L’economia giapponese è una delle maggiori economie al mondo, oltre ad appartenere ad un paese G7 e ad essere uno dei motori più importanti dell’interscambio in Estremo Oriente e nel Pacifico. Ciononostante, il Giappone è da tempo intrappolato in una stagnazione economica dalla quale non riesce a liberarsi. Negli ultimi 30 anni, il Giappone è passato dal rivaleggiare con gli Stati Uniti come seconda economia più grande al mondo allo stato attuale: in economia, spesso si definisce questo lunghissimo periodo come l’era dei «decenni perduti» (Lost Decades), e a seconda della datazione, se ne contano uno, due, oppure tre, partendo dagli anni ’90 ai giorni nostri.
La parabola giapponese ha molte similitudini (e non poche differenze) con la traiettoria del (mancato) sviluppo economico italiano degli ultimi 30 anni: anche il nostro Paese, a partire dagli anni ’90, è rimasto coinvolto in una combinazione di crisi politica, economica, oltre a scelte sbagliate della classe dirigente. Eppure, in Italia non si è preso atto della crisi epocale del sistema-paese, e si continua ad arrancare in una gestione emergenziale dei problemi d’Italia che forse dovrebbe lasciare spazio ad una ristrutturazione sistematica dell’architettura politico-economica italiana.
I «decenni perduti» del Giappone
Le cause della crisi giapponese furono e sono molteplici. Fra le principali vengono di frequente indicate la bolla immobiliare che esplose nei primi anni ’90, e la cultura bancaria che portava le banche a garantire prestiti usando come collaterale terreni e immobili. Le tendenze speculative del sistema bancario giapponese furono amplificate da alcune distorsioni fiscali relative alle proprietà terriere e dalla deregolamentazione finanziaria del sistema stesso.1
Quando la bolla esplose, ne derivarono non soltanto delle ricadute sui creditori diretti, ma anche sul sistema bancario in generale, che all’improvviso si trovò nella condizione di rivalersi sui debitori solamente attaccando delle proprietà il cui valore era nel frattempo enormemente sceso. Di conseguenza, il sistema economico giapponese subì anche una massiccia riduzione dei flussi di credito nell’economia.2
La dinamica si sviluppò in una vera e propria crisi bancaria, che entro il 1998 portò più di 180 istituti alla bancarotta, perlopiù piccole e medie realtà troppo legate ai prestiti in settori specifici di rilevanza regionale e con scarsa tendenza alla diversificazione e al reinvestimento finanziario.3 Il governo intervenne con massicce iniezioni di liquidità per salvare le maggiori banche a rischio a partire dagli anni 2000, ma il risultato fu una espansione dell’approccio monetarista, sistematizzando le politiche di alleggerimento quantitativo.4
Nonostante ciò, non solo la propensione all’investimento nell’economia giapponese non è aumentata, ma si è anche notato un vistoso calo degli investimenti tecnologici e ad alta produttività.5 Rispetto al 1990, la crescita della produttività dei fattori aggregati, e quindi della produttività del lavoro, si è ridotta del 26% al 2018, il secondo peggior dato fra i venti grandi paesi OECD.6 Risulta particolarmente notevole anche il fatto che il debito pubblico giapponese sia in gran parte in mano a creditori privati e istituzionali giapponesi, tuttavia non si è riuscito a mobilitare il risparmio giapponese verso forme più produttive di investimento pubblico e privato che non fossero titoli di stato.7
Nonostante una mite ripresa nei primi anni 2000, il Giappone fu duramente colpito dalla crisi del 2008, oltre che dal disastro di Fukushima che portò ad una pericolosa instabilità della struttura di sicurezza energetica del paese e ad un notevole peggioramento del conto delle partite correnti relativo all’impressionante aumento delle importazioni energetiche (principalmente idrocarburi).8
Il lancio della cosiddetta «Abenomics», patrocinata dall’allora primo ministro Shinzo Abe, prevedeva un ritorno alle massicce iniezioni di liquidità nell’economia, oltre a politiche fiscali flessibili e all’incoraggiamento dell’investimento privato.9 Al netto di alcuni successi limitati, come una piccola mobilitazione della manodopera femminile nel mercato del lavoro e gli incentivi alla diversificazione degli asset finanziari, l’economia giapponese non è stata in grado di avviare un processo di rinnovamento economico, né di rallentare il gravoso invecchiamento della popolazione.10 11 La crisi pandemica ha ulteriormente aggravato le condizioni del Giappone.
Italia: un quindicennio perduto?
La storia economica d’Italia negli ultimi 30 anni è non meno complicata di quella del Giappone. È sufficiente rammentare che a partire dagli anni ’90, la grave crisi economico-politica del nostro Paese ha avuto gravi conseguenze, a partire dallo smembramento e dalla disintegrazione verticale dei grandi colossi industriali italiani,12 cosa che promosse la crescita di distretti industriali diffusi, eterogenei e poliarchici specializzati nella produzione snella per soddisfare richieste secondo il paradigma “appena in tempo” (just in time).13
A partire dalla fine della Prima Repubblica, un’ondata di privatizzazioni e svendite delle maggiori aziende pubbliche italiane ha determinato la rotta del capitalismo italiano,14 nella misura in cui furono annientati i conglomerati grandi abbastanza da produrre economie di scala e rimanere significativi in un panorama globale.15 Da allora, è stato notato che la struttura del capitalismo italiano negli ultimi decenni si è sviluppato secondo una modalità ibrida, con profitti di produzione frammisti a estrazione delle rendite, nella quale i saggi di profitto sono rimasti stabili nel contesto di una economia stagnante e un declino generalizzato di tutte le variabili fondamentali macroeconomiche, attraverso la riduzione del reinvestimento nel capitale fisico e nel lavoro qualificato16 e favorendo quindi processi di accumulazione semplice. Difatti, l’Italia ha registrato la minor crescita di produttività del lavoro fra i paesi OECD, che è risultata addirittura negativa fra 2001-2010.17
Queste tendenze erano già emerse negli anni ’80, ma la ristrutturazione della base industriale italiana pare averle esacerbate18. Nonostante le esportazioni reali pro-capite siano significativamente calate rispetto agli anni ’90,19 i saggi di profitto delle aziende private italiane sono rimasti stabili.20
Vi sono anche altri indicatori che avvalorano questa interpretazione, come la contrazione del rateo di utilizzo della capacità produttiva (sceso al 70% e al 60% dei rispettivi ratei francese e tedesco)21, la stagnazione dei salari reali,22 la pervasiva tendenza degli imprenditori italiani a preferire produzioni a scarso valore aggiunto e basate sul lavoro fisico,23 e una condizione permanente e generalizzata di deflazione (come si può evincere dalla stasi della domanda aggregata fino al 2008, e dalla sua regressione a partire dalla crisi di quell’anno).24
Risultano notevoli, in particolare, i dati che si possono evincere da alcuni studi, secondo i quali anche il il Nord-Est d’Italia, che tradizionalmente includeva alcuni dei territori a più forte vocazione industriale e fra i più economicamente avanzati del paese, in termini comparati ad altre regioni europee avrebbe praticamente subito un arresto nello sviluppo economico e nella crescita.25 Sempre nel Nord-Est, si è appurato che circa un terzo delle imprese che intendono assumere nuovi lavoratori intendono farlo non per espandere la produzione o migliorare i processi produttivi, bensì per rimpiazzare lavoratori prossimi al pensionamento;26 il 18% di queste imprese era inoltre alla ricerca di operai generici senza particolari qualifiche o titoli di studio, oppure guidatori di mezzi.27
I dati citati a titolo esemplificativo sono comunque da inquadrare in un contesto, quello dell’economia dell’Italia nordorientale, in cui a fianco di poche grandi industrie ruotano una miriade di imprese piccole o piccolissime con modelli di produzione ormai obsoleti, con scarsissime prospettiva di crescita, e nel confronto con gli anni del Nord-Est come motore industriale risulta assai sminuito. Altri dati relativi alla Lombardia restituiscono un quadro simile.28
Al contempo, e nonostante un declino significativo in tutte le variabili macroeconomiche fondamentali, le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza hanno raggiunto una magnitudine impressionante e preoccupante, essendo ormai il 20% delle famiglie più ricche in possesso dei 2/3 nella ricchezza netta nazionale nella misura di 6000 miliardi di euro , ovvero tre volte e mezzo le dimensioni del PIL italiano.29 A fronte quindi di una Italia sempre più “proletarizzata” e economicamente arretrata, ed un sottaciuto processo di “meridionalizzazione” del tessuto economico-sociale delle regioni più avanzate del Nord al posto di un recupero delle regioni storicamente più svantaggiate, si è enormemente rafforzato il ceto più abbiente del Paese, riportando indietro di decenni la nazione.
Ad oggi, l’indice FTSE MIB, il principale usato per misurare l’andamento della borsa italiana, riporta un valore ancora parecchio inferiore rispetto al periodo antecedente la crisi del 2007-2008. Come si può notare, l’indice risulta comunque in crescita ed è andato bene negli ultimi mesi, ma ciò è da imputare alla preponderante presenza di banche (Unicredit, Intesa SP) e giganti del settore energetico (Enel, Eni) ovvero aziende che si sono enormemente arricchite a seguito della crisi energetica e dei rialzi sui tassi di interesse.30 I cosiddetti extraprofitti hanno portato le banche italiane a trainare questi andamenti, contribuendo all’aumento del FTSE MIB per il 40% della sua crescita degli ultimi mesi, con Unicredit a fare da capofila con l’89%, quasi un raddoppio della propria quotazione.31
Nonostante i dati positivi degli ultimi mesi, la borsa di Milano continua a movimentare capitali nettamente inferiori rispetto alle controparti di Londra e di Parigi32, e secondo alcune ricerche negli ultimi vent’anni 185 aziende si sarebbero fatte quotare in borsa a fronte di 268 che avrebbero ritirato le proprie quotazioni.33 Un mercato azionistico minore, lo Euronext Growth Milan, ha uno sviluppo più positivo ma esso è sostanzialmente dedicato alle PMI.34 In ogni caso, il PIL italiano raggiunse l’apice nel 2008, a 2,4 trilioni di dollari, e da allora non è mai ritornato a quelle dimensioni (nel 2022, era di 2 trilioni di dollari).35
Anche i dati più positivi devono quindi essere considerati in una ottica di declino di lungo periodo, ed è inoltre difficile stabilire quanto essi siano veramente rappresentativi o integrati nell’economia reale, tenendo conto del ruolo delle speculazioni avutesi nell’ultimo periodo di inflazione post pandemica e della contrazione economica subita durante la pandemia stessa.
Conclusione
Nonostante questi tragici sviluppi, frutto di tendenze lontane nel tempo ma maggiormente intensificatesi negli ultimi 15 anni, esiste e resiste ancora una narrazione dell’Italia come Paese in difficoltà economica e politica, ma che sostanzialmente riesce a tenere il passo con gli altri paesi del G7 o comunque rimane uno dei paesi più ragguardevoli in Europa e nel mondo.
Bisogna tuttavia cominciare a confrontarsi non con un’Italia fittizia in tutto o in parte, confrontandosi realmente con lo stato del Paese e prendendo atto delle sfide odierne senza filtri e senza censure. Negli ambienti di studiosi ed accademici di relazioni internazionali, geopolitica o scienze affini, si dibatte spesso del cambiamento (in negativo) subito dalla politica estera italiana negli ultimi quindici anni, ovvero delle batoste imposte all’Italia, prima fra tutte il collasso della Libia nel 2011, che si verificarono come conseguenza di una postura arrendevole e troppo accomodante verso i desiderî di altre potenze.
Sebbene queste valutazioni degli ultimi quindici anni di politica estera italiana rimangano posizioni di nicchia, praticamente ininfluenti a livello parlamentare e politico (soprattutto perché evidenziano criticità imbarazzanti, ascrivibili ad un atlantismo e ad un europeismo “ortodosso”), esse tuttavia esistono. Relativamente allo stato dell’economia, praticamente non esiste un movimento d’opinione qualificato, ancorché “eterodosso”, che evidenzi le enormi difficoltà strutturali d’Italia, mentre ai massimi livelli istituzionali perdura una narrazione basata sulle “eccellenze italiane”, sul ruolo privilegiato dell’Italia nel mondo e senza imbarazzo si dedica un ministero al “made in Italy”.
Se invece si fosse dedicato un ministero a «produzione e industria nazionale», sarebbe forse risultato più chiaro esattamente che cosa l’Italia (non) produce, oltre ad evidenziare l’effetto di lungo periodo dell’assenza di una qualsivoglia politica industriale ed economica in grado, se non di combattere efficacemente le arretratezze del nostro sistema economico, quantomeno di ambire a farlo.
Le difficoltà del mercato del lavoro, l’assenza di un vero sistema di formazione professionale, gli squilibri territoriali, l’iniquità del sistema fiscale e il concentramento della ricchezza nelle mani di pochi, l’inesistenza di industrie digitali, cibernetiche e nanotecnologiche (settori chiave non solo nel futuro, ma già nel presente), la enorme crisi demografica, e via dicendo. È assolutamente necessario prendere coscienza del fatto che l’Italia si trovi in una condizione simile a quella giapponese: almeno in riferimento al 2007/2008, l’Italia ha avuto un «quindicennio perduto», una generazione mancata. Senza questa constatazione, non saremo mai in grado di cominciare ad invertire la tendenza.
Orlando Miceli
L’autore, Orlando Miceli – Fiorentino, classe ’95. Baccalaureato in Politikwissenschaft all’universitá di Vienna, studia a Trento per divenire consulente politico, con focus su economia politica, geoeconomia e geopolitica. Privatamente si interessa di storia, filosofia politica, strategia e sistemi d’arma.
Note:
1 Cfr. Fukao, M. Japan’s Lost Decade and its Financial System. In: World Economy, 26, 2003. pp. 366-367.
2 Cfr. Yoshino, N. & Taghizadeh-Hesary, F. Japan’s Lost Decade: Lessons for Other Economies. In: ADBI Working Paper Series, 521, 2015. pp. 5.
3 Ibidem, pp. 9.
4 Ibidem, pp. 9-10.
5 Ibidem.
6 Betts, C. How many (more) lost decades? The great productivity slowdown in Japan. In: MPRA, 106503, 2021. pp. 4
7 Cfr. Yoshino, N. & Taghizadeh-Hesary, F. Japan’s Lost Decade, cit. pp. 11.
8 Morgan, J. The End of the Abe Administration–The End of Abenomics? Books on Past and Present in the Japanese Political Economy. In: Quart J Austrian Econ, 24, 1, 2021. pp. 178-179.
9 Ibidem, pp. 179-180.
10 Ibidem, pp. 183-184.
11 Cfr. Yoshino, N. & Taghizadeh-Hesary, F. Japan’s Lost Decade, cit. pp. 17-19.
12 Cfr. Arrighetti, A. & Landini, F. Eterogeneità delle imprese e stagnazione del capitalismo italiano. In: L’industria, 2, April-June 2019. pp. 343.
13 Ibidem, pp. 343-344.
14 Cfr. Matteucci, N. & Seri, P. Crisi e declino nella manifattura italiana: note per l’agenda di ricerca e la politica industriale. In: PRISMA Economia – Societ`a – Lavoro, 3, 2012. pp 157.
15 Ibidem, pp. 159.
16 Cfr. Cfr. Arrighetti, A. & Landini, F. Eterogeneit`a delle imprese e stagnazione del capitalismo italiano. Cit. pp. 361.
17 Betts, C. How many (more) lost decades? The great productivity slowdown in Japan. Cit. pp. 4, 47.
18 Cfr. Matteucci, N. & Seri, P. Crisi e declino nella manifattura italiana. Cit. pp. 155.
19 Cfr. Storm, S. Lost in deflation: Why’s Italy’s woes are a warning to the whole Eurozone. In: Working Papers, 94, Institute for New Economic Thinking, 2019. pp. 27
20 Cfr. Tronti, L. Investimenti, profitti e ripresa: il problema italiano. Un’analisi di lungo periodo. In: Economiaepolitica –
Paper, 13, 21/1, 2021., pp. 7-8
21 Cfr. Storm, S. Lost in deflation: Why’s Italy’s woes are a warning to the whole Eurozone. Cit. pp. 28-29.
22 Ibidem, pp. 19-20.
23 Cfr. Ciccarone, G. & Saltari, E. Cyclical downturn or structural disease? The decline of the Italian economy in the last
twenty years. In: Modern Journal of Italian Studies, 20, 2. 2015. pp. 240-242.
24 Ibidem, pp. 25-26.
25 Cfr. Manag`o, A. La fine del mito del Nord-Est, la locomotiva d’Italia non tira più. In: AGI, 27.08.2022. Disponibile a: www.agi.it/economia/news/2022-08-27/fine-mito-nord-est-locomotiva-italia-non-tira-piu-
17868794/
26 Cfr. Oliva, S. Nota 1/2022 – Le imprese vogliono assumere, mancano i candidati e l’economia rischia di incepparsi. In: Fondazione Nord Est, Note della Fondazione, 2022. Disponibile a: https://www.fnordest.it/web/fne/content.nsf/0/98222F61201C924FC12588B0004C772A/$file/Mancanzadicandidati_nota1_22%20def.pdf?openelement [ultimo accesso: 24/02/2024]
27 Ibidem.
28 Cfr. Romano, R. Meridionalizzazione della Lombardia in Europa. In: Sbilanciamoci, 13/01/2023. Disponibile a: https://sbilanciamoci.info/meridionalizzazione-della-lombardia-in-europa/ [ultimo accesso: 24/02/2024]
29 Tronti, L. Investimenti, profitti e ripresa: il problema italiano. Cit. pp. 9.
30 Cfr. Allievi, M. & Masoni, D. Italy, Spain stocks hit peaks after over 20% rally in 2023. In: Investing.com, 30/11/2023. Disponibile a: https://www.investing.com/news/economy/italy-spain-stocks-hit-peaks-after-over-20-rally-in-2023-3246935 [ultimo accesso: 24/02/2024]
31 Ibidem.
32 Anzolin, E. Atlantia exit highlights Milan’s battle to retain market heavyweights. In: Reuters, 25/11/2022. Disponibile a: https://www.reuters.com/markets/deals/atlantia-exit-highlights-milans-battle-retain-market-heavyweights-2022-11-25/
33 Ibidem.
34 Ibidem.