Negli ultimi anni abbiamo assistito a un prepotente inserimento di vocaboli stranieri nel parlare italiano comune. Diventa sempre più frequente ascoltare conversazioni infarcite di “meeting, fare un check, playlist, briefing” eccetera ed è un fenomeno che in alcune zone della Penisola inizia a diventare preoccupante.
Senza scomodare quel capolavoro assoluto della letteratura mondiale che è la Divina Commedia, proponiamo una riflessione più consona agli argomenti di Renovatio Imperii. Ai tempi di Roma, il latino rappresentava la lingua utilizzata in ogni ambito della vita, per lo meno nella parte più occidentale del mondo: militare, amministrativo, letterario, scientifico, religioso.
Perfino dopo la caduta della Pars Occidentalis, la lingua degli antichi ha continuato a essere usata come veicolo di comunicazione tra gli accademici di tutto il mondo fino a un momento che, storicamente, possiamo paragonare all’altro ieri. Quale studioso di scienze naturali, diritto, storia o filosofia poteva dirsi tale senza essere in grado di utilizzare correttamente o comprendere la lingua di Plinio e di Marco Aurelio?
Come ben sappiamo, i corsi e ricorsi della storia hanno finito per portarci nell’area di influenza politica e culturale di paesi anglofoni, tuttavia sorge spontanea una domanda: per quale motivo dovremmo rinunciare alle radici culturali e linguistiche dell’italiano? È risaputo che ogni lingua è viva ed evolve con il passare del tempo, inserendo nel suo repertorio numerosi prestiti, calchi e traduzioni letterali di alcuni termini stranieri, ma il fenomeno che ha portato tanti anglicismi nella nostra lingua è senza precedenti.
Un fenomeno comparabile nell’arco della storia ad uno accaduto nella Svezia del diciassettesimo secolo. La dinastia dei Vasa domina su uno stato ambizioso ma arretrato, e il re Gustavo Adolfo II ha in mente importanti riforme sociali e culturali. La sua attenzione cade su una delle potenze più solide e avanzate dell’epoca, la Francia, dando il via a una massiccia operazione di “importazione culturale”. Questo implica che nella lingua svedese, percepita quasi come inferiore nella mente del sovrano nordico, approdino in pianta stabile molte parole francesi. Non è la prima volta nella storia che qualcosa del genere accade, ma alla base di questo specifico fenomeno sta una presunta inferiorità culturale di una lingua rispetto all’altra.
Tornando al nostro discorso, dobbiamo forse credere che l’italiano sia culturalmente inferiore all’inglese? Dovremmo credere che la lingua più direttamente discendente dael latino, utilizzato per ogni ambito culturale fino a un paio di secoli fa, debba farsi mettere in bocca nuovi termini senza nemmeno lo sforzo di provare a inventarne di propri? Sarebbe estremamente ironico, soprattutto pensando che la maggior parte del lessico scientifico o aulico utilizzato nella lingua inglese affonda le sue radici proprio nel latino.
L’importazione di parole straniere nell’ambito tecnologico, soprattutto legato all’informatica, testimonia in qualche modo come il nostro paese debba seriamente mettersi in pari e investire di più nella ricerca e sviluppo, ma il punto della questione qui è un altro.
C’è bisogno che l’Italia torni a credere in sé stessa, nella sua lingua e nella sua storia, ricominciando a dare nomi agli oggetti e ai fenomeni che popolano il mondo con la propria testa. Utilizzare le radici lessicali latine per creare nuove parole nella nostra lingua si può, e dove questo non fosse possibile per scarsa estetica a livello fonetico può venire in aiuto il greco, altra lingua che infinitamente tanto ha dato alla scienza e alla cultura.
Francia e Spagna hanno leggi apposite per la tutela delle rispettive lingue nazionali nella documentazione ufficiale, nonché uno spirito maggiormente consapevole per quanto riguarda la tutela del patrimonio lessicale dell’idioma. Vogliamo essere da meno rispetto a quelle regioni che, ai tempi dell’impero, pendevano letteralmente dalle labbra di Roma?
Luigi Oriani
L’autore: Nasce a Milano alla fine di maggio nel 1992. Appassionato da sempre di storia, cresce divorando romanzi e saggi relativi ai più disparati periodi storici, con una particolare passione per Roma in ogni sua età. Dopo il liceo classico, si laurea in economia e continua a coltivare la passione per la storia e la narrativa con il progetto del suo primo romanzo storico attualmente in lavorazione.