Gallia dove gli Alamanni, violato il limes, stavano mettendo a ferro e fuoco città e campagne, quindi fu congedato e spedito ad Atene dove tornò a seguire le lezioni di filosofia neoplatonica.

Sennonché, ben presto fu riconvocato a Milano con la massima urgenza e lì accadde ciò che non avrebbe mai potuto immaginare : come racconta lo storico Ammiano Marcellino, testimone oculare dei fatti, il 6 novembre del 355, giorno del suo  ventiquattresimo genetliaco, dinanzi alle legioni radunate in perfetto ordine e che battevano gli scudi sulle ginocchia, Giuliano fu investito da Costanzo della porpora imperiale e a lui associato come nuovo Cesare d’Occidente.

Perché questa mossa?

Costanzo, sposato con la scaltra e bellissima Eusebia, non aveva discendenti diretti maschi e Giuliano era il suo ultimo parente rimasto in vita dopo anni di congiure, stragi e lotte civili.

A ciò si aggiunse la necessità di arginare una volta per tutte l’invasione della Gallia da parte dei barbari, ricacciandoli oltre il confine : se Giuliano ci fosse riuscito sarebbe stato un eroe, in caso contrario di lui si sarebbero sbarazzati gli Alamanni.

Come rammentato, Costanzo non brillò mai per senso di umanità e la decisione di inviare il cugino su un fronte caldo come quello del Reno era chiaramente frutto di un cinico calcolo politico.

Non é dato sapere se egli fosse preda di rimorsi di coscienza per i crimini commessi e se per questo motivo decise di non sporcarsi le mani col sangue di Giuliano.

Secondo taluni, invece, ad indirizzare l’Augusto verso questa decisione fu proprio la consorte Eusebia, donna di elevata istruzione e non insensibile, quindi, al fascino culturale del giovane Cesare con il quale, secondo taluni, ebbe anche un’intesa sentimentale.

In ogni caso, la sua vita fu d’improvviso stravolta : costretto ad abbandonare l’otium da lui tanto amato, nonché celebrato a suo tempo da Cicerone come delizia degli intellettuali, fu catapultato negli accampamenti militari e chiamato ad assolvere altresì al delicato compito di amministratore di provincia, per di più in tempo di guerra.

Giuliano però non temeva le sfide, era tenace, aveva sempre condotto uno stile di vita improntato alla sobrietà, quindi umilmente e di buona lena, come attestato nelle sue Storie da Ammiano Marcellino che serviva in Gallia da soldato, egli si sottopose al duro addestramento del legionario per imparare a combattere e, inoltre, trovò un prezioso amico e consigliere in un uomo di origine gallica, ma romano di formazione, Secondo Saturnino Sallustio.

Questi aiutò il giovane sovrano a destreggiarsi nelle insidie amministrative della burocrazia e, da imperatore, lo avrebbe aiutato nella veste di prefetto del pretorio a realizzare il programma di restaurazione del paganesimo.

Ogni re o imperatore o generale dell’antichità, il cui nome é scolpito negli annali, é ricordato per la vittoria riportata in una battaglia importante: Gaugamela per Alessandro Magno, Canne per Annibale, Zama per Scipione, Alesia per Giulio Cesare.

Orbene, nel caso di Giuliano, lo scontro avvenuto a Strasburgo nel 357 contro Cnodomario, re degli Alamanni, rappresentò per lui la definitiva consacrazione di condottiero agli occhi dei soldati.

Dai tempi della conquista della Gallia da parte del “Divo Giulio”, i barbari subivano una pesantissima sconfitta che li costrinse a ritirarsi al di là del Reno, lasciando liberi i territori precedentemente occupati ad ovest del fiume, ma questo a Giuliano non bastava, perciò onde evitare future incursioni ed emulando proprio le gesta di Cesare, si spinse oltre il Reno per colpire il nemico in profondità.

Non era sua intenzione intraprendere una campagna di conquista, d’altro canto egli mise a frutto una consolidata strategia dell’Impero romano, benevolo con chi si sottometteva e, al contrario, inflessibile con chiunque mettesse in pericolo le sue frontiere.

Il piano di Giuliano era per l’appunto questo: attraversare il Reno a nord e imporre la pace, costringendo con il ferro i capi barbari scampati a Strasburgo a fare atto di obbedienza a Roma e vi riuscì.

Come Germanico aveva lavato l’onta di Teutoburgo nel 16 d.C., sconfiggendo Arminio nella battaglia dell’Idistaviso, parimenti Giuliano, che non intendeva lasciare conti in sospeso, annientò uno dopo l’altro tutti i nemici che gli si pararono davanti, arrivando quasi all’Elba e gli sconfitti furono sì perdonati, ma costretti a marciare a testa bassa davanti a lui che li osservava imperturbabile, seduto su uno scranno.

La pace in Gallia era stata ristabilita e il nome di Giuliano, già venerato dalle truppe, al di là del limes suscitava terrore nei barbari solo a pronunciarlo: colui che era arrivato in provincia da scolaro timido e riservato, si era trasformato in un valente stratega e in un oculato amministratore degli affari civili, mettendo decisamente in ombra suo cugino Costanzo.

Ora che l’Occidente era militarmente al sicuro, cosa fare del giovane Cesare che tanto brillante aveva dimostrato di essere contro ogni aspettativa?

Costanzo, geloso dei successi del rivale, nell’anno 360, facendo leva sul pretesto di dover raccogliere truppe per l’imminente attacco contro l’eterno nemico di Roma ad Oriente, i Parti, inviò una missiva al cugino con cui gli ordinava di congedare le sue legioni che avrebbero dovuto mettersi subito in marcia alla volta di Costantinopoli.

Per tutta risposta, i legionari stanziati a Lutezia, oggi Parigi, si ammutinarono e acclamarono Giuliano come nuovo imperatore.

Il giorno prima della battaglia di Ponte Milvio, suo zio Costantino, secondo la leggenda, sognò una croce in cielo accompagnata dalla scritta In hoc signo vinces, a testimonianza che Massenzio, fervente pagano, sarebbe stato sconfitto in quanto inviso al Dio dei cristiani.

In modo speculare, la notte prima dell’incoronazione da parte dei militari, Giuliano vide apparirgli in sogno il Genius publicus, ossia il Nume protettore dello Stato romano e ciò significava che la sua impresa, per quanto rischiosa fosse, godeva del favore degli dei dell’Olimpo cui egli non poteva sottrarsi.

Venuto a conoscenza del tradimento commesso, Costanzo II, furente e desideroso di chiudere la partita, si mise in marcia alla testa dell’esercito per andare incontro a Giuliano e questi fece altrettanto.

Era così arrivato il momento dello scontro finale, troppo a lungo rimandato tra i due cugini: Costanzo era responsabile dei lutti familiari di Giuliano il quale, d’altro canto, proprio per le scelte di Costanzo stesso, era diventato alla fine Augusto d’Occidente.

Una nuova guerra civile stava per scatenarsi, eppure nuovamente la buona sorte favorì Giuliano che, raggiunta Naisso in Tracia ed ivi stabilito il proprio quartier generale, fu informato dell’avvenuta morte dell’avversario, a causa di una febbre improvvisa e letale.

Così accadde che l’ultimo discendente vivente di Costantino il Grande, senza versare una sola goccia di sangue romano, fosse ormai padrone indiscusso di tutto l’Impero, dalla Spagna alla Mesopotamia, dal Nordafrica alla Britannia.

Prima orfano, poi scolaro, poi ancora generale, infine imperatore e soprattutto dichiaratamente pagano, giacché per celebrare la sua ascesa al trono officiò personalmente dei sacrifici in onore di Zeus e di Helios al quale dedicò persino un Inno, manifesto del monoteismo solare e neoplatonico che Giuliano, da Pontefice Massimo, contrappose alla fede cristiana rispetto alla quale egli non dovette più nascondere il suo disprezzo.

Correva l’anno 361, Flavio Claudio Giuliano aveva trent’anni appena compiuti e, preso il potere, non perse tempo a intraprendere la sua azione riformatrice.

Sarebbe troppo ardito affermare che con lui si materializzò la “Repubblica dei filosofi” teorizzata da Platone, ciononostante il neoplatonismo e le vaste conoscenze accumulate in anni e anni di letture e studio indefesso, anche durante la campagna in Gallia, influenzarono non poco i provvedimenti adottati dal nuovo Augusto.

Da sempre votato all’ascetismo e alla rettitudine morale, in primis licenziò gran parte del personale della corte di Costantinopoli, dando luogo in seno a tutta l’amministrazione ad una drastica riduzione della spesa pubblica nei suoi capitoli superflui.

In secundis, prendendo esempio dai grandi sovrani colti e illuminati del passato quali Augusto, Traiano e Marco Aurelio, instaurò con il Senato della Seconda Roma un rapporto fondato sul reciproco rispetto e sulla cogestione, invero più formale che sostanziale, del potere.

Centrali furono la politica religiosa e quella scolastica, strettamente connesse.

Egli non ordinò mai alcuna persecuzione contro i cristiani, piuttosto si premurò di attuare una reale e pacifica coesistenza tra le varie fedi, enunciata in modo solenne nell’editto di Milano, ma rimasta sulla carta.

Costantino e i suoi successori si erano totalmente disinteressati della crisi del paganesimo, anzi l’avevano alimentata a colpi di leggi che foraggiavano con il denaro dei contribuenti le esenzioni fiscali del clero – tra le quali l’utilizzo gratuito del cursus publicus o servizio di posta imperiale e la dispensa dai munera publica – e la costruzione delle chiese, mentre i templi dei Numi olimpici cadevano a pezzi oppure venivano distrutti da frotte di fanatici, spesso con la tacita connivenza delle autorità imperiali.

L’atteggiamento di Giuliano verso la religione di Cristo é ben riassunto nei passaggi salienti di due lettere, indirizzate l’una al filosofo Massimo di Efeso e l’altra al governatore Atarbio.

Nella prima scrisse : “Ora pratichiamo il culto degli dei apertamente… Celebriamo i sacrifici in pubblico. Abbiamo ringraziato gli dei con molte ecatombi. Gli dei mi ordinano di purificare tutto … e io gli ubbidisco con entusiasmo”.

Nella seconda : “Non voglio che i Galilei siano uccisi, né che siano percossi ingiustamente, né che subiscano altri torti. Quello che dico é che bisogna preferire a loro gli adoratori degli dei”.

Giuliano, per un verso, sostenne finanziariamente la causa pagana con la riapertura e la ristrutturazione dei santuari e la ripresa delle liturgie abbandonate e, per l’altro, provvide altresì a mettere zizzania tra i cristiani, richiamando dall’esilio diversi vescovi della Chiesa in modo che riprendessero gli attriti tra le varie fazioni con accuse reciproche di eresia ed il conseguente indebolimento dell’istituzione ecclesiastica.

Provvedimento simbolico, in questo progetto di restaurazione religiosa, fu nel 362 la ricollocazione nel Senato di Roma del celebre Altare della Vittoria, rimosso da Costanzo cinque anni prima e sopra il quale i senatori dell’Urbe poterono finalmente riprendere a bruciare granelli di incenso in omaggio alla divinità, come imponeva la tradizione.

In Oriente dove il cristianesimo si era diffuso in misura maggiore, i pagani, galvanizzati, rialzarono la testa e, in certi casi, si resero protagonisti di rappresaglie premeditate contro i cristiani.

Come ricordato, Giuliano non diede mai ordini in tal senso e dispose affinché nelle province vi fosse da parte dei governatori un’opera di “moral suasion” per indurre i convertiti a riabbracciare il credo negli dei e, al contempo, scoraggiare nuove adesioni al cristianesimo.

D’altro canto, pur informato delle suddette violenze che di tanto in tanto si verificavano, l’imperatore non intervenne mai con mano ferma per punire i responsabili verso i quali tenne una condotta ambigua, tendendo a chiudere un occhio.

Devoto di Mitra e dei culti misterici di origine orientale, come pure degli dei del tradizionale Pantheon occidentale, l’imperatore ben presto fu costretto a prendere atto della scarsa efficacia delle sue riforme che non avevano minimamente inciso in positivo sul numero dei frequentatori dei templi né sulla qualità del clero pagano.

Quello cristiano, all’opposto, era molto preparato a livello teologico, con una sua dottrina, gerarchicamente organizzato con una disciplina ferrea, attivo nel sociale con l’assistenza dei poveri e degli ammalati e le chiese erano sempre stracolme di fedeli al momento della predica dal pulpito.

Di fronte all’insuccesso della sua rivoluzione “conservatrice”, l’Augusto il 17 giugno del 362 promulgò la costituzione imperiale Magistros studiorum che interdiva ai cristiani l’insegnamento nella scuola pubblica e, nei mesi seguenti, espulsioni analoghe si verificarono negli altri rami della Pubblica Amministrazione.

Lungi dal voler equiparare tali provvedimenti ad altri similari e aberranti adottati dai totalitarismi del Novecento, va subito precisato, a scanso di equivoci, che il pregiudizio di Giuliano verso i seguaci di Cristo era prettamente intellettuale.

Basti pensare, invece, al suo tentativo di ricostruire il Tempio di Gerusalemme, al fine peraltro di ottenere l’appoggio della comunità ebraica in funzione anticristiana.

Dovendo contestualizzare, va ricordato che egli era stato educato fin da bambino come un cristiano anche con metodi poco edificanti e proprio un sovrano cristiano, Costanzo II, era stato il responsabile materiale e morale dello sterminio della sua famiglia.

A ciò si aggiunsero gli insuccessi summenzionati nel programma di rinnovo del paganesimo e, pertanto, Giuliano ritenne di dover andare alla radice del problema, impedendo, in modo deplorevole per noi moderni lettori, che nella burocrazia e nella scuola vi fossero dipendenti dello Stato seguaci di una fede, quella cristiana, ritenuta del tutto incompatibile con il politeismo e i suoi grandi maestri, da Omero ad Esiodo, da Demostene a Tucidide.

Emblematica é la frase scritta da Giuliano stesso in una circolare esplicativa, allegata al provvedimento in oggetto : “Chiunque pensi una cosa e ne insegni un’altra ai suoi allievi mi sembra dunque venir meno al suo compito di educatore, nello stesso modo in cui viene meno al suo dovere di essere un uomo onesto”.

Tuttavia, ancora mancava un tassello nel mosaico che si andava a comporre. L’imperatore aveva epurato gli uffici pubblici, centrali e locali, dalla presenza cristiana e privato il clero dei privilegi fiscali e legali del passato, disposto la restituzione ai pagani dei beni illecitamente loro sottratti, dato ossigeno ai contadini e ai piccoli proprietari terrieri con un fisco più equo e ridotto al massimo le spese per la sua persona e l’ entourage che lo assisteva, ma non bastava.

Nella mente di Giuliano, affascinato dalla cultura e dalle gesta degli eroi greci, cominciò a prendere forma il sogno di invadere e conquistare la Persia, emulando Alessandro Magno e così, il 5 marzo del 363, la spedizione con lui a capo partì da Antiochia giungendo, di vittoria in vittoria, fino a Ctesifonte, capitale dell’Impero Sasanide, ma non proseguì oltre.

La città era una roccaforte imprendibile, cinta da alte mura e dotata di ogni possibile meccanismo difensivo, frutto dell’esperienza e delle tante invasioni realizzate in quei territori dall’esercito romano nei secoli.

Esclusa l’ipotesi di un assedio che avrebbe logorato le legioni, Giuliano commise lo sbaglio di far bruciare le navi che seguivano le truppe di terra lungo il fiume Tigri e spostò gli uomini verso nord, nella speranza di arrivare ad una battagli campale contro re Sapore II.

Questi, invece, non cadde nella trappola e adottò la tecnica della guerriglia.

Dovunque arrivassero, i Romani trovavano solo terra bruciata e la cavalleria persiana li colpiva ripetutamente, sfiancandoli con rapide ed improvvise incursioni per poi ritirarsi.

La notte tra il 25 e il 26 giugno apparve a Giuliano lo stesso Genius publicus che lo aveva indotto ad accettare la nomina a imperatore in Gallia: adesso, però, vide una figura dimessa, malinconica e con il capo velato.

Turbato da questa visione e, venuta meno la lucidità che lo aveva sempre contraddistinto, il giorno successivo si gettò alla carica, senza armatura, nella mischia per respingere un attacco persiano alla colonna romana e una lancia, per qualcuno scagliata addirittura da un legionario cristiano, lo colpì mortalmente.

Giuliano non aveva ancora compiuto trentadue anni quando il suo cuore smise di battere.

La sua morte ebbe importanti conseguenze a livello geopolitico: un umiliante trattato di pace imposto dai Persiani che fece indietreggiare i confini dell’Impero in Mesopotamia, la fine della dinastia costantiniana e, soprattutto, la scomparsa dell’ultimo custode del mos maiorum.

I cristiani, ricevuta la notizia, giubilarono e immediatamente intrapresero l’opera di demonizzazione letteraria e teologica di Giuliano, attribuendogli il marchio incancellabile di Apostata, oltre che una serie di crimini atroci mai commessi.

E cosa fecero i pagani?

Giova rammentare che, numericamente, costoro erano ancora la maggioranza, specie in Occidente, eppure, senza più un punto di riferimento politico quale Giuliano aveva saputo essere e in mancanza di sacerdoti, riti e luoghi sacri, il paganesimo semplicemente scomparve per inerzia.

Persa nel 378 contro i Goti la battaglia di Adrianopoli nella quale morì lo stesso imperatore Valente, Graziano, Augusto d’Occidente, associò a sé stesso nel 379 come nuovo Augusto d’Oriente Teodosio I e, su impulso di quest’ultimo, l’anno successivo fu emanato l’editto di Tessalonica che per la prima volta, sul piano normativo, vietava espressamente il culto pagano.

Se Giuliano era stato il difensore di una tradizione in gran parte già morente e quasi ridotta in cenere, ebbene Teodosio fece disperdere le ultime ceneri rimaste quando nel biennio 391-392 attuò l’editto di cui sopra con i famigerati Decreti che concretamente dettavano disposizioni e pene per chiunque, anche nel privato, si fosse ostinato a venerare ancora gli antichi dei dell’Olimpo ovvero avesse solo osato volgere lo sguardo alle loro statue ed effigi.

Dieci anni prima, nel 382, il già citato Graziano aveva fatto rimuovere in modo definitivo l’Altare della Vittoria dalla Curia Iulia e furono sempre vani, in seguito, i ripetuti tentativi del senatore Quinto Aurelio Simmaco, considerato il “Cicerone” dell’Età tardo – antica, di ottenerne la ricollocazione originaria.

I padri coscritti, insieme a una ristretta élite intellettuale, di fatto furono gli ultimi a convertirsi al cristianesimo.

Alla civiltà greco – romana concetti come quello di martirio erano totalmente estranei, pertanto leggi come l’editto di Tessalonica e i Decreti Teodosiani inizialmente provocarono rigurgiti e opposizioni, anche violente, ma alla fine persino i pagani più intransigenti preferirono avere salva la vita e abbracciare la fede in Cristo.

Il 24 febbraio del 391, sempre per ordine di Teodosio e sotto l’influenza del Vescovo di Milano Ambrogio, venne spento a Roma il Sacro Fuoco della Dea Vesta, fino ad allora conservato e alimentato in perpetuo dalle Vergini Vestali a protezione dell’eternità dell’Urbe.

Nel 393, dopo più di millecento anni, furono proibite le Olimpiadi, il tempio di Zeus a Olimpia dato alle fiamme e la colossale statua del Padre degli Dei, opera di Fidia e che per più di nove secoli aveva ammaliato fedeli e viandanti, fu rimossa e ricollocata nel palazzo di Lauso, alto funzionario bizantino a Costantinopoli, dove sarebbe stata distrutta da un incendio divampato nel palazzo stesso nel 475.

L’ultimo colpo di coda politico – militare del paganesimo lo si ebbe nel 394 con la ribellione di Eugenio e Arbogaste le cui legioni marciavano sotto le insegne di Eracle e Zeus, sennonché i due furono sconfitti nella battaglia del Frigido da Teodosio e, morto quest’ultimo l’anno seguente, l’Impero fu diviso tra i figli Onorio e Arcadio e non sarebbe stato riunito mai più, con la parte Orientale sopravvissuta fino alla presa turca di Costantinopoli nel 1453, agli albori della scoperta delle Americhe e dell’Età moderna.

Nel V secolo il paganesimo era una brezza leggera che scompigliava i capelli di pochi filosofi e filosofe tra cui Ipazia, uccisa nel 415 da un manipolo di monaci “parabolani” al soldo del vescovo Cirillo il cui zio e predecessore, Teofilo, nel 391 era stato l’istigatore della distruzione ad opera dei cristiani della Biblioteca d’Alessandria, culla del sapere greco.

L’atto finale fu compiuto nel 529, allorché l’imperatore d’Oriente Giustiniano ordinò la chiusura dell’Accademia di Atene i cui maestri e allievi, ancora fieramente pagani, rappresentavano l’ultimo ostacolo all’affermazione della superiorità morale e religiosa del cristianesimo.

Neanche a dirlo, gli ultimi filosofi dell’Età tardo-antica erano neoplatonici e leggevano la raffinata produzione letteraria di Giuliano, fortunatamente giunta fino a noi, in particolare il Contro i Galilei, l’Inno alla Madre degli dei e l’Inno al Re Helios, testimonianze sublimi dell’amore che l’ultimo dei Nuovi Flavi nutriva per la Tradizione di Roma.

Si dovrà attendere più di un millennio perché la figura di Giuliano fosse prima riscoperta con l’avvento del Rinascimento e, poi, con l’Illuminismo di Voltaire ed E. Gibbon pienamente riabilitata.

Mettendo da parte intenti agiografici, a prima vista non vi sarebbe alcuna ragione di celebrare Giuliano.

Del resto, al netto del buon governo e delle mirabili vittorie militari in Gallia, da Augusto fallì sia nel tentativo di restaurare il paganesimo sia in quello di conquistare la Persia.

Ciononostante, la grandezza morale di Giuliano sta proprio nel suo amore incondizionato per la tradizione che egli cercò con tutti i mezzi di salvare.

Egli fu un ottimo stratega e ne diede piena prova a Strasburgo, ristabilendo la solidità del limes lungo il Reno, fu un amministratore oculato che intese trasporre l’austerità della sua vita sull’organizzazione della burocrazia imperiale e, da ultimo, fu un letterario sofisticato che meriterebbe oggi l’appellativo di “Filosofo” e non più di “Apostata”.

In un film, poco apprezzato a suo tempo da pubblico e critica, ossia “Alexander” di Oliver Stone, magnifica é la frase pronunciata da Tolomeo, uno dei luogotenenti di Alessandro Magno : “Gloria e memoria apparterranno per sempre a coloro che seguiranno la propria grande visione”.

Orbene, se vi é una buona ragione per elogiare la figura di Giuliano e collocarla, come fa Voltaire, tra i protagonisti della storia di Roma, é proprio questa : egli, per tutta la sua breve vita, nel bene e nel male, rimase fedele al suo grande sogno di preservare il passato e quei valori spirituali di virtus, pietas e gravitas che avevano plasmato le vite di milioni di persone.

Oggi, in diverse città del mondo, vi sono statue maestose di imperatori romani, da Augusto a Costantino, da Traiano a Marco Aurelio, certo in gran parte dei casi, però, sono state innalzate dai posteri sui rispettivi basamenti nel secolo scorso.

Quanto a Giuliano, invece, colpisce che nel piccolo Comune lucano di Acerenza sia conservato un busto colossale che lo raffigura e che su una pietra della cattedrale del paese sia ancora visibile l’iscrizione : “Al riparatore del mondo romano, al nostro Signore, Claudio Giuliano Augusto, principe eterno”.

Poche e semplici parole che, di diritto, tributano al nostro protagonista, sfortunato in vita, l’immortalità.

 

Bibliografia

Claudio Mutti, “Uomini e dei. Le opere dell’imperatore che difese la tradizione di Roma” – Edizioni mediterranee

Dmitrij S. Merezkovskij, “La morte degli dei” – Castelvecchi Editore

Mario Spinelli, “Il pagano di Dio. Giuliano l’Apostata. L’imperatore maledetto” – Marcianum press

 

Dr. Jacopo Bracciale

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