Parliamo oggi di una città romana che è per molti aspetti esemplare sia della grandezza dell’impero e della prosperità delle province, sia di come lo Stato dovrebbe valorizzare tale grandezza. Ma iniziamo dall’origine. Leptis sorge in Tripolitania, nella parte occidentale dell’attuale Libia, presso la foce sinistra di un fiume quasi sempre in secca, il Wadi Lebdah, da cui prende il nome. La costa di questa zona dell’Africa è insidiosa e di difficile approdo, e Leptis era uno dei pochi punti adatti. Perciò, già nel periodo precedente alla romanizzazione, vi si era sviluppato un fiorente porto, ma non una città vera e propria.
I monumenti più antichi risalgono al periodo augusteo, quando il centro si dota di tutta la serie degli edifici tipici di una città romana. In questo caso, non furono realizzati direttamente dall’imperatore, né dal governatore, ma furono donati alla comunità da parte di eminenti cittadini locali, di origini fenicie, i cosiddetti “evergeti” (benefattori). Era infatti opinione degli antichi Greci e Romani che chi aveva la fortuna di essere ricco, o esserlo diventato, dovesse spendere buona parte dei propri averi per il beneficio degli altri, meno favoriti dal fato. Evidentemente, nel fare ciò, speravano di acquistare popolarità. Con la romanizzazione, anche i capi locali adottarono quest’uso, anche con lo scopo di mostrare la propria fedeltà a Roma e all’imperatore e l’adozione di un modello culturale da loro stessi riconosciuto come superiore. Questi edifici e complessi, realizzati con manodopera, pietra e unità di misura locali, ma secondo forme tipicamente romane, sono un grande esempio di integrazione delle culture, di partecipazione a qualcosa di più grande e bello, reso possibile solo grazie allo stato di pax, sotto la protezione dell’impero, che lascia libertà, iniziativa, ma allo stesso tempo veglia su tutto.
Venne realizzato il mercato (N.15 nella cartina), un grande piazzale porticato con al centro due edifici coperti di pianta ottagonale, nei quali era eseguito dai magistrati il controllo dei pesi e delle misure; il teatro (18), decorato come sempre con statue della famiglia imperiale e dotato di una porticus post scaenam (17), ovvero un portico per passeggiare fra uno spettacolo e l’altro; a est del teatro, il Calchidicum (19), una piazza porticata sul lato della strada, il cui nome è noto da un’iscrizione, ma la cui funzione è poco chiara (forse un altro mercato).
Non poteva mancare anche il foro, centro della vita pubblica, a nord della città. È una piazza, di forma irregolare, con gli edifici principali che si fronteggiano: a sud la parte civile, con la basilica, sede del tribunale, e la curia del senato locale; a nord l’area sacra. Il tempio principale stava al centro ed era quello del culto imperiale, con ai lati i due templi degli dei protettori della città: Liber Pater, assimilabile a Bacco, ed Ercole.
Di fronte al tempio del culto imperiale, vi erano statue colossali di imperatori e membri della famiglia Giulio-Claudia. Non bisogna pensare a questo culto tanto come un culto religioso, quanto politico, espressione di lealismo verso Roma e verso il suo nuovo ordinamento istituzionale.
Anche con i successori vengono aggiunti edifici. In età neroniana viene costruito un anfiteatro (prima che a Roma), non visibile nella cartina. Come spesso accadeva per edifici di questo tipo, è esterno alla città, in modo da non creare problemi di traffico o di ordine pubblico col grande afflusso di gente; anche oggi, per lo stesso motivo, i grandi stadi sono di solito in posizioni periferiche e non in centro. Ma questo anfiteatro si distingue dagli altri per una particolarità: non è costruito sul solito sistema di arcate, ma scavato. Infatti in precedenza si era creata una cava per estrarre la pietra da costruzione della città. Oggi in genere queste cave restano abbandonate come degli ecomostri, ma allora si è pensato bene di regolarizzarne le forma e ricavarci le gradinate e l’arena: un altro inedito aspetto della grandezza romana! Sotto Marco Aurelio e Lucio Vero, poi, il quartiere degli spettacoli venne completato aggiungendo un circo, per le corse dei carri. Nel frattempo invece, nell’età di Adriano, la città era stata dotata di grandi terme con palestra (figg. 22-23 nella pianta).
Ma il vero periodo di splendore di Leptis Magna, che ne fa quasi una seconda Roma, è sotto Settimio Severo. Come si sa l’imperatore era originario proprio di questa città e non è un caso, visto che durante il II secolo d.C. l’Africa aveva assunto grande importanza economica e politica, e ancor più ne avrà nel III. Settimio Severo decise di assumersi personalmente, una volta imperatore, il compito di monumentalizzare la città: molti edifici in pietra locale vennero rifatti o rivestiti in marmo e verso est venne aggiunto, sempre in marmo, un intero nuovo quartiere monumentale. Venne anche realizzato un nuovo porto, allo sbocco del Wadi Lebdah, ma purtroppo fu quasi subito interrato dai detriti, senza, peraltro, che ciò frenasse le attività commerciali della città. Accanto alle terme di Adriano vi era una piazza con fontana monumentale (N.24). Questa piazza era collegata al porto da una via colonnata (N.26) di circa 400 m, simile a quelle di Palmira, Gerasa, Antiochia o altre città: una via rettilinea e lastricata, fiancheggiata sui due lati da portici sui quali si aprivano le botteghe. Queste vie erano il vero cuore delle città ed erano illuminate anche di notte. A fianco c’era il nuovo foro (N.14 sulla pianta generale e immagine in basso), una grande piazza circondata da portici e con un tempio su alto podio del culto imperiale. Sul lato nord-est del foro, poi, c’era un’altra basilica (N. 13) con due absidi sui lati brevi, a imitazione di quella di Traiano a Roma, ma non visibili dall’esterno, in quanto chiuse da muri, e che quindi dovevano produrre un effetto di sorpresa in chi entrava. Per questi tre monumenti furono usati marmi colorati, fatti venire da lontano senza badare a spese: il granito rosa di Asswan, dall’Alto Egitto, e il marmo cipollino, un marmo screziato verdino, proveniente dall’isola greca dell’Eubea. Per le decorazioni furono chiamati artisti greci e dell’Asia minore, mentre gli architetti dovevano essere siriani. Nei portici della via colonnata e del foro, poi, fu adottata una soluzione innovativa, destinata ad avere grande seguito: sopra le colonne, al posto di un architrave diritto, furono posti degli archi, un po’ come vediamo nei chiostri dei conventi medievali.
Ma sotto i Severi venne realizzato anche un arco all’ingresso della via principale della città vecchia (N.25). Si tratta di un tetrapilo, ovvero una struttura posta a un incrocio stradale e poggiante su 4 pilastri, con 4 archi rivolti verso le 4 strade. A piedi era possibile passarci sotto, mentre i carri, a causa della presenza di gradini, dovevano girare intorno. L’attico, vale a dire la parte superiore, era decorato con un rilievo per lato, ognuno con uno dei quattro membri della famiglia come protagonista: Settimio Severo, la moglie Giulia Domna e i figli Caracalla e Geta. Si è notato come venga data un’importanza inconsueta per una donna alla moglie dell’imperatore, prima imperatrice vera e propria. Si è anche notata l’introduzione di uno stile nuovo che, tramite una frontalità innaturale, tende a dare più rilievo alle figure imperiali e a conferire loro un aspetto ieratico e un’aura di sacralità; stile che sarà ripreso nell’arte sacra bizantina.
La città non ebbe continuità in epoca post-antica e fu ricoperta dalla sabbia, a volte con dune alte diversi metri. Lo scavo fu eseguito dagli Italiani durante il periodo coloniale, in particolare in epoca fascista. Fu un lavoro poderoso, di scavo e parziale ricostruzione, in cui fu impiegato anche l’esercito: si voleva ritrovare l’impero laddove lo si stava rifondando, o almeno dove si sosteneva di volerlo rifondare. In tutto furono stanziate circa un milione di lire, che oggi corrisponde a una cifra modestissima, ma allora, quando si cantava “se potessi avere mille lire al mese” era una cifra altissima, che oggi a stento costituirebbe l’intero budget del Ministero dei Beni Culturali, figuriamoci di un solo scavo. Certo, si sarà anche trattato di una missione di scavo dai biechi scopi propagandistici e oggi l’archeologia è diventata invece una scienza; ma come si può avere una conoscenza obiettiva, scientifica, delle opere del passato, se queste per mancanza di fondi restano sottoterra o sono soggette all’incuria? Da questo punto di vista, il confronto con allora è davvero impietoso!
Filippo Molteni
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