Il concetto e la regolamentazione dell’istituto giuridico del lavoro, così come noi lo conosciamo oggi, hanno subito nella storia più antica e in quella più recente numerosi cambiamenti. Le sue radici le possiamo riscontrare nel Diritto Romano e, analizzando le fonti storiche dell’epoca, queste ci consentono di tentare una ricostruzione sommaria, ma comunque dettagliata, di quello che era l’inquadramento di un comune lavoratore, aiutandoci a capire l’evoluzione del quadro legislativo del lavoro, le relative tutele e i tanti meandri attraverso i quali i giuristi del passato si muovevano per regolamentare uno dei pilastri fondamentali di qualunque civiltà, antica o moderna.
L’apprezzamento sociale del lavoro è cambiato nel corso della storia romana e, purtroppo, la lingua latina non aiuta in questo caso, peccando di un’espressione che definisca il termine “lavoro”: per analizzare l’istituto possiamo avvalerci di una categoria giuridico – sociale ben specifica. Il lavoro, infatti, in ogni sua manifestazione, che fosse essa meramente materiale o intellettuale, nelle fonti era ricompreso in un’unica terminologia: “operae”.
Questo ci dà già un primo importante indizio: nel diritto romano non vi era una netta distinzione tra il lavoro di concetto e quello manuale, ma essi erano, in maniera piuttosto vaga, inclusi in un unico grande insieme di arti e professioni, visto che mancava altresì una definizione di “Operae” nelle fonti giuridiche.
Ma andiamo con ordine.
Il significato di “operae”, pur mancando una definizione chiara, è possibile ricostruirlo e dedurlo per analogia, interpretando alcuni concetti più in generale. Essa si presentava con i caratteri della proiezione nel futuro dell’attività e la stretta connessione con il fattore tempo, ma ciò che la distingueva da qualsiasi altra azione, intesa come atto volto al raggiungimento di un determinato fine, era la necessità della prestazione, cioè un’azione compiuta poiché sussistesse dietro di essa un obbligo. In altre parole, non erano ricomprese nelle “operae” le azioni compiute senza il carattere dell’obbligatorietà.
I giuristi classici tendevano a considerare il lavoro come un concetto prettamente materiale, convenendo che la prestazione lavorativa potesse essere ricompresa in una particolare forma giuridica denominata locazione, cioè un tipo di contratto dove una parte si impegnava ad assicurare all’altra il godimento di una cosa per un tempo determinato e dietro il pagamento di un corrispettivo. Circoscrivendo questa fattispecie all’ambito del lavoro, si inizia a delineare meglio il ricorso al negozio in esame, giacché la prima forma di lavoro considerata era quella degli schiavi. Dando per assodato questo fatto, si poneva un problema: qual era l’oggetto del contratto? Il lavoratore o il lavoro in sé? Invero vi erano diverse opinioni a riguardo, quelle più “conservatrici”, che consideravano il contratto di locazione come una vera e propria compravendita e quelle più “innovatrici” che tentavano un discostamento dal concetto di locazione, inquadrando il lavoro più propriamente come atto. Seguendo la linea tracciata dai giuristi classici e dalla dottrina dell’epoca, entriamo nello specifico di quali erano i contratti a cui si faceva ricorso, i relativi oneri e i doveri delle parti.
I fatti da cui scaturivano obblighi erano derivanti dai “contractus”, riconosciuti dallo Ius civile. Tra questi ce n’era uno molto particolare su cui possiamo appoggiarci per capire e decifrare la regolamentazione del lavoro nelle varie epoche romane: la Locatio conductio, un tipico negozio tra due parti che fece il suo ingresso tramite lo Ius civile novum e che si annoverava tra i più utilizzati nel sistema romano delle obbligazioni. In forza a tale negozio nascevano una serie di obblighi e dal suo schema i giuristi romani fecero confluire la maggior parte degli accordi aventi ad oggetto la prestazione di lavoro. Era distinto di tre specie principali che nel diritto Giustinianeo vennero considerate come tre generi diversi di contratto: la locatio rei, la locatio operarum e la locatio operis faciendi, e sono proprio queste ultime due ad essere prese in considerazione per ricostruire la regolamentazione del lavoro.
La Locatio operarum consisteva in un contratto mediante il quale un soggetto metteva a disposizione della controparte i propri servizi e le proprie energie lavorative, ricevendo in cambio un corrispettivo. Autorevoli dottrine dell’epoca ritenevano che la locazione delle opere derivi dalla locazione degli schiavi e che si sia poi evoluta nel tempo a quella del lavoro dell’uomo libero. Le sue caratteristiche più generali erano che la prestazione aveva luogo in giornate e ricomprendeva solo quelle manuali, forse come conseguenza del fatto che, essendo derivato dalla locazione degli schiavi, essi potevano rendere solo prestazioni manuali. Ai principi dell’epoca imperiale, infatti, il negozio era utilizzato per la locazione delle persone: parecchi sono gli indizi che presentavano la persona, e non la sua prestazione, come oggetto del contratto, nascendo infatti come un contratto di messa a disposizione della persona attraverso la messa a disposizione dello schiavo da parte del padrone e, successivamente, della disposizione della propria prestazione lavorativa da parte dell’uomo libero. Per quanto riguarda le sue caratteristiche più peculiari occorre fare attenzione a contestualizzarle storicamente in base alle epoche prese in esame. Per fare alcuni esempi, in epoca più antica, quando cioè l’oggetto del contratto era considerato la persona e non il suo lavoro, l’obbligo di prestare opera non derivava dal contratto in sé, ma da un dovere disciplinare della persona posta sotto i servizi altrui. Vi era inoltre un elemento dispositivo assai particolare, cioè che spesso il lavoratore veniva accolto presso l’abitazione del locatario, ricevendo salario e vitto e, quando questo accadeva, i poteri disciplinari dell’utilizzatore esulavano dal mero rapporto di lavoro, avendo il padrone la facoltà di comandare anche al di fuori di esso.
Il contratto aveva una durata minima di una giornata lavorativa ed era variabile in base alle consuetudini e in base alle stagioni, con una sovente sospensione di esso a metà della giornata; le prestazioni erogate erano a tempo determinato, anche se alcune fonti parlano di “locatio in perpetuum”, una sorta di stipulazione a tempo indeterminato propria della Locatio Rei, di fatto una stipulazione a tempo indeterminato che poteva essere applicata anche alla Locatio operarum. Il lavoratore aveva libertà di recedervi a causa della troppo gravose condizioni del lavoro e, nel caso di un rapporto che si fosse protratto a tempo indeterminato, poteva esservi un recesso ove vi fosse stata una manifestazione contraria a quanto stipulato da parte uno dei contraenti. Nel caso invece dei contratti a termine, il recesso era limitato solo in casi eccezionali valutati discrezionalmente dal giudice, come confermato da una ricostruzione dell’epoca di Diocleziano (284 – 305 d.c.).
Per quanto riguarda il corrispettivo, spesso consisteva in una somma di denaro – che poteva in parte essere erogata con il passaggio del vitto – elargita a fine lavori, anche se poteva accadere che questa fosse regolata a cadenza giornaliera ovvero mensile. Se il prestatore di lavoro era impossibilitato a svolgere la prestazione, il locatario era obbligato lo stesso alla corresponsione del compenso, salva diversa stipulazione.
La locatio operis faciendi era un particolare negozio giuridico dove il lavoratore, sempre dietro il pagamento di un corrispettivo, si impegnava con il lavoro proprio o di altre persone sotto il suo coordinamento, a svolgere una prestazione per il suo committente. Il contratto aveva ad oggetto un lavoro per l’utilità del committente e doveva essere quest’ultimo a fornire le materie prime per il compimento dell’azione.
Nel corso del periodo classico, la locatio operis si distaccò dal paradigma iniziale che stabiliva che fosse il lavoratore ad avere il compito di trasformare una materia prima fornita dal committente in cambio di un corrispettivo: col tempo furono assunte da esso forme più variabili e flessibili. Secondo la dottrina di alcuni giuristi classici, infatti, rientrava negli schemi della locatio operis anche la prestazione del lavoratore che si impegnasse nella trasformazione di una cosa già esistente o nella creazione ex novo di un bene, anche senza aver ricevuto il materiale dal suo committente.
Il lavoratore aveva l’obbligo di eseguire l’opera nel tempo prestabilito, sia personalmente, sia avvalendosi di schiavi ovvero appaltando l’opera ad un altro lavoratore che si assumeva l’impegno di svolgere la prestazione. Se il termine non fosse stato stabilito, era dato per assodato il tempo ordinariamente necessario per effettuare il lavoro. La locazione poteva avere ad oggetto qualsivoglia opera, da realizzare con l’impiego di energie manuali e intellettuali e poteva consistere in una prestazione di lavoro in senso stretto, la custodia di un qualcosa, il trasporto di oggetti o nella trasformazione di una materia prima in prodotto finito.
Già dalla descrizione sommaria dei due istituti, si può notare una sostanziale differenza: nella locatio operis vi era una maggiore autonomia del lavoratore, mancando una stretta dipendenza nei confronti del committente. Il lavoratore non metteva a disposizione le sue energie lavorative nei confronti di un altro soggetto, ma assumeva una posizione più autonoma che gli consentiva di gestire meglio il suo tempo e le sue energie, pur dovendo rispettare i tempi di consegna. Consisteva in una sorta di lavoro “a progetto”: vi era una scadenza da rispettare, ma il lavoratore poteva organizzare il suo processo lavorativo in base al suo essere, alla sua sensibilità e in base al momento.
A far da contrappeso a questa autonomia c’erano diversi obblighi, oltre al rispetto dei tempi di consegna. Le varie dottrine dell’epoca valutavano alcuni aspetti inerenti le responsabilità del lavoratore. Per esempio, la proprietà dell’oggetto in fase di lavorazione era del committente o del lavoratore? Cosa accedeva in caso di danneggiamento o di altri eventi? Invero, anche qui bisogna contestualizzare il fatto in base all’epoca di riferimento. Se in epoca più antica interveniva la “mutatio domini”, cioè un passaggio di proprietà al momento della consegna dell’opera, con il passare del tempo questa modalità sarebbe sparita definitivamente, facendo sussistere solo in capo al lavoratore una responsabilità per mero dolo. Nel Digesto (533 d.c.) la responsabilità si concretizzava nel dover rispondere per furto, danno ovvero imperizia. In conclusione, in base allo status del lavoratore rispetto alla cosa, si valutavano responsabilità caso per caso.
Riguardo all’approvazione dell’opera da parte del committente, poteva avvenire o a lavoro finito ovvero approvata a mano a mano ogni volta si raggiungesse un obiettivo di un’opera nel suo complesso (si pensi ad un edificio). La retribuzione era elargita al momento dell’approvazione da parte del committente della buona riuscita del lavoro e non della consegna dell’opera, salvo diverse disposizioni.
Gli istituti descritti sopra ci aiutano a capire quale fosse la regolamentazione del lavoro in epoca romana, attraverso le sue numerose declinazioni. Gran parte degli aspetti dei negozi furono ripresi all’epoca della codificazione napoleonica e, di riflesso, dalla maggior parte degli Stati Preunitari che coloravano la penisola italiana, a seguito della campagna italiana di Napoleone Bonaparte, diventando “antenati” del moderno e contemporaneo diritto del lavoro.
Manuel Micolucci
Fonti
- Francesco Maria De Robertis, “I rapporti di lavoro nel diritto romano” – Giuffrè editore , 1946
- Antonio Guarino, “Diritto Privato Romano” – Napoli Jovene Editore
L’autore
“Dopo aver conseguito la laurea triennale in Servizi Giuridici, sono attualmente studente di Politiche Pubbliche presso il corso di Laurea Magistrale di Scienze delle Amministrazioni della facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi di Teramo. Appassionato di storia sin da bambino, do voce alla mia curiosità ricercando l’influenza del passato nel mondo di oggi. Particolare attenzione delle mie osservazioni vanno alla storia Romana, in quanto la considero molto importante per comprendere il modo di vivere e di pensare di tutti i successivi secoli, fino ai giorni nostri.”