Il bronzo è lo specchio del volto, il vino quello della mente.
Così recita un celeberrimo aforisma del noto drammaturgo ellenico Eschilo, che senza associarlo al bronzo dell’hoplos non avrebbe potuto concentrare in modo più sintetico e conciso quel sentimento che legava gli Elleni al vino, in un’epoca in cui l’ethos e l’aretè traslavano incontrovertibilmente dall’individualismo dei duellanti d’omerica memoria -di cui il famigerato scontro tra Achille ed Ettore ne è l’apoteosi più compiuta- alla ben più pragmatica hetairia dei falangiti, quel cameratismo che spingeva gl’opliti a lottare, compatti, l’un per l’altro, evitando d’eccedere in personalismi, lungi dal lasciare le formazioni, consci che l’esito della battaglia, la sopravvivenza stessa dell’oplita, dipendesse dalla preparazione bellica, dalla guardia alta e dalla premura verso il commilitone al proprio fianco, come bene ebbe a descriverlo un altro pilastro della letteratura greca, Archiloco.

In un siffatto contesto, il bronzo ed il vino si legano indissolubilmente nello spirito e nell’animo degli Elleni d’età storica, poiché alla meticolosa preparazione atletica e tecnica che il polites riversava nel bronzo, allegoria della guerra (unico vero vettore d’eleutheria, di libertà politica, indi della vita stessa), corrispondeva invero altrettanta attenzione verso il vino, allegoria della zoé stessa, quella vita qua vivimus magistralmente scissa dal bios, la vita quam vivimus, la cui caducità ai Greci era ben nota, tanto da rendere degna di sacralità e religiosità l’attività enologica: così, il vino non era per essi una semplice bevanda inebriante, come potrebbe esserla oggidì per l’uomo moderno, annichilitosi ed accecato dalla materialità tecnologica da cui è travolto; il vino, per gli Elleni è praxis Theon, atto divino. Il vino sta a Dioniso come l’Egida sta ad Atena. È Dioniso in persona a scorrere lungo il corpo dell’oplita, che ne beveva tra una stagione bellica e l’altra, come per esempio durante le famose dionisiache e per altre feste analoghe che avevano luogo durante l’inverno, stagione in cui il bronzo aveva d’attendere al cospetto del vino, la sete ch’Ares avea del sangue dinanzi a quella che gli Elleni avevano del vino di Dioniso.

In Italia il vino, prima che i Greci lo diffondessero in maniera massiccia mediante le apoikìes dell’VIII secolo a.C. in Sicilia, Calabria, Lucania ionica e Salento – dalle quali si sarebbe poi espanso per tutta la Megale Ellada, la Magna Grecia- era ben noto ed accuratamente coltivato già da due o tre secoli dagli Etruschi, una popolazione che molto aveva d’ellenico tanto nelle strategie e nell’equipaggiamento bellico, quanto nel vestiario e nell’amore per il vino stesso.
Scaltri, gli Etruschi impararono ben presto a godere dei benefici del vino, quelli economici s’intende: infatti, a differenza dei Greci che, fondata Marsiglia, presero a coltivarlo rendendo in breve possibile la diffusione delle viti lungo la Gallia, i Tyrrenes (nome greco per gli Etruschi) tennero ben gelosi per sé il segreto delle varie cultivar dei vitigni e, varcate le Alpi, da esotici mercanti ne vendevano a buon prezzo agli innamorati Celti, che pur si dimostrarono rispettabili cultori del nettare di Bacco.
Come dimostra il sottostante affresco della Tomba dei Leopardi, gli Etruschi amavano godersi la vita e consacrarsi con ossequio e reverenza a Bacco in maniera paritetica con le consorti, pronte ad assistere i propri coniugi durante i vari simposi. Ben presto, però, le coltivazioni dei vitigni si espansero ben oltre i confini dell’Etruria, invadendo anche le zone più a sud dell’Italia settentrionale.

Ed è così che, agli albori del VII secolo a.C., l’Italia è frammentata in due enologicamente parlando, tra i vitigni dell’Etruria e quelli della Magna Grecia: a dividere i due v’erano gli austeri Romani.
Per i formidabili sudditi dei “Sette Re” non c’era spazio né tempo per il vino, giacché, probamente forgiati in quell’unicum che li contraddistinse da tutti gli altri, ovvero dalla loro particolare gravitas, dovettero ritenere che fosse maggiormente degno dedicarsi ad altri affari: la preparazione bellica e politica, le interminabili disfide con i cugini Latini e soltanto in ultimo la riorganizzazione amministrativa del Latium Vetus.
Sarà stata forse la sobrietà la condicio sine qua non per cui furono i Romani e non i Magno Greci o gli Etruschi a divenire egemoni dell’Italia? Forse, quel rĕlĕgĕre, curarsi scrupolosamente di Bacco, cioè in maniera religiosa, donde l’origine della parola “religione” stessa secondo Cicerone, per garantirsi un buon posto nell’aldilà deve aver fatto scemare le attenzioni per l’al di qua dei sopracitati avversari di Roma.
Ma la verità è che i Romani devono aver temuto così tanto la presenza dei nemici – come appunto i Punici, i Galli, gli Illiri, i Dalmati ed i Macedoni – da concentrare tutta la loro attenzione per rĕlĕgĕre innanzitutto Ares, dedicarsi massimamente alla guerra, consigliati da quella sapientia e quella temperantia cui venivano educati sin dalla tenera età, seguendo con rigore l’esempio del mos maiorum, dato che è soltanto successivamente alla sconfitta d’Annibale e la stipulazione della pace di Fenice del 205 a.C. che anche i Romani divennero dediti alla nobile arte della viticoltura.
Appagato Marte dopo aver trionfato sui Latini, sugli Osci, sui Sanniti, Lucani, Galli Cisalpini, Magno Greci, Punici ed in parte Macedoni, avranno pensato che questi stesse apposto per un po’. Era giunto indi il tempo di ingraziarsi Bacco!
Ed è così che il Cato Maior, l’uomo del Carthago delenda est, pluriottantenne e quando ormai questa non rappresentava più una minaccia per Roma, si operò per la stesura del De Agri Cultura, nel quale in maniera alquanto scientifica descriveva quali dovessero essere le attenzioni degli ante litteram imprenditori agricoli a lui contemporanei.
Parimenti ai domini, Roma estese anche il suo benessere: alle minestrine ed alle zuppe di cereali dell’età regia e altorepubblicana, alla fine del II secolo a.C. i Romani integrarono (per non dire sostituirono!) il pane ed altri farinacei, oltreché carni provenienti da accurati allevamenti e pesce delle varietà più esotiche. Mbè che fai, c’accompagni l’acqua a ‘sto ben di Dio? Oste, vino grazie!
Ed un gran bell’amante del vino dev’essere stato il Console Lucio Opimio, giacché volle dare il proprio nome, opinium appunto, ad un rinomato vino dell’agro falerno, richiesto ben presto dai più facoltosi cittadini e nobili dell’ecumene in contatto con Roma.
Quando poi Roma tra il I secolo a.C. ed il I d.C., grazie alle res gestae di condottieri formidabili quali Silla, Pompeo, Mario, Scipione l’Africano, l’Emiliano ed in fine Cesare avevano ridotto in province Gallia, Hispania, Africa, Grecia, Asia Minore e soggiogato in clientele l’Egitto e molti regni anatolici, le esigenze gastronomiche di patrizi e facoltosi equestri (e perché no, anche qualche plebeo ben messo) rese i Quiriti così prodigali da indurre mercanti d’ogni dove a recarsi a Roma per vendere, a cifre esorbitanti (che erano ben disposti a pagare!) alimenti e vini quanto più esotici possibili: quelli più ricercati erano i vini greci e quelli campani.

Così la Campania felix divenne meta dei più ricchi: tutti i più facoltosi ambivano avere una villa in quelle terre benedette dagli Dei, ove i profumi e l’estetica ellenizzante erano ancora ben vivi nell’arte, nella lingua, nei costumi ed anche nel vino: c’era una vite, chiamata aminea, che ritenevano fosse il più bel dono che Bacco avesse concesso alla Campania Felix dell’agro falerno. Da questa vite si ricavavano diversi vini, prevalentemente bianchi, che andavano letteralmente a ruba tra i palati più raffinati, ed apprezzati dallo stesso Augusto.
Ma il falerno non piaceva soltanto ai Romani: durante il I secolo d.C., le navi greche che esportavano vino greco in Italia presero ad incontrarsi con le navi romane che esportavano quello italico in Grecia. La nobiltà greca, de facto detentrice del potere consultivo ed in parte amministrativo delle varie poleis dell’Ellade su cui Roma era ormai egemone, goderono massimamente del benessere e della pax di cui Roma era stata fautrice. Così, non essendo più alle prese con invasori (vedasi Persiani o i Celti) pronti a sottometterli, poterono godere della stabilità portata dai Romani facendo a gara per chi fosse il più prodigo euèrgetes, evergeta, dedicandosi indi a far prosperare le varie poleis, organizzando eventi cittadini, finanziando opere pubbliche ed infine gustandosi le prelibatezze che giungevano sulle loro tavole da tutto il mondo. E, tra una triglia marsigliese e l’altra, perché non concedersi anche a Tebe, a Tessalonica, a Sparta o Atene un buon vinum Falernum?
Curioso è il fatto che per bere il Falerno facoltosi ed avventurieri di tutto il mondo si recassero a Pompei ed in altre città campane, come dei turisti ante litteram, per berne direttamente dalla fonte. Lo stesso deve aver fatto un cortigiano di Vespasiano, tal Plinio Secondo, il quale ci lascia una descrizione abbastanza curiosa delle usanze dei Pompeani, che ben presto impararono poi ad emulare i turisti:
“[…]si facevano bollire in bagni caldissimi e portare al fresco, privi di sensi, per aumentare la loro sete. Così, ancora nudi ed ansimanti, senza nemmeno rivestirsi si scolavano in un sol colpo intere anfore di vino falerno, come se fossero nati per il solo scopo di ingurgitare quanto più vino possibile[…]”
Comunque anche gli antichi dovevano far conto con problemi moderni: dopo la tremenda eruzione del Vesuvio del 79 d.C., rasa al suolo Pompei e perdute interamente le cantine del 78 e dell’79, venendo così meno uno dei maggiori centri di stoccaggio del vino falerno, molti mercanti ed affaristi vari fiutarono il colpo: ci fu una massiccia riconversione, ma davvero impressionante e su larga scala, dei campi di cereali in vitigni falerno nelle campagne intorno a Roma. Ben presto ciò portò, nel giro di un decennio, ad una tremenda inflazione del vino ed una tremenda deflazione di cereali, tanto da spingere nel 92 l’imperatore Domiziano a promulgare un editto con cui fece espressamente divieto di piantare nuovi vitigni in Italia e ordinò l’eradicazione di metà dei vitigni coltivati in provincia.
L’editto fu molto criticato dal Senato, che già vedeva di cattivo occhio l’operato dell’imperatore, sulla cui persona aleggiavano i sospetti mai confutati né confermati che fosse stato fratricida del compianto imperatore Tito, amor et delitia generi humanii. Inoltre, aveva ormai da tempo preso a perseguitare filosofi, ebrei e senatori che gli fossero avversi.
Gli esponenti della nobiltà provinciale si fecero messaggeri a Roma per comunicare quanto quell’editto fosse stato catastrofico, una vera e propria stroncatura dell’economia della Spagna e della Gallia, presso cui la coltivazione e l’esportazione del vino erano ormai una delle pratiche più diffuse e maggiormente remunerative.
Gli studiosi moderni sono comunque restii nel credere che tale editto fosse stato davvero così catastrofico, poiché fu abrogato soltanto nel 280 dall’imperatore Probo. Si ritiene, invece, che la polemica fosse stata ingigantita dalla storiografia filosenatoria per screditare ulteriormente l’immagine di quello che era a tutti gli effetti avvertito come un tiranno.
Accanto al vino, i Romani amavano accompagnare anche il passum, l’antesignano del moderno passito. Per ottenerlo si lasciava rinsecchire l’uva sui grappoli sino ai primi geli di Novembre.
Ai vini troppo spunti veniva invece aggiunto del miele, talvolta anche ulteriormente aromatizzato con altre piante, in proporzioni variabili a seconda di quanto spunto fosse venuto il vino, da cui s’otteneva il mulsum.
Un ulteriore variante era il vino “greco”, termine che non alludeva all’origini elleniche dei vitigni, bensì a dei vini cotti aromatizzati con erbe, spezie e resine, da cui si otteneva qualcosa di non troppo dissimile dal nostro vermut. Il perché lo chiamassero greco è da ricercarsi nel fatto che i Greci raramente bevessero il vino normale senza speziarlo, spesso ricorrevano all’assenzio, oppure all’acqua marina.
Quest’usanza greca di miscelare il vino all’acqua, marina o dolce che fosse, fu adottata con entusiasmo dall’aristocrazia romana che guardava sempre più all’Ellade, divenendone indi sempre più ellenizzata, con buona pace del Cato Maior e delle sue invettive con cui ne scherniva il rammollimento, definendoli graeculi.
Le classi meno abbienti ed i soldati bevevano invece la posca, aceto annacquato, oppure la lorca, una bevanda acquosa che si preparava con le vinacce fermentate.

Plinio il Vecchio aveva intuito che i vini più dolci tendessero a conservarsi di più, mentre quelli più forti diventavano più facilmente aceto. Inoltre aveva anche intuito che i vini trasportati per mare tendessero a maturare più facilmente poiché sbattuti dalle onde, processo le cui cause la scienza comprenderà totalmente soltanto diciassette secoli più tardi.
Comunque, grazie a Galeno sappiamo che i gusti dei Romani del II e III secolo cambiarono leggermente rispetto a quelli tardorepubblicani ed altoimperiali, quando iniziarono a consumare anche i vini “leggeri” provenienti dalla Gallia e dal Settentrione d’Italia, un tempo vini “premium” tra i meno abbienti (perché sempre meglio della posca e della lorca!) che a quel punto iniziarono a guadagnarsi anche il rispetto dei patrizi, i quali li presero ad accostare sulle tavole insieme ai vini “forti” importati dalla Magna Grecia e dalla Grecia stessa.
Il suo trattato De Antidotis si concede una lunga digressione circa i gusti dei Greci e dei Romani al suo tempo.
Oltre al Falernum, la cui nomea ancora gli consentiva d’essere il vino più ambito a distanza di tre o quattro secoli, i Romani iniziarono a prediligere anche quei vini che un tempo reputavano fossero rozzi, come il tiburtino, il sabino ed il setino, tutti coltivati nei pressi di Roma e dalla consistenza più leggera. Galeno accenna soltanto ai nuovi vini leggeri che arrivavano dalla Gallia con maggior frequenza, ma non si concede ulteriori digressioni.

È un vero peccato che dopo Galeno non ci siano pervenuti altri documenti relativi ai gusti dei Romani sul vino. L’unica informazione di cui disponiamo e che certamente dovette essere un duro colpo per la viticoltura fu la tassa in natura introdotta nel 250 dall’imperatore Decio, con la quale si obbligava a rendere a Roma ed altri centri strategici dell’impero una parte del vino da vendere a prezzo politico, con rimborso del trasporto: è molto probabile che ciò abbia portato ad una decadenza della viticoltura, che molti abbiano deciso di cambiare attività e che gli stessi commerci si fossero contratti.
L’ecumene tutta, decimata dalla peste antonina e dalla sua endemica sopravvivenza, causa tra le altre cose di una riduzione della fertilità tra i cittadini dell’impero, si avviava così in una spirale che a breve ne avrebbe portato alla caduta.
A conclusione di questa dissertazione voglio lasciarvi con un aforisma di Petronio Arbitro:
Il vino ha dunque una vita più lunga della nostra? Ma noi, fragili creature umane, ci vendicheremo ingoiandolo tutto. Nel vino è la vita.
Ironia del destino, oppure naturale conseguenza del Fato e dell’abbandono del culto di Bacco, pare proprio che Petronio abbia avuto ragione nel dire che nel vino è la vita: difatti, lo sbocciamento dell’amore tra Roma ed il vino è coinciso in qualche modo con l’ascesa di Roma e del suo impero, da cui n’è nato il soggetto politico più grande che la Storia abbia mai concepito, quell’Ecumene che fu per millenni veicolo di civiltà, di pace, di progresso, di prosperità e benessere.
Analogamente a ciò, la decadenza del vino in Occidente, la cessazione dell’aver in questo un riguardo culturale e metagastronomico, coincise con la decadenza stessa di Roma, riconfermando indi quell’indissolubile equazione vino=vita.
Ma il vino ha dunque una vita più lunga della nostra? Certamente, perché benché Roma sia caduta come entità politica, essa non è mai morta come Idea, come arte, come bellezza, come Spirito, come metro e come esemplarità. Essa è vissuta ed ancora vive, da secoli, nel cuore, nell’anima e nella mente di chiunque l’abbia amata ed emulata, di chiunque l’adori ed imiti. E tra le altre cose, essa è certamente vissuta, ed ancora vive, nel caldo entusiasmo che è ancora in grado di darci una buona bottiglia di vino, nella carezzevole armonia con cui questa pizzica il nostro palato. Perché qualunque sia la cantina, dal Regno Unito al Maghreb, dalla Spagna alla Mesopotamia, passando per la Francia, l’Italia, i Balcani e la Grecia, dietro la storia della sua vite ci sarà sempre un pizzico di Roma…
Michele Zabatta