L’età arcaica del diritto romano e il Ius Civile
L’età arcaica del diritto romano, abbracciando un periodo che comprende gli anni dalla fondazione di Roma nel 753 a.C. alla metà del III secolo a.C., copre nella sua interezza il periodo monarchico dell’Urbe e una considerevole parte della vita repubblicana della città: ciò fa facilmente intuire che la vita del diritto privato non abbia subito grandi stravolgimenti dal repentino cambiamento di regime. E infatti l’antico diritto di formazione consuetudinaria vigente in Roma mantenne inalterata la propria efficacia e la propria applicazione anche nella neonata Res Publica.
Custode esclusivo del ius, in quest’età, fu la classe sacerdotale pontificia alla quale si rivolgevano i cittadini che volessero sapere quale fosse il ius. I pontefici furono i primi giuristi della storia di Roma, e il loro apporto fu assolutamente fondamentale per lo sviluppo del diritto in quanto, tramite un’interpretazione creativa di mores e leges, essi resero possibile la creazione di nuovi istituti – quali adoptio, emancipatio e testamentum per aes et libram – i quali altrimenti, in un sistema giuridico assolutamente povero di schemi e di strutture come il diritto romano arcaico, non avrebbero mai potuto vedere la luce. Custodito quindi dai pontefici, il più antico nucleo del diritto dell’Urbe – qualificatosi dapprima come Ius Quiritium (il diritto dei Quiriti) – regolò le più antiche collettività cittadine romane. Esso era basato su una serie di posizioni giuridiche soggettive assolute, ossia posizioni di potere su persone o cose (diritti e potestà) che si manifestavano tramite un’affermazione di appartenenza, che qualificava una res come propria “ex iure Quiritium”: era l’affermazione della proprietà privata, del “dominium ex iure Quiritium”.
Fonte di questo arcaico diritto erano i mores maiorum, gli antichissimi costumi giuridici di formazione consuetudinaria dei più antichi dei Romani, le cui origini erano così risalenti nel tempo da non essere conosciute nemmeno dai Romani stessi. I principi promananti dai mores ben presto però si rivelarono inadatti per una comunità in continuo sviluppo ed evoluzione: il villaggio di pastori e coltivatori sulle rive del Tevere infatti si stava via via trasformando in una città, la cui influenza era in continua ascesa nel Latium così come nell’intera penisola italica. Si arrivò quindi ben presto ad ammettere deroghe e integrazioni ai mores tramite le leges publicae, provvedimenti normativi che derivavano la propria efficacia dalla volontà popolare, e che, a seconda del loro iter di creazione ed approvazione si suddividevano in leges datae e leges rogatae. Le prime erano perfezionate da un magistrato delegato dal popolo, il quale poi provvedeva a enunciare la lex dinanzi all’assemblea popolare. La più famosa di dette leges datae si ritiene essere la celeberrima lex XII Tabularum, la legge delle Dodici Tavole: la più antica lex scritta della storia di Roma, promulgata nel turbolento periodo di lotte tra patrizi e plebei. Le leges rogatae invece erano quei provvedimenti promulgati su iniziativa del magistrato stesso, il quale, dinanzi all’assemblea del popolo, presentava una propria proposta di legge. Essa veniva letta e successivamente messa ai voti, e, una volta approvata, diveniva efficace, prendendo il nome del magistrato proponente.
Il Ius Civile
Così andò definendosi il ius, il quale, a partire da un momento non precisabile dell’età arcaica, si qualificò come Ius Civile (da civis, cittadino). Le fonti di questo rimasero i mores, l’interpretazione pontificale e le leges, e comprendeva in sé il più risalente Ius Quiritium. Tuttavia, rispetto a questo era assai più ampio, riconoscendo non solo tutti i diritti e le potestà proprie del diritto dei Quiriti, ma anche tutta una nuova serie di posizioni giuridiche soggettive. Esempio di queste importanti novità sono i diritti e i doveri a carattere relativo, caratterizzati dall’esistenza di un vincolo giuridico in virtù del quale un determinato soggetto (il debitore) era tenuto ad un certo comportamento nei confronti di un secondo soggetto (il creditore), che aveva il potere di pretendere il corretto compimento del comportamento in questione. Ora, detta necessità giuridica di mettere in essere il comportamento richiesto era espressa con il verbo “oportere”, che indicava un vincolo esclusivamente di Ius Civile, in quanto non qualificato ex iure Quiritium.
Il processo privato: le legis actiones
Il Ius Civile era il diritto esclusivo dei cives, essendo le potestà e i diritti da esso tutelati e riconosciuti appannaggio esclusivo dei cittadini di Roma. Esso era connotato da un’estrema formalità e tipicità, in quanto un diritto poteva trovare tutela solo per mezzo di un’apposita actio, rigorosamente tipica e quantomai sacrale: un processo civile era di fatto un rito, un sacramento, in cui le due controparti si sfidavano secondo un “cerimoniale” ben definito, la cui efficacia dipendeva anche e sopratutto dal rispetto delle forme stabilite.
Le actiones
Con riguardo alla tipicità, le actiones – lo strumento processuale che consentiva ai cittadini dell’Urbe di veder tutelati in giudizio i propri diritti – erano assolutamente tipiche. Una posizione giuridica soggettiva poteva vedersi tutelata in un processo soltanto se esisteva l’apposita actio, in un vero e proprio capovolgimento di prospettiva rispetto ad oggi: se ai nostri giorni è l’azione che presuppone il diritto soggettivo, a Roma era il diritto soggettivo a presupporre l’azione, e perciò un diritto non poteva definirsi tale se non era posta un’actio in sua tutela.
Le actiones, infine, non individuavano solo le posizioni giuridiche protette dall’ordinamento romano, ma condizionavano anche l’ampiezza stessa dei diritti tutelati. Per esempio, un mutuo non dava luogo, per se, ad interessi a favore del creditore, in quanto l’azione dedicata consentiva unicamente il recupero della somma mutuata, e nient’altro.
Le legis actiones
Durante tutta l’età arcaica del diritto romano, l’unica tipologia di processo privato fruibile dai cittadini di Roma furono le legis actiones. Più che di un processo unitario si trattava di cinque riti processuali distinti, che divergevano per struttura e natura, mantenendo però caratteristiche comuni. Tre di queste legis actiones – sacramenti, per iudicis arbitrive postulationem e per condictionem – erano di cognizione, ossia volte all’accertamento di situazioni giuridiche controverse o incerte, mentre due – per manus iniectionem e per pignoris capionem – erano esecutive, volte quindi ad ottenere l’adempimento delle obbligazioni.
Caratteristiche condivise da tutte le legis actiones erano l’oralità, il rigido formalismo – cristallizzato dall’obbligo in capo alle parti parti di pronunciare certa verba, ossia parole predeterminate che condizionavano il corretto svolgimento del rito compiuto – e il fatto d’essere accessibili solo dai cives; per potersi svolgere il processo era inoltre forzatamente richiesta la partecipazione di entrambi i litiganti, la cui presenza era assicurata dalla “in ius vocatio”. In forza di questo istituto, la parte attrice poteva ingiungere al convenuto di seguirla dinanzi al magistrato, e, in caso di rifiuto, autorizzava l’attore all’uso della forza per trascinare l’altro dinanzi al pretore.
Trattandosi questa tipologia di processo, de facto, non di un procedimento unitario ma di cinque riti distinti, si procederà ora ad analizzarli singolarmente.
La legis actio sacramenti
La legis actio sacramenti era la legis actio qualificata come “generalis”, in quanto era possibile ricorrere ad essa per ogni pretesa per cui non fosse prescritta un’azione apposita. Da ciò derivò il suo largo utilizzo e la sua conseguente longevità.
Esistevano due tipi di legis actio sacramenti: “in rem” e “in personam”. La prima era un’azione reale che garantiva il riconoscimento e la tutela di posizioni giuridiche soggettive assolute: era attraverso questo rito che il proprietario perseguiva la cosa che affermava appartenergli, o l’erede perseguiva l’eredità che diceva spettargli, ad esempio.
La legis actio sacramenti in rem si apriva con la fase in iure, che si svolgeva in presenza del pretore. Presenti entrambe le parti e la cosa controversa, l’attore procedeva ad affermare solennemente la sua proprietà sulla res, toccandola infine con una festuca (vindicatio); il convenuto, se intendeva controbattere all’affermazione della parte attrice, provvedeva a ripetere la medesima formula, toccando infine anch’essa la res controversa con la bacchetta (contravindicatio). A questo punto il pretore ingiungeva alle parti di deporre la cosa, e, fatto ciò, attore e convenuto provvedevano a sfidarsi al sacramentum, un atto ab origine pregno di sacralità e comportante un solenne giuramento, che si andò però trasformando, nel tempo, in una più concreta scommessa da pagare all’erario in caso di soccombenza (50 assi se il valore della lite era inferiore ai 1000 assi; 500 assi se invece il valore della lite superava i 1000 assi). Prestato il sacramentum, il magistrato interveniva nuovamente, emanando un provvedimento (vindicias dicebat) che affidava il possesso interinale della cosa controversa a quella tra le parti che assicurasse l’intervento di più idonei garanti, con l’impegno di restituire la res e tutti i frutti da questa maturati in caso di soccombenza. Il pretore nominava quindi il giudice adito a decidere nel merito sulla controversia, e il processo passava alla sua seconda fase, “apud iudicem”, durante la quale le due parti si adoperavano per dimostrare la fondatezza delle loro pretese: infatti, avendo sia l’attore che il convenuto affermato, con vindicatio e contravindicatio, la loro proprietà sulla res, su entrambi gravava l’onere della prova. Raccolte le prove il giudice decideva infine quale dei due sacramenta fosse iustum (conforme a ius) e quale iniustum (non conforme a ius), imponendo al soccombente di pagare l’importo del rito all’erario e, se a lui assegnato, di restituire al vincitore della lite l’oggetto della controversia.
La legis actio sacramenti in personam, invece, era volta alla tutela di posizioni giuridiche soggettive relative: con essa si perseguivano crediti. Il creditore insoddisfatto poteva quindi agire contro il proprio debitore con questa azione, affermando in iure (dinanzi al pretore) rivolto allo stesso debitore: “Affermo che tu sei tenuto a darmi diecimila. Ti chiedo di ammettere o negare”. A questo punto, se il debitore ammetteva il proprio debito si aveva “confessio in iure”, e il rito si concludeva. Se invece il debitore si rifiutava di riconoscere il debito, le parti si sfidavano al sacramentum, procedendo quindi nella medesima maniera prevista dalla legis actio sacramenti in rem. Quest’azione in personam offriva anche un’ulteriore tutela al creditore: se il convenuto soccombente veniva riconosciuto debitore di una certa somma di denaro, la parte attrice, grazie al precedente ricorso all’appropriata actio, sarebbe potuta ricorrere, in caso di persistente inadempimento da parte del debitore, alla legis actio per manus iniectionem.
Legis actio per manus iniectionem
Questa era un’azione esecutiva, che permetteva alla parte attrice di ottenere l’adempimento delle proprie pretese creditorie nei confronti del debitore. Era esperibile previo precedente ricorso alla legis actio sacramenti in personam, la cui sentenza autorizzava il creditore a ricorrere alla manus iniectio iudicati nel caso in cui il debitore, entro trenta giorni dalla sentenza, avesse mancato di adempiere ai propri obblighi. Il creditore poteva ricorrere a quest’azione esecutiva anche senza esperire prima la relativa azione cognitiva, in particolari casi di situazioni riconosciute “a priori”, identificando la manus iniectio “pro iudicato” o “pura”; ad esempio della prima è quello rappresentato da una una lex Publilia, in virtù alla quale allo sponsor che avesse prestato una garanzia si riconosceva la possibilità di esperire la manus iniectio pro iudicato, se il debitore garantito non avesse provveduto a rimborsare l’importo garantito entro sei mesi. Un esempio di manus iniectio pura era invece quella stabilita dalla lex Furia testamentaria, che permetteva all’erede di agire direttamente con l’azione esecutiva contro il legatario che avesse percepito dall’eredità più di mille assi.
Il procedimento si svolgeva dinanzi al pretore, presenti creditore e debitore. Il presunto creditore, per mezzo di certa verba, si rivolgeva alla controparte enunciando la causa del credito che affermava spettargli. Ne indicava quindi l’importo e dichiarava di manum inicere, afferrando al contempo il debitore. Quest’ultimo poteva nominare un vindex, il quale, intervenendo, avrebbe potuto sottrarlo alla manus iniectio negando la sussistenza del debito e contestando, conseguentemente, il diritto del creditore a procedere con l’actio. Facendo ciò, però, il vindex si esponeva a un grosso rischio: se il debitore fosse risultato soccombente, questo soggetto sarebbe stato infatti condannato a pagare una somma doppia rispetto al debito contestato.
Se invece il debitore non avesse indicato alcun vindex o se questi non afosse comunque intervenuto a suo favore, il magistrato pronunciava l’addictio del debitore in favore della parte attrice, la quale avrebbe potuto trascinar via l’addictus e trattenerlo in catene per sessanta giorni. Durante questo lasso di tempo il creditore avrebbe dovuto recarsi in tre nundinae (mercati) consecutivi, ivi proclamando l’importo del debito, nella speranza che qualcuno lo riscattasse pagando la cifra. Se nessuno fosse intervenuto, il creditore avrebbe avuto la facoltà di vendere il debitore come schiavo fuori Roma o anche ucciderlo (se vi erano più creditori questi avrebbero persino potuto fare a pezzi il corpo del debitore per spartirselo).
La manus iniectio pura differiva sia dalla manus iniectio iudicati che pro iudicato, in quanto in essa al debitore era fatta salva la possibilità di difendersi senza ricorrere a un vindex. Quindi il convenuto avrebbe potuto in piena autonomia negare il debito, sottoponendosi però esso stesso al rischio di pagare la penale cui è soggetto il vindex.
Legis actio per pignoris capionem
Di questa legis actio purtroppo ci sono pervenute pochissime informazioni. Si tratta di un’azione risalente a prima della lex XII Tabularum, le cui applicazioni, di carattere principalmente pubblico e sacrale, risalivano ai mores e alle leges. Non richiedeva la presenza né del pretore né del convenuto, e poteva persino aver luogo durante i dies nefasti. Prevedeva che il creditore pronunciasse certa verba (che però non conosciamo) per poi prendere possesso, in pegno, di beni appartenenti al debitore.
Legis actio per iudiciis arbitrive postulationem
Questa legis actio era esperibile, a norma delle Dodici Tavole, per crediti scaturenti da stipulatio, per la divisione di eredità e per la divisione di res comuni (a norma di una lex Licinnia antecedente al 210 a.C.). Il rito era, nella prima parte, molto simile alla legis actio sacramenti in personam; le parti dovevano, mediante l’utilizzo di certa verba, enunciare la fonte dei diritti vantati, e chiedere al pretore di nominare un giudice o un arbitro. Questo avrebbe poi provveduto a decidere direttamente sulla controversia.
Legis actio per condictionem
Introdotta nel III secolo a.C. Da una legge Silia, era un’azione cognitiva per crediti aventi ad oggetto una determinata somma di denaro (certa pecunia), in seguito estesa anche ai crediti aventi invece ad oggetto certa res. Nella fase in iure l’attore affermava il proprio credito, specificando la necessità di adempiere da parte del debitore con il verbo “oportere” (un chiaro riferimento al ius civile). Se il convenuto negava, l’attore lo invitava a ripresentarsi dinanzi al magistrato, dopo trenta giorni, per la nomina del giudice che provvedeva poi a decidere nel merito della controversia.
Conclusione: l’inesorabile declino delle legis actiones
Con il passare del tempo, com’è facile intuire, le antiche legis actiones si dimostrarono via via sempre più inadeguate nel contesto di continua evoluzione che lo stato romano stava subendo. Roma non era più una semplice città laziale, ma si stava trasformando in un protagonista di primo piano nel panorama geopolitico mediterraneo. Conseguentemente, i fiorenti rapporti commerciali tra Romani e stranieri e lo sviluppo della società romana resero necessario l’intervento del pretore urbano, il quale forgiò un nuovo procedimento che fosse accessibile anche a chi non fosse stato cittadino.
Videro così la luce il diritto onorario e il processo formulare, inizialmente intesi per regolare fattispecie estranee al ius civile, sia in quanto diritto esclusivo dei soli cives romani, sia in quanto limitato da un troppo esiguo numero di actiones esperibili. Tuttavia, la dinamicità e l’assenza delle rigorosissime formalità che contraddistinguevano questo nuovo processo fecero ben presto preferire persino ai cittadini romani il ricorso al procedimento formulare piuttosto che alle legis actiones, le quali caddero a poco a poco in disuso. Intorno al 130 a.C. venne soppressa da una lex Aeburtia la legis actio per condictionem, e nel 17 d.C. una lex Iulia iudiciaria di Augusto abolì le restanti azioni: il più antico processo privato romano era giunto al termine della sua plurisecolare esistenza.
– Christopher Fucci –
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