Nella giornata del 6 maggio, al largo delle coste di Bengasi, tre pescherecci italiani di Mazara del Vallo sono stati mitragliati dalla guardia costiera libica. Il comandante di una delle imbarcazioni, la Aliseo, è stato ferito, e le navi, bloccate dai libici a seguito del fatto, sono state infine liberate e sono ritornate verso le coste siciliane[1].
Questo grave episodio, ultimo di una serie di simili fatti (l’ultimo dei quali risalente ad appena il 3 maggio scorso[2]), emerge rammentandoci che, nostro malgrado, le enormi problematiche che affliggono l’altra sponda del Mediterraneo sono ben lungi dal risolversi a nostro vantaggio, anzi: Caoslandia rischia sempre più di sommergerci con ogni giorno che passa.
L’Italia, con la disgregazione delle Libie, si è ritrovata infatti con Turchi e Russi alle porte, che hanno colmato il vuoto di potere colposamente creato dalla nostra stessa Nazione: prima con il suo intervento nel 2011, nel corso delle improbabili “primavere arabe”, per rovesciare il regime di Muʿammar Gheddafi e poi con la sua ingenua inazione nel corso della guerra civile. Si è permesso al caos di esplodere e ci siamo permessi il lusso di non curarcene, con il risultato di ritrovarci due seri contendenti di fronte a casa e di vedere minacciati anche gli ultimi rimasugli di influenza italiana nella fu Quarta Sponda, e con essa i nostri approvvigionamenti energetici.
Nonostante la gravità della situazione l’Italia pare però non curarsi della questione libica, o al massimo a trattarla con fastidio, quasi fosse una mera seccatura fine a se stessa. La cecità italiana nei confronti del Mediterraneo ci porta a ignorare totalmente le opportunità che risiedono proprio nelle sue acque, e in particolare in quello che, nel medioceano Mediterraneo, è un punto di passaggio fondamentale nelle rotte mercantili tra l’Indo-Pacifico e l’Atlantico: lo Stretto di Sicilia.
Sovrastato dal nostro Paese e dalla più importante isola del fu Mare Nostrum, questo passaggio compreso tra Malta, Capo Bon e Mazara del Vallo potrebbe essere la chiave di volta per assicurarci sicurezza, stabilità e benessere. Eppure poco o niente viene fatto per asserire la nostra influenza sullo stretto che di italiano porta giusto la Sicilia nel nome.
Il nostro Paese sembra totalmente mancare della determinazione mentale per agire, per risvegliarsi dal torpore terragno e mitteleuropeo che lo piaga e per realizzare di essere, in realtà, un Paese assolutamente mediterraneo, il cui futuro è assicurato proprio dal mare che lo circonda.
Per riportare il nostro Paese a essere il protagonista nel Mar Mediterraneo urge però che la nostra classe politica riacquisti determinazione e si erga a picconatore del precedente e deleterio modus operandi nostrano, rivoluzionandolo totalmente.
Per ripensare al Mediterraneo è indispensabile abbandonare la sopra citata concezione mitteleuropea del Paese che, nel corso degli anni, si è andata sempre più affermando a nostro detrimento; l’Italia non può essere mitteleuropea, non è nella sua natura né nei suoi interessi. Per quanto il nord sia da un punto di vista commerciale e industriale indubbiamente legato agli Stati d’Oltralpe, ciò non può e non deve essere ritenuto sufficiente per ignorare il preponderante fatto che l’Italia è, innanzitutto, una penisola protesa nel centro di quello che oggi è un medioceano di assoluta importanza. Se vogliamo prosperare è lì che dobbiamo indirizzare il nostro sguardo, intervenendo in modo, oserei dire, rivoluzionario nel Mezzogiorno d’Italia lungo tre direttrici – militarizzazione, creazione e potenziamento delle infrastrutture, rivoluzione demografica – e cambiando altrettanto radicalmente i nostri rapporti con la nostra potenza egemone di riferimento e con i nostri rivali mediterranei.
Partendo dal nostro Sud, parafrasando lo stato in cui versava l’Impero ottomano tra ‘800 e ‘900, si può ben dire che questo sia il “malato d’Italia”. Un malato di cui si conoscono da innumerevoli decenni le condizioni ma per il quale ben poco si è fatto. Malattia ormai giunta a uno stadio terminale. Complice di una simile mancanza di lungimiranza è stata indubbiamente la tipica introversione terragna del nostro Paese. Già negli anni immediatamente successivi all’Unità del 1861 lo stato sabaudo poco ebbe a interessarsi del sud, in quanto ben più proteso, idealmente, verso l’entroterra europeo piuttosto che verso il mare. Una scelleratezza tattica che si mantenne e si mantiene perlopiù invariata fino oggi, salvo la breve parentesi fascista che volle, con dubbi risultati, mettere il Mediterraneo al centro dell’agenda strategica italiana.
Se oggi vogliamo assistere ad un rinascimento italiano si rende essenziale investire nel nostro meridione. È necessario realizzare nuove infrastrutture per convogliare i traffici mediterranei nel nostro Paese, potenziando i principali porti del Sud Italia del quadrilatero Bari – Napoli – Taranto – Gioia Tauro e creando un’adeguata rete viaria (sia su asfalto che su ferro) che consenta l’agevole trasporto delle merci in arrivo. Con riguardo alle infrastrutture viarie di terra, il potenziamento della Salerno-Reggio Calabria e la creazione di una seria rete autostradale e ferroviaria ad alta velocità che colleghi Roma a Palermo (così come l’Est e l’Ovest della penisola stessa) è parimenti essenziale, considerando che ad oggi i tempi di percorrenza tra queste due città sono praticamente biblici. Altrettanto fondamentale, in questo senso, è la realizzazione dell’agognato e famigerato ponte sullo Stretto di Messina, sia per collegare efficacemente la Trinacria con il resto d’Italia, sia come opera simbolica che dimostri nei fatti la fine della frammentarietà, dell’isolamento e dell’abbandono cui la Sicilia è da troppo tempo vittima.
Mettere al centro il Sud comporta parimenti il deciso intervento contro la crisi sociale e demografica che lo attanaglia. Le misere prospettive che oggi il meridione d’Italia offre ai suoi abitanti hanno causato lo spopolamento e l’arresto della crescita demografica. Nel prossimo futuro l’invecchiamento della popolazione provocherà un calo di circa 5 milioni di abitanti al sud, contro i 2 del nord. Premesse che, senza interventi, saboterebbero in partenza qualunque tentativo di riportare il Sud, e conseguentemente l’intera Nazione, in carreggiata. Il “malato d’Italia” va curato, creando opportunità, lavoro, collegamenti, fermando l’emigrazione endemica. In questa prospettiva potrebbero portare ossigeno a un Mezzogiorno cianotico le risorse del Next Generation EU: un uso intensivo ma oculato delle risorse nelle nostre regioni meridionali potrebbero risollevarne le sorti prima che il suo collasso trascini la Patria negli abissi[3].
Ulteriore rivoluzione da mettere in atto riguarda in toto la nostra isola maggiore. Da troppo tempo lo Stato si limita, quasi con fastidio, unicamente ad amministrarne il territorio, senza cogliere la sua magnitudine strategica: situata nel bel mezzo del Mediterraneo e sovrastante uno stretto vitale, la Sicilia costituisce un bastione imprescindibile per il controllo dei traffici del medioceano e per la messa in scacco delle flotte di paesi terzi. Ben più lungimiranti di noi sono stati gli Americani, che dell’isola hanno fatto un loro avamposto e sulla quale hanno realizzato importanti basi militari e infrastrutture, quale, ad esempio, la stazione per le trasmissioni radio di Niscemi.
Se si vuole anche solo pensare di riprendere possesso delle acque in un periodo storico nel quale queste vengono territorializzate e conquistate come fossero terra emersa, è necessario che la Sicilia venga adeguatamente militarizzata, con il potenziamento delle infrastrutture militari per la flotta e l’aeronautica militare.
Di pari passo con l’intervento sull’isola è necessario rivolgere attenzione anche alla nostra Marina Militare, fondamentale se l’Italia vuole anche solo pensare di eleggere il Mediterraneo a proprio campo operativo. Ad oggi il nostro Paese può contare su 56 unità navali, 7 in meno rispetto al requisito minimo richiesto dal vertice della Marina Militare, e 32 delle unità operative sono prossime alla dismissione. Una flotta in costante declino (si è perso già 1/3 delle navi operative nel 2010) in un momento in cui i nostri vicini (in particolare Egitto, Algeria, Turchia, Grecia e Francia) sono alle prese con un complessivo e intenso riarmo. I nostri problemi però non si limitano ai soli mezzi: la Marina Militare da anni è a corto di personale, oggi arrivato a 27mila unità. Numeri ridicoli paragonati ai Turchi, che possono contare su 44mila unità e che progettano di accrescerle fino a 60mila, o a Francesi e Britannici, che dalla loro possono vantare un personale di circa 40mila unità. Premesse affatto incoraggianti che scadono nel ridicolo quando idealmente la nostra flotta puntava a diventare riferimento, assieme alla controparte francese, delle forze navali europee a seguito della Brexit[4]. A meno che non intendiamo confinare direttamente con la Mavi Vatan turca, il nostro riarmo è d’obbligo.
Di pari passo all’esecuzione di tutti questi interventi è necessario che il nostro Paese cambi nettamente approccio con gli Stati Uniti. Durante la Guerra Fredda l’attenzione di questi era assai concentrata nel teatro mediterraneo in chiave anti-sovietica e l’Italia aveva sempre sapientemente saputo cavalcare le necessità del proprio egemone operando in sintonia con gli Americani nel Mare Nostrum e raccogliendo gli abbondanti frutti della collaborazione attiva: primi tra tutti stabilità (anche sulla sponda opposta dello Stretto di Sicilia) e influenza sull’estero vicino.
Oggi, con la caduta dell’Unione Sovietica, l’emersione di nuovi rivali regionali (e non) e la crisi che li attanaglia, gli Stati Uniti hanno rivolto il loro sguardo altrove, rendendo il Mediterraneo un teatro secondario. Con il progressivo retrenchment statunitense anche le loro operazioni nel nostro mare si sono ridotte, lasciando le chiavi in mano ai membri NATO che si affacciano sulle sue acque. E la Turchia ha saputo, a differenza nostra, cogliere perfettamente il nuovo stato di cose: in uno scenario dove lei stessa rappresenta il male minore per gli Stati Uniti e grazie a un atteggiamento ambivalente, quasi flirtante, sia con i Russi che con gli Americani, ha potuto espandere la propria influenza in modo esponenziale: in Siria, Azerbaigian, Albania, Cipro, Grecia e, infine, Libia.
L’Italia dal canto suo non ha saputo affatto cogliere il cambio di paradigma. Non realizzando che l’attenzione americana si sia ormai spostata altrove, rimaniamo acriticamente in attesa di un invito dell’egemone che ci conduca per mano verso operazioni spesso di dubbia utilità strategica per la nostra Nazione. Attendiamo un massiccio ritorno americano nel Mediterraneo in un periodo in cui la parola d’ordine è retrenchment e nel frattempo, ingessati dal nostro voler essere ad ogni costo amici di tutti e nemici di nessuno, continuiamo a fare buchi nell’acqua, attirandoci più inimicizie di quante non ce ne faremmo con un atteggiamento più deciso. Confidiamo in fantomatici negoziati, come in Libia, nei quali ci ritroviamo puntualmente a ratificare decisioni già prese da altri. Del resto è difficile imporre alcunchè da parte di chi non ha la forza per farlo.
L’Italia deve prendere in mano le redini della situazione. Gli Stati Uniti sono più che ben disposti a delegare ai loro satelliti le loro operazioni mediterranee in chiave antirussa. Ma la delega non ci arriverà per decreto o per concessione unilaterale: dobbiamo dimostrare loro che l’Italia vuole e può essere il loro braccio nel Mediterraneo. Magari associandoci per questo con i Francesi, da sempre in idilliaci rapporti con l’egemone d’oltreatlantico. Con i Russi stanziati in Cirenaica non sarebbe nemmeno difficile convincerli della nostra necessità di agire in chiave difensiva contro di essi. Così facendo potremo operare con il benestare americano nel Mare Nostrum, eventualmente anche avverso i Turchi, perseguendo la loro e, sopratutto, la nostra agenda strategica allo stesso tempo.
Urge riportare nella nostra orbita la riluttante Malta, da troppo tempo insensibile alle nostre richieste e fin troppo flirtante con la Turchia e parimenti urge cominciare a dichiarare delle Zone economiche esclusive italiane: la territorializzazione dei mari attraverso l’istituzione unilaterale di Zee tutte attorno a noi e a ridosso delle nostre sponde ha portato infatti l’Algeria quasi alle coste della Sardegna [5], mentre la Zee libico-turca taglia il Mediterraneo in due, rendendoci arduo operare in acque internazionali a est della Sicilia. Così facendo, grazie anche al parallelo recupero di parte della nostra influenza sul Maghreb, potremo allontanare Caoslandia dalle nostre sponde, magari riportando, nei limiti del possibile, Ordolandia nell’altra sponda del Mediterraneo.
Christopher Fucci
1 Fonte: ANSA.
2 Fonte: Repubblica.
3 Per approfondire: F. Maronta, “Il crepuscolo del Mezzogiorno spacca l’Italia”, in Limes, rivista italiana di geopolitica, n. 2/2021: L’Italia al fronte del Caos.
La mappa in copertina, realizzata da Laura Canali, è tratta dalla rivista Limes, rivista italiana di geopolitica, numero 2/2021: L’Italia al fronte del Caos.
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