Il Ius – La familia romana

Il Ius – La familia romana

Come precisato in un nostro precedente articolo, nella Roma antica la piena capacità giuridica – e, quindi, l’idoneità ad esser titolari di diritti ed obblighi – era riconosciuta unicamente alle persone cosiddette sui iuris, ossia coloro che erano contemporaneamente liberi, cittadini romani e non soggetti a potestà. Ed è proprio attorno a questo ultimo aspetto che è imperniata la familia romana.

La familia di cui parliamo, istituto risalente all’antichissimo ius Quiritium, è la familia in proprio iure dicta, ossia quel gruppo unitario composto da un’unica persona sui iuris – il pater familias – e da una serie di altre persone alieni iuris, ossia i filii familias e le donne in manu, assoggettate alla sua potestà.

Per poter appieno capire la struttura di una familia romana si rende quindi necessario accantonare la nostra moderna concezione della capacità giuridica e della capacità di agire: mentre oggi, infatti, una persona fisica è titolare fin dalla nascita della capacità giuridica e poi, con il raggiungimento della maggiore età, ottiene anche la capacità di agire, a Roma una persona poteva sì avere capacità di agire, ma non poteva avere capacità giuridica fintanto che fosse rimasta sotto la potestà del proprio pater familias, indipendentemente dall’età: solo alla morte del padre ciascun figlio avrebbe ottenuto la patria potestas e lo status di sui iuris (e quindi la capacità giuridica), creando così la propria familia. Ovviamente ciò era vero solo per i figli maschi: la familia romana aveva una struttura squisitamente patriarcale, e solo gli uomini potevano essere detentori di patria potestas. Le donne, se non sposate “in manu”, ottenevano comunque la capacità giuridica, diventando così sui iuris, ma non detenevano la relativa potestà, tanto che si è soliti dire che la donna a Roma fosse “familiae suae et caput et finis”.

Matrimonio

“Nuptiae sunt coniunctio maris et feminae et consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio”

“Le nozze sono unione di uomo e donna e consorzio di tutta la vita, comunione di diritto divino ed umano”

Erennio Modestino, D.23.2.1

Istituto fondamentale quando si parla di familia in proprio iure dicta è ovviamente il matrimonio, presupposto stesso per la sua costituzione. Il matrimonio legittimo, o iustae nuptiae, era solitamente preceduto dagli sponsali, che in origine consistevano in una promessa di matrimonio fatta al fidanzato dal padre della donna (o da lei stessa, se sui iuris). La promessa poteva anche essere reciproca, effettuata dai due fidanzati (se sui iuris) o dai rispettivi padri (se alieni iuris) e creava, come ogni sponsio1, un vero vincolo giuridico all’adempimento.  Dall’età preclassica2 il termine sponsalia sopravvisse, ma il negozio giuridico venne sostituito dal semplice consenso espresso, meno formale e dal quale non nascevano obligationes di sorta, se non l’eventuale impegno alla restituzione dei doni.

Affinchè il matrimonio fosse legittimo erano necessarie tre condizioni: che gli sposi fossero in età pubere, che vi fosse il loro reciproco consenso e che vi fosse il connubium. Quest’ultimo era l’attitudine a vivere in iustae nuptiae con l’altro sposo: una sorta di “capacità civile” sussistente tra cittadini romani. Esprimeva inoltre il divieto di matrimoni tra parenti – in linea retta senza limiti di grado e in linea collaterale dapprima entro il sesto grado e infine, in età repubblicana, entro il terzo grado (zii e nipoti) – e tra affini, proibiti in linea retta e dall’età postclassica3 anche in linea collaterale (ma non oltre il secondo grado).

La concezione romana del matrimonio era assai diversa dalla nostra. In virtù del modello ereditato dalla religione cristiana del matrimonio quale sacramento, per noi questo è un negozio giuridico, un atto, un rito finalizzato alla creazione di un legame duraturo, che può esser sciolto solo dalla morte di uno dei coniugi o grazie alla pronuncia di un organo giudiziario. Per i Romani però il matrimonio consisteva più semplicemente nella convivenza stabile tra due persone di sesso diverso (che segnava inoltre la costituzione stessa del matrimonio), unita alla volontà di vivere assieme come marito e moglie (affectio maritalis). Proprio per questo il matrimonio romano fu, ben prima che un fatto giuridico, un fatto squisitamente sociale.

Il matrimonio romano poteva essere cum manu o sine manu. In età arcaica4 e fino a buona parte dell’età preclassica il matrimonio era sovente accompagnato dalla conventio in manum, un istituto che prevedeva l’incoroporamento della donna nella familia del marito, con la rescissione di ogni legame di ius civile dai parenti e con il relativo passaggio dalla soggezione alla patria potestas del padre alla manus potestas del marito (o la perdita dello status di sui iuris della donna, se non soggetta a potestà). Con il tempo questo istituto cadde man mano in disuso e si andò di pari passo affermando il matrimonio cosiddetto “libero” o, più propriamente, sine manu. In questo caso la donna non cadeva sotto la manus del marito, mantenendo il proprio status di sui iuris o di filia familias (con relativa soggezione alla patria potestas del padre).

Oltre agli eventuali effetti di una possibile conventio in manum, il matrimonio ne produceva anche di ulteriori. Innanzitutto i figli della coppia potevano essere considerati legittimi soltanto se nati in iustae nuptiae, e sempre solo se legittimi il padre poteva vantare su di loro la patria potestas. La donna, dal canto suo, guadagnava lo status sociale e giuridico del marito (honor matrimonii) ed entrambi i coniugi erano soggetti a un vincolo di fedeltà che, se infranto, dava luogo a sanzioni patrimoniali al momento dello scioglimento del matrimonio. L’infedeltà della moglie (e solo la sua) era però qualificata come adulterio, e la moglie adultera poteva essere impunemente uccisa dal marito; inoltre, con una lex Iulia de adulteris del 18 a.C., incorreva nel crimen adulterii, punito con pene severe.

Dirimitur matrimonium divortio morte captivitate vel alia contingente servitute utrius eorum.

Il matrimonio si scioglie con il divorzio, la morte, la prigionia o altro tipo di servitù dell’uno o dell’altro coniuge.

Paolo, D.24.2.1, 35 

Così come il matrimonio poteva costituirsi, esso poteva anche sciogliersi, sebbene per cause diverse a seconda della struttura del matrimonio stesso. Innanzitutto lo scioglimento si aveva in caso di morte di uno dei coniugi, ma non solo: anche con la perdita dello status libertatis il matrimonio veniva meno, in quanto a Roma l’istituto era precluso agli schiavi e le loro unioni non avevano rilievo per il diritto; similmente, anche la perdita da parte di uno dei coniugi della cittadinanza provocava lo scioglimento del matrimonio, in quanto lo status civitatis era requisito fondamentale per la sussistenza del connubium, che a sua volta era un’imprescindibile condizione per l’esistenza del matrimonio.

Scioglimento si poteva avere anche nel caso in cui l’affectio maritalis in uno o entrambi i coniugi fosse venuta meno e, di conseguenza, se si fosse interrotta la convivenza. In questo caso si parla di divortium (da divertere > allontanarsi), e in caso di divorzio unilaterale, di repudium. In entrambi i casi, così come non era richiesta alcuna formalità per la costituzione del matrimonio, non ne erano richieste nemmeno per il divorzio, nè erano tantomeno necessarie pronunce da parte di organi giudiziari o amministrativi di sorta. Unica eccezione si aveva per il matrimonio in manu: in questo caso, essendo necessario far uscire la sposa dalla soggezione alla manus potestas del marito, era necessario ricorrere ad un apposito negozio giuridico; questo però, val bene sottolinearlo, non riguardava il matrimonio, ma solo ed esclusivamente la manus.

In alcuni casi il comportamento di uno dei coniugi, causa del divorzio, poteva essere anche sanzionato. In età repubblicana era già previsto, con la nota censoria, l’aggravamento della posizione del coniuge colpevole nell’actio rei uxorie, azione per la restituzione della dote. Fu con l’affermarsi del cristianesimo che l’istituto del divorzio, però, si modificò notevolmente. Ma nonostante la sempre maggiore influenza del nuovo credo ufficiale dell’impero e la rinnovata concezione del matrimonio quale legame indissolubile tra i coniugi, il diritto romano non pervenne mai all’abolizione del divorzio, nemmeno nell’ultimo diritto giustinianeo. Il divorzio venne sì ostacolato, ma mai abolito.

Per quanto riguarda il ripudio, esso era lecito soltanto in alcuni casi tassativi, detti di divortiorum bona gratia, e soltanto in presenza di motivi non imputabili ad alcuno dei coniugi, come l’elezione della vita claustrale da parte di uno di essi o impotenza, scomparsa o prigionia di guerra del coniuge.

Il divorzio unilaterale era inoltre consentito in altre tassative ipotesi di comportamento gravemente colpevole dell’altro coniuge: per quanto riguarda la moglie il divorzio era possibile in caso di adulterio o di altro comportamento moralmente disdicevole da lei tenuto; per quanto riguarda il marito poteva aversi divorzio in caso di tentata prostituzione della moglie e in caso il marito avesse tenuto una concubina; con riguardo ad entrambi i coniugi, il divorzio era lecito in caso uno dei due si fosse macchiato di gravi crimina (ad esempio, omicidio).

Fuori dai casi elencati sopra, il ripudio era da considerarsi sine causa, e perciò illecito: il matrimonio si scioglieva ugualmente, ma il coniuge che vi aveva dato causa sarebbe stato colpito da diverse sanzioni, che andavano dalla perdita della dote alla deportatio in insulam.

Filii familias

Item in potestate nostra sunt liberi nostri quos iustis nuptiis procreavimus. Quod ius proprium civium romanorum est: fere enim nulli alii sunt homines qui talem in filios suos habent potestatem qualem nos habemus.

Sono parimenti in nostra potestà i nostri discendenti nati da giuste nozze. Questo diritto è proprio dei cittadini romani; non vi sono infatti praticamente altri uomini che hanno sui loro figli una potestà analoga a quella che abbiamo noi.

Gaio, 1.55

Come già ricordato, a Roma una persona poteva avere capacità giuridica soltanto se contemporaneamente libera, in possesso della cittadinanza romana e se non soggetta a potestà. Ed è proprio in relazione a quest’ultima caratteristica che ruota la figura dei filii familias. Questi erano sì cittadini romani e liberi, ma erano soggetti alieni iuris e perciò privi di capacità giuridica.

Potevano essere innanzitutto filii familias i nati da matrimonio legittimo i quali, con la nascita, cadevano sotto la patria potestà del padre. Giova sottolineare che i bambini nati da filius familias non cadevano sotto la potestà del genitore, ma sotto la patria potestas dell’avo paterno, in quanto ciascuna familia romana era composta sempre e solo da un unico pater familias dotato della relativa potestà.

Filii familias si poteva anche diventare per adozione. L’adoptio in senso stretto consisteva nell’adozione di un alieni iuris filius familias, il quale, per effetto dell’adoptio, passava dalla famiglia di origine a quella adottante, recidendo iure civili ogni vincolo con la prima: nei confronti dell’adottato cessava la patria potestas del padre e veniva in essere la soggezione alla relativa potestà del padre adottivo.

Il procedimento dell’adoptio era alquanto complesso, e ciò in virtù del fatto che questo istituto si trovava in contrasto con il precetto alla luce del quale la familia in proprio iure dicta assumeva la rigidità che tanto la contraddistingueva: infatti era normalmente previsto che la patria potestas potesse estinguersi solo ed esclusivamente con la morte del pater familias. I Pontefici provvedettero all’uopo a far leva sul precetto, contenuto nelle XII Tavole, che sanzionava con la perdita della patria potestas il padre che avesse per tre volte venduto il proprio figlio; si forgiò così un procedimento che prevedeva, in primis, la triplice mancipatio del filius nei confronti dell’adottante; caduta la patria potestas del padre, l’adottante procedeva a rimancipare l’adottato al padre (che lo acquistava non più come filius, ma come persona in causa mancipii) e quindi, presenti i tre soggetti “protagonisti” del procedimento dinanzi a un magistrato (solitamente il pretore) si metteva in atto una sorta di in iure cessio: l’adottante rivendicava come propria la persona che voleva adottare, affermando si trattasse di un proprio filius; il pater naturalis, a quel punto, non si opponeva alla rivendicazione della controparte e il magistrato procedeva dunque a pronunciare l’addictio in favore dell’adottante, il quale acquistava finalmente la patria potestas sull’adottato. Questo intricato procedimento venne in ultimo notevolmente semplificato dall’opera di Giustiniano.

Altro tipo di adozione (in senso lato) era l’adrogatio, che consentiva invece l’adozione di persone sui iuris e che era compiuta con la partecipazione dei comitia curiata, il più antico tipo di assemblea popolare della Roma antica. Portate a termine le necessarie indagini preliminari di legittimità e di merito, durante l’assemblea il pontefice (che presiedeva i comitia curiata) interrogava le parti interessate circa la loro volontà, rispettivamente, di adrogare e di essere adrogato. Avuto riscontro positivo il pontefice rivolgeva un’ulteriore rogatio al popolo (da qui il nome di “ad rogatio”) e questi dava il proprio assenso.

Il procedimento dell’adrogatio mutò con il tempo. Se in età più antica intervenivano le trenta curie, in età repubblicana esse vennero sostituite da trenta littori, e in età classica4 divenne possibile compiere l’adrogatio anche “per rescriptum principis”, con rescritto dell’imperatore. Quest’ultima forma, in particolare, si diffuse rapidamente soppiantando la più antica forma “ad populum”, che scomparve dall’età di Diocleziano.

Tramite l’adrogatio, l’adrogato diveniva filius familias, perdendo il proprio status di sui iuris e finendo sotto la patria potestas dell’adrogante. Assieme all’adrogato venivano assoggettate alla potestà dell’adrogante anche tutte le persone libere eventualmente sotto potestà dell’adottato (filii familias e donne in manu). L’adrogante acquistava anche i diritti soggettivi facenti capo all’adrogato, realizzandosi una successione a titolo universale inter vivos a suo favore. Per quanto riguarda gli eventuali debiti contratti precedentemente all’adrogatio dall’adrogato, è interessante notare che questi si estinguevano, lasciando così “a bocca asciutta” i creditori. Tuttavia ben presto il pretore intervenì concedendo loro un’actio fictitia che consentiva al giudice di giudicare come se l’adrogatio non vi fosse stata.

Parlando ora della soggezione dei filii familias alla patria potestas del padre (o dell’avo paterno), questa prevedeva l’assoggettamento dei filii (maschi o femmine, adottati o naturali che fossero) al potere personale del pater, che si caratterizzava alle origini come un diritto assoluto e illimitato, espresso dalla formula “ius vitae ac necis” (“diritto di vita e di morte”); in virtù di ciò non esistevano differenze tra il potere personale del padre sui figli rispetto a quello del dominus sui servi. Ma molto presto il costume, la religione e il diritto intervennero a mutare siffatta condizione: già in età arcaica erano state istituite sanzioni sacrali che punivano i più gravi abusi del ius vitae ac necis, e in età repubblicana potè intervenire in materia il censore, in virtù del sua funzione istituzionale di vigilanza dei costumi (“regimen morum”). Sempre in età repubblicana, inoltre, l’uccisione ingiustificata e crudele del figlio venne repressa con sanzioni criminali alla stregua dell’uccisione di un estraneo libero, e con l’avvento del principato fu definitivamente attestato in materia l’intervento del princeps stesso, tramite cognitio extra ordinem. Con il finire dell’età classica il ius vitae ac necis scomparve definitivamente.

Oltre che in relazione al potere personale del pater, la figura del filius familias era in origine identica a quella del servo anche sotto gli aspetti patrimoniali: figli e schiavi, essendo alieni iuris, erano fondamentalmente privi della capacità giuridica e, in virtù di ciò non potevano essere titolari di diritti propri né potevano essere soggetti a doveri giuridici, e se potevano acquistare al pater familias non lo obbigavano, per quanto fosse possibile chiamarlo in giudizio tramite le azioni nossali.

La posizione patrimoniale dei filii familias si andò però a modificare nel tempo. Il regime della nossalità, in primis, scomparve del tutto nell’età di Giustiniano, essendo diventato possibile, già dall’età postclassica, proporre l’azione penale direttamente contro il filius. In secondo luogo era stata riconosciuta dalla giurisprudenza, già durante gli ultimi anni della Repubblica, la possibilità per i filii (maschi) di contrarre obligationes civiles con atto lecito e nei confronti di terzi. Per quanto però queste obbligazioni consentivano ai terzi di promuovere azioni avverso al filius, l’esecuzione della sentenza, a meno che non fosse spontaneamente adempiuta, era preclusa: i creditori avrebbero quindi dovuto attendere che sul filius cessasse la patria potestas dell’avo.

Ai filii familias, sempre con riguardo alla loro posizione patrimoniale, era stato inoltre concesso, similmente ai servi, di possedere un peculio, un “gruzzoletto”, concesso loro dal pater o anche guadagnato tramite il proprio lavoro o l’attività commerciale. Il peculio da mero gruzzolo di denaro andò anche a comprendere beni di diverso tipo – persino immobili e attività commerciali – e divenne possibile per il filius anche disporre delle res peculiari, purché a titolo oneroso. Ovviamente però il pater restava proprietario del peculio, e poteva revocarlo in qualsiasi momento. Eccezioni a questo potere del pater vennero introdotte da Ottaviano Augusto e poi da Costantino con la creazione del peculio castrense e quasi castrense: il primo concedeva ai filii familias in servizio nelle legioni dell’Impero di poter disporre validamente, sia per testamento sia con atti inter vivos, dei proventi del servizio militare e dei beni acquistati con detti proventi. Il secondo istituto estese il regime del primo anche ai proventi guadagnati dai filii familias nell’esercizio di funzioni civili al servizio dello Stato.

Concludendo questa analisi della posizione patrimoniale dei figli alieni iuris, dall’età postclassica, venne attribuita loro la proprietà dei beni provenienti dalla successione materna (bona materna) nonché di quelli in ogni caso provenienti, direttamente o meno, dalla madre (bona materni generis); con Giustiniano, venne inoltre coniato il peculium adventicium, che permetteva ai filii familias di vedersi attribuita la proprietà dei beni da loro acquistati, purché non provenienti dal padre. Con riguardo a bona materna, bona materni generis e peculium adventicium bisogna però sottolineare che, per quanto il filius fosse proprietario dei beni ricadenti sotto i sopracitati istituti, al pater spettava la loro amministrazione e godimento, rimanendo lui preclusa soltanto la loro alienazione.

La donna romana

Mulieres omnes propter infirmitatem consilii maiores in tutorum potestate esse voluerunt.

Gli antenati vollero che tutte le donne fossero in potestà dei tutori a causa della loro debolezza di spirito.

Cicerone, pro Murena 27

Questa breve disamina della familia romana non può certamente concludersi senza prima approfondire ulteriormente lo status della donna. Nella società romana, infatti, le donne erano soggette non solo alla possibilità (via via sempre più remota) di non diventare praticamente mai, nel corso della propria vita, sui iuris a causa dell’istituto della manus, ma erano inoltre sottoposte ad un regime di limitazione della capacità giuridica anche se riuscivano ad ottenere il sopra citato status.

In primis, come si era già accennato sopra, le donne, anche se sui iuris, non potevano mai detenere la patria potestas, essendo questa una prerogativa esclusivamente maschile. Esse costituivano, in un certo senso “l’inizio e la fine” della propria familia in proprio iure dicta, e i loro figli, se orfani di padre, non erano soggetti ad alcuna potestà da parte materna, ottenendo pienamente la propria capacità giuridica.

In secondo luogo, le donne erano escluse dall’ufficio di tutore e curatore, non potevano rappresentare terzi in giudizio ed era fatto loro divieto di assumere obbligazioni per conto di terzi.

Anche la capacità di agire della donna romana era soggetta a limitazioni. Tuttavia, a differenza della capacità giuridica – che rimase sempre soggetta a limitazioni – la capacità di agire della mulier venne via via ampliata, raggiungendo formalmente la piena parità di trattamento rispetto agli uomini in età postclassica.

L’istituto meglio rappresentativo di questo deficit alla capacità di agire della donna è senz’ombra di dubbio la tutela muliebre. La donna romana infatti, una volta diventata pubere e cessata su di lei la patria potestas dell’avo, diveniva sì sui iuris, ma veniva assoggettata alla tutela muliebre, che poteva essere alternativamente legitima (tutore diveniva l’agnatus proximus, il parente di sesso maschile più prossimo alla mulier), testamentaria (il tutore era designato tramite testamento dal pater familias della donna) o dativa (il tutore era nominato dal pretore, e la nomina interveniva unicamente nel caso in cui la donna ne fosse stata sprovvista).

Il tutor mulieris era preposto ad assistere la donna nella gestione del proprio patrimonio. Si noti che il tutore però non lo gestiva direttamente, ma de facto ne controllava l’utilizzo, in quanto la donna non poteva compiere autonomamente atti di disposizione dei propri beni nè assumere obbligazioni: per tutte queste operazioni doveva intervenire il tutor, integrando la volontà espressa dalla donna con la propria auctoritas.

Già da prima dell’età repubblicana, però, l’istituto in questione cominciò a perdere di significato. Infatti ben presto si ammise che la donna potesse liberamente scegliere chi più preferisse per l’ufficio tramite l’optio tutoris (disposto per testamento dal pater) e la tutela evitandae causa (un complesso istituto attraverso il quale la donna faceva coemptio di se stessa ad una persona di fiducia – finendo quindi sotto la sua manus – la quale provvedeva poi a mancipare la donna al tutore designato, facendogli acquistare così la donna e la tutela muliebre in causa mancipii). Gli ultimi colpi all’istituto in questione vennero inferti in primis dalla sopravvenuta possibilità, per la donna, di rivolgersi al pretore per obbligare il tutor a fornirle l’auctoritas; in secundis da una lex Iulia et Papia Poppaea del tempo di Augusto, che esonerò dalla tutela – tramite l’attribuzione dello ius liberorum – le donne ingenue con tre figli e liberte con quattro figli; in tertiis da una lex Claudia risalente al principato di Claudio, che abolì la tutela legittima dell’agnatus proximus.

In sostanza, quindi, ai tempi dell’entrata in vigore di quest’ultima lex la tutela muliebre era stata ridotta a poco più di una formalità: la donna poteva scegliere il proprio tutor fiduciario, costringerlo a prestare l‘auctoritas e poteva essere in toto esonerata dalla soggezione a questo istituto. Fu così che nel 410 la tutela muliebre cessò definitivamente di esistere con la concessione, da parte degli imperatori Onorio e Arcadio, del ius liberorum a tutte le donne.

 

Christopher Fucci

 

[1]: la sponsio è il più antico negozio di diritto romano da cui poteva scaturire un obligatio (dovere ad adempiere ad una determiata prestazione). I soggetti del negozio erano un interrogante e un promittente: quest’ultimo restava vincolato alla promessa fatta (e, quindi, all’adempimento di una prestazione futura) ed era responsabile in caso di mancato adempimento.

[2]: metà del III secolo a.C./27 a.C.

[3]: 312 d.C/565 d.C.

[4]: 753 a.C./metà del III secolo a.C.

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