Il popolo è la componente principale di uno Stato. Può sostenere i suoi governanti, aiutarli nei loro progetti, acclamarli. Può protestare, distruggere la credibilità degli uomini di potere, annientarli. Tuttavia, la comunità ha bisogno di essere governata, necessita di qualcuno che le trasmetta sicurezza. Il dovere di ogni governo non risiede solo nel difendere i confini geografici, nel proteggere la popolazione, grazie alla quale ha ricevuto l’incarico. Le autorità devono preservare la cultura, gli usi e i costumi della terra che controllano, del popolo, affinché essa possa essere perpetuata nelle generazioni future. Il cittadino consapevole deve apprezzare la cultura attraverso la quale la sua Patria è nata, deve poter conoscere e ammirare le grandezze del suo Paese.
Il Mos Maiorum
Le fondamenta della civiltà latina non risiedevano né in un libro sacro, come per gli ebrei, né in un testo epico, come l’Iliade e l’Odissea per i greci, bensì in una serie di consuetudini e modelli, incarnati in personaggi esemplari, che dovevano essere imitati. Un insieme di valori e norme riuniti sotto il nome di “mos maiorum”: letteralmente, “il costume degli antenati”, i quali erano definiti “maiores” perché più grandi in senso morale. Queste leggi non scritte regolavano, già precedentemente alla redazione delle XII Tavole, la vita del cittadino romano, fondandosi sull’oralità e sulla memoria e traendo la loro auctoritas dall’applicazione ripetuta nel tempo.
Durante la fase più arcaica della storia di Roma, erano custodite, amministrate e interpretate dai sacerdoti, dal rex e dal pontifex maximus. La trasgressione al mos maiorum rappresentava una violazione dell’ordine sia civile sia religioso: un atto che disturbava gli dèi e che, al fine di ristabilire il rapporto con la divinità, poteva essere punito con la morte del responsabile.
Principio fondamentale del mos maiorum era la ricerca del bene collettivo: l’eroe si qualificava tale non per qualità individuali straordinarie, bensì perché le impiegava nella difesa dello Stato, nel contribuire al benessere dei cittadini e di Roma.
La vita del civis romanus era regolata dall’austerità, rifiutando il lusso tipico delle popolazioni orientali e dedicandosi all’impegno militare e al lavoro agricolo.
Il mos maiorum contava cinque principali valori: virtus, pietas, fides, maiestas, gravitas. Colui che possiede la virtus è valoroso in guerra, fiducioso nelle proprie forze e nello stato romano, timoroso degli dèi, rispettoso delle leggi. Sicuramente più difficile da circoscrivere è la pietas: essa abbraccia valori e significati che vanno da “dovere” a “devozione”, da “giustizia” ad “amore filiale”, da “affetto” a “fedeltà”. Durante l’impero, questa virtù era spesso associata alle donne legate all’imperatore, le quali ne rappresentavano degne portatrici. La fides è la più antica virtù onorata a Roma, il cui culto fu stabilito, secondo la tradizione, da Numa Pompilio e restaurato successivamente dagli imperatori che ricercavano la fides militum, ovvero la “lealtà dei soldati”. Il significato principale è quindi “lealtà”, “fedeltà alla parola data”: regola i rapporti tra gli uomini, costituendo il fondamento del diritto, ma anche dell’amicitia, ovvero il patto sociale che unisce il cliente al suo patrono. In antichità, essa era raffigurata nelle effigi come una vecchia dai capelli bianchi, più anziana di Giove: il rispetto della parola data indica il principio di ogni rapporto sociale e politico. La maiestas instillò nel popolo romano la sensazione di superiorità: i romani sostenevano di essere un popolo eletto. La gravitas raggruppa qualità essenziali per il cittadino romano: serietà, compostezza, dignità, autorità.
La maggior parte della storiografia latina è dominata da una difesa dei valori tradizionali, incarnati nel mos maiorum, opposta ai flussi di rinnovo e cambiamento.
I portavoce della tradizione
Durante il II secolo a.C., la cultura ellenica venne esportata a Roma, a causa delle guerre in Asia e Grecia. Si diede inizio così al dibattito, destinato a durare per secoli, tra mos maiorum ed ellenizzazione.
La cultura romana venne notevolmente influenzata grazie, da un lato, all’importazione di preziosissime reliquie dai territori dell’Asia conquistati, dall’altro all’affluenza di numerosissimi schiavi greci, portatori della cultura, della tradizione greca, corredata da una letteratura di oltre cinque secoli. L’austerità tanto amata dai romani giungeva al declino, in favore del lusso greco.
Catone il Censore, politico, generale e scrittore romano, si erse in difesa del mos maiorum, sostenendo la promulgazione delle leggi suntuarie, con lo scopo di limitare il consumo legato all’ostentazione del lusso, e scrivendo una vasta raccolta di manuali tecnico-pratici, Praecepta ad Marcum filium, dedicata al figlio Marco. Si conserva per intero solamente il Liber De Agri Coltura, nel quale Catone sostiene la necessità di un ritorno all’etica della vita agricola.
«A suo tempo, o figlio Marco, ti dirò di codesti [Greci] quello che sono venuto a sapere ad Atene, e come sia bene conoscere la loro letteratura, non studiarla a fondo. Ti dimostrerò che sono una razza di gente perversa e indisciplinata. E questo fa conto che l’abbia detto un profeta: se questo popolo, quando che sia, ci darà la sua cultura, corromperà ogni cosa; e tanto più se manderà qui i suoi medici.»[1]
Questa citazione risulta essenziale per comprendere la posizione di Catone nei confronti della cultura greca: essa non viene respinta, ma se ne temono gli effetti sui fondamenti della morale romana. La perdita di ciò che aveva permesso a Roma di conquistare la Grecia, la vera romanità, il mos maiorum, era un pericolo da evitare: la difesa di Catone assume quindi una connotazione etica e politica.
Tuttavia, l’ascesa della cultura ellenica è un processo difficile da fermare: i principi cardine della romanità vengono allontanati nell’ombra, mentre la popolazione si diletta nel lusso. Questa situazione si protrasse per lunghissimo tempo, aggravata dagli eventi storici: le guerre civili, dal primo scontro tra Mario e Silla, attraverso le lotte di Cesare e Pompeo, fino alla guerra tra Antonio e Ottaviano, costrinsero i romani ad uccidere altri romani, alienandosi così dai precetti del mos maiorum. Lo stesso Marco Antonio, avendo ricevuto il controllo delle province orientali grazie all’alleanza politica del Secondo Triumvirato, si trasferì in Egitto assieme a Cleopatra, facendo propri gli usi e costumi orientali. Ottaviano si attirò le simpatie dell’aristocrazia tradizionalista, accusando Antonio di immoralità per l’abbandono della moglie – Ottavia Minore, sorella di Ottaviano – e per la condotta ellenizzante che il triumviro sfoggiava nella provincia. L’abile politica di Ottaviano lo portò presto al potere, ricevendo dal Senato l’appellativo di “Augusto”, ovvero “degno di venerazione”. Egli osservò un degrado morale nella popolazione, causa primaria della crisi all’interno del Senato e delle cariche pubbliche. Intraprese così un risanamento dei costumi inquinati dalla corruzione, cercando di ristabilire quell’austerità che caratterizzò la vita del popolo romano per tanti secoli.
Augusto sfruttò la passione per la cultura facendo aderire i maggiori intellettuali dell’epoca ad un progetto di restaurazione culturale: si avvalse dell’aiuto di Mecenate, suo consigliere, il quale riunì attorno alla sua figura Virgilio, Orazio, Properzio, Tito Livio e molti altri. Essi descrissero l’età augustea come un periodo di pax, di prosperità, ma soprattutto di ritorno al mos maiorum, alla moderazione, al rifiuto del lusso, alla parsimonia, alla vita di campagna.
Si deve a Virgilio la più alta rappresentazione del prototipo dell’uomo in cui confluiscono tutte le virtù legate al mos maiorum: nel protagonista dell’Eneide si riconoscono coraggio, lealtà, giustizia, devozione verso gli dèi, capacità si sopportare le avversità, un alto senso civico, che lo porta ad anteporre il bene della Patria ai suoi personali desideri.
In un momento storico nel quale si cerca di mettere in ombra i principi cardine della cultura, dell’arte, dei valori che hanno reso grande il nostro Paese, adottando come pretesto il rispetto reciproco, assume una maggiore rilevanza la conoscenza, l’ammirazione, lo studio di quella stessa dottrina che ha portato Roma, l’Italia al centro dello scenario politico – culturale europeo e dei frutti, dei capolavori che da essa sono scaturiti.
Le testimonianze di una civiltà passata giacerebbero tutte nelle tenebre, se non vi si accostasse la luce della conoscenza: solo l’uomo può farle rivivere, ricordandole e tramandandole, poiché esse non rappresentano solo reliquie di un inestimabile valore, ma esempi che solo un vero comandante sa contemplare e imitare.
Lo stesso Cicerone, grandissimo oratore della Roma repubblicana, sostenne che nel governare lo Stato, durante il suo consolato nel 63 a.C., si ponesse davanti le “nitide immagini” lasciate da scrittori greci e latini, modellando il suo animo e la sua mente proprio col meditare su quegli uomini eccellenti. Perché mai dovrebbero essere dimenticate al giorno d’oggi, anziché utilizzate per nobili scopi?
“Atque idem ego hoc contendo, cum ad naturam eximiam et inlustrem accesserit ratio quaedam conformatioque doctrinae, tum illud nescio quid praeclarum ac singulare solere exsistere.”[2]
“Ma d’altra parte io sostengo che quando ad una natura egregia e splendida si aggiungono una disciplina metodica e la formazione dovuta agli studi, allora si manifesta quel non so che di straordinario e di unico.”
Sabina Petroni – In difesa del Mos Maiorum
[1] Frammento 1 de Praecepta Ad Marcum filium, di Marco Porcio Catone, detto Il Censore. Testo originale: «Dicam de istis suo loco, Marce fili, quid Athenis exquisitum habeam, et quid bonum sit illorum litteras inspicere, non perdiscere. Vincam nequissimum et indocile esse genus illorum. Et hoc puta vatem dixisse, quandoque ista gens suas litteras dabit, omnia corrumpet, tum etiam magis, si medicos suos hoc mittet.»
[2] Cicerone, estratto da Pro Archia, orazione in difesa del Poeta Archia.
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