“La morte non è nulla, ma vivere sconfitti e privi di gloria é come morire ogni giorno.”
(Napoleone Bonaparte)
L’auto-incoronazione di Napoleone Bonaparte il 2 dicembre 1804 a Parigi, nella cattedrale di Notre-Dame, segnò la nascita del Primo Impero Francese, destinato invero a durare appena un decennio, fino all’abdicazione e ai Cento giorni, concludendosi con la sconfitta di Waterloo e l’esilio nella sperduta isola di Sant’Elena. Volendo fare un parallelismo, la brevità di questo Impero potrebbe essere equiparata a quella dei domini del macedone Alessandro Magno dopo la cui morte prematura i territori conquistati furono suddivisi tra i suoi luogotenenti, così sancendo la nascita dei regni ellenistici l’ultimo dei quali, l’Egitto, sarebbe caduto nel 31 a.C. per mano di Augusto.
Nel caso di Napoleone, il Congresso di Vienna del 1814-15, per volontà delle quattro nazioni vincitrici, ossia Gran Bretagna, Austria, Prussia e Russia, si propose di attuare in Europa una Restaurazione in piena regola, rimettendo sul trono le teste coronate spodestate negli anni precedenti e così riportando indietro le lancette della Storia a prima del 1789. D’altra parte, ciò si rivelò una mera illusione, come testimoniano i moti del 1820-21 e, ancor di più, la “primavera dei popoli” del 1848 la cui culla fu, neanche a dirlo, la Francia dove l’ultimo re, Luigi Filippo I di Borbone-Orléans, si vide costretto ad abdicare. Il vento della libertà spirava ormai troppo forte per poter essere fermato e può stupire che a favorirlo sia stata una Rivoluzione, quella francese, nata con l’esecuzione di due sovrani e conclusasi con l’insediamento sul trono di un imperatore quale fu Bonaparte. Inoltre, sorge spontanea una domanda: come poté un uomo portatore di un potere assoluto essere indirettamente, dopo la sua morte, l’ispiratore di riforme liberali e democratiche nel continente europeo?
A tale riguardo, va detto che l’Impero napoleonico seppe mescolare sapientemente tradizione e innovazione, evitando al contempo regressioni di tipo reazionario e, a tal proposito, il Concordato del 1801 con la Chiesa cattolica ne é un esempio perfetto. Nei burrascosi anni della Rivoluzione, specie durante il periodo giacobino, l’intera Francia era stata interessata da una violenta campagna di scristianizzazione e persino Robespierre ad un certo punto ritenne necessario porvi un freno, sostituendo al culto cristiano quello deista e razionalista dell’Essere Supremo, peraltro con esito fallimentare. Napoleone, che non era ancora imperatore ma console, stipulò il Concordato di cui sopra con Papa Pio VII per ristabilire rapporti pacifici con lo Stato pontificio, in tal guisa neutralizzando l’anticlericalismo più virulento.
Nei dipinti che raffigurano il Corso mentre indossa le sontuose vesti imperiali, non manca mai la raffigurazione di un oggetto molto particolare e denso di significato, un piccolo globo terrestre sul quale campeggia una croce. Il medesimo oggetto compare nei ritratti di Carlo Magno e in Italia il “colosso” di Barletta, che taluni identificano con l’imperatore romano d’Oriente Teodosio II, nella mano destra stringe una croce e tiene, invece, il globo terrestre sul palmo della sinistra. Si tratta di simboli molto eloquenti nei quali si materializzano da un lato la potestas imperiale fondata sull’investitura ultraterrena dell’unico Dio cristiano e, dall’altro, l’universalità di questo stesso potere. Codesta alleanza “fra il trono e l’altare”, fra potere temporale e spirituale, storicamente ebbe la sua massima espressione in Spagna, specie durante il regno di Filippo II d’Asburgo, figlio di Carlo V e fra gli artefici della mirabile vittoria della Lega Santa contro l’Impero ottomano nella battaglia navale di Lepanto del 7 ottobre 1571. Pertanto Napoleone, ben consapevole dell’importanza della religione come collante sociale e dell’influenza della Chiesa cattolica sulle coscienze individuali, nel solco della tradizione, ritenne politicamente opportuno venire a patti con le alte gerarchie ecclesiastiche.
Allo stesso tempo, in piena sintonia con lo spirito illuminista, non fu concesso spazio alcuno all’Inquisizione né furono reintrodotti quei “reati immaginari” che la Rivoluzione aveva spazzato via: dalla stregoneria alla sodomia, fino all’eresia e all’apostasia. La stessa auto-incoronazione di Bonaparte e l’obbligo dei vescovi di giurare fedeltà allo Stato, quindi a lui, erano sintomatici del fatto che il cristianesimo, pur riconosciuto e tutelato come religione della maggioranza dei francesi, sarebbe stato comunque assoggettato all’autorità civile e laica dello Stato stesso.
A tale riguardo, Napoleone riuscì ad affermare e a cristallizzare i principi rivoluzionari, promulgando il suo omonimo Codice civile, tutt’ora applicato in Francia, entrato in vigore il 21 marzo 1804 e, negli anni successivi, esportato dalle armate francesi nei territori via via conquistati. Di fatto, questo moderno corpus normativo rappresentò il primo vero esperimento di uniformare giuridicamente l’Europa continentale dai tempi del Codice Teodosiano del 439 e del Corpus Iuris Civilis giustinianeo del 534, quest’ultimo invero applicato nel solo Impero bizantino. Il diritto fu “laicizzato” ed espressione di ciò fu l’istituzione dell’anagrafe civile, nonché del divorzio, istituto di cui lo stesso Bonaparte avrebbe usufruito nel 1809 per divorziare dalla prima moglie Giuseppina di Beauharnais, ormai sterile, e sposare l’anno seguente Maria Luisa d’Asburgo-Lorena, figlia dell’imperatore d’Austria e nipote di Maria Antonietta, la stessa che i rivoluzionari avevano ghigliottinato insieme al marito Luigi XVI. Se nei paesi protestanti, a partire dal Cinquecento, in opposizione al monopolio culturale della Chiesa, le Sacre Scritture avevano cominciato ad essere tradotte e diffuse nella lingua nazionale – tedesco, inglese, ecc.. – parimenti, intenzione di Napoleone era di fare del suo Codice una sorta di “Bibbia” del perfetto cittadino, ragion per cui venne scritto in francese e con norme chiare il più possibile. Venne superato il “particolarismo” feudale dell’Antico Regime e con esso la distinzione tra diritto consuetudinario e diritto scritto, resa centrale la proprietà, trasferibile con immediatezza in virtù del solo consenso delle parti del contratto in ossequio al principio consensualistico e il solo soggetto di diritto ammesso, in un’ottica di eguaglianza formale, divenne per l’appunto il “cittadino”. Pertanto, il testo normativo in parola concretizzò le teorie illuministe sull’infallibilità del Legislatore della cui volontà generale i giudici dovevano essere meri esecutori, giammai interpreti, altrimenti l’avrebbero snaturata. In definitiva, fermo restando in ambito pubblicistico la mancanza di libertà come quelle di stampa e di associazione, l’introduzione di un diritto privato che liberalizzava la circolazione della proprietà, specie immobiliare, abolendo feudi e privilegi, rappresentava la più grave minaccia per quei re e imperatori che nei rispettivi domini europei ancora praticavano la servitù della gleba e lo sfruttamento dei contadini o, più in generale, di tutti coloro che non fossero aristocratici né ecclesiastici. Ovunque arrivassero le truppe francesi, l’Inquisizione e il feudalesimo venivano falciati d’un colpo e il Codice napoleonico rigorosamente applicato nel rispetto del Verbo rivoluzionario che coniugava Uguaglianza e Fratellanza.
Quanto alla Libertà, come accennato, non vi é dubbio che questa fu drasticamente ridimensionata: Napoleone non esitò ad adoperare il pugno di ferro per reprimere i moti resistenziali in Spagna e in Germania, come pure si avvalse del temuto capo della Polizia politica Joseph Fouché per neutralizzare ogni opposizione interna. Ancora una volta, il nostro protagonista fece le sue mosse a cavallo fra tradizione e innovazione: da una parte incarnò ed esercitò un potere assoluto com’era prerogativa dei sovrani e, dall’altra, con le sue riforme legislative favorì una sorprendente mobilità sociale di cui é emblema certamente la vicenda personale di Gioacchino Murat, nato figlio di locandiere, poi divenuto Maresciallo di Napoleone ed infine, per volontà di quest’ultimo, Re di Napoli.
Oltre che legislatore e imperatore, Bonaparte fu anche e soprattutto un soldato che seppe dare prova delle sue abilità strategiche già con la campagna d’Italia del 1796 nel cui ambito, tra le altre cose, accaddero due episodi rivelatisi determinanti per la futura unità nazionale della penisola: la stipula del Trattato di Campoformio che segnò la fine della Repubblica di Venezia o “Serenissima” e l’utilizzo per la prima volta del tricolore nelle Repubbliche cispadana e cisalpina al fine di distinguere il contingente italiano all’interno dell’esercito napoleonico. L’anno seguente, per la precisione il 7 gennaio 1797, a Reggio Emilia il tricolore fu adottato ufficialmente come bandiera della Repubblica cispadana: un vessillo quasi identico a quello francese, con la sola differenza che il blu venne sostituito col verde, colore delle uniformi della Guardia civica milanese.
Come Giulio Cesare aveva cementato la sua fortuna politica e guadagnato la fiducia dei suoi uomini, guidandoli nella conquista della Gallia e condividendone le difficoltà quotidiane, allo stesso modo, 1800 anni dopo, Napoleone in veste di generale costruì sul campo la sua immagine di condottiero e guida carismatica, dando vita al c.d. bonapartismo, nel quale taluni, addirittura, ravvisano le origini dei totalitarismi del Novecento: ovverosia un rapporto immediato, diretto e plebiscitario tra le masse e il capo.
A partire dal 1805 e fino al 1815 Bonaparte avrebbe fatto spostare intere masse di uomini da un capo all’altro dell’Europa, dalla Spagna fino alla Russia, ragion per cui si potrebbe affermare che il suo fu un Impero in costante movimento e ben saldo sui piedi dei soldati della Grande Armée, galvanizzati dalle gesta del loro imperatore. L’organizzazione di questo imponente esercito, che raggiunse nella tragica campagna di Russia la sua massima ampiezza di oltre mezzo milione di uomini, fu il diretto risultato della coscrizione obbligatoria e del fatto che la Francia fosse all’epoca il paese più popoloso d’Europa. Dai tempi della riforma militare di Gaio Mario, per la prima volta nel continente europeo apparve un’armata costituita non più da mercenari, ma da veri professionisti della guerra.
Napoleone teneva al buon nome delle sue truppe, quindi si assicurò che gli uomini fossero pagati in modo da poter acquistare nei territori attraversati il cibo di cui necessitavano, così evitando il saccheggio, espressamente proibito. Inoltre, pur quando saccheggiare si fosse reso assolutamente necessario per sopravvivere, l’imperatore poteva disporre l’esecuzione immediata di chi avesse superato il limite nell’uso della forza.
Come riportato in numerosi diari, Napoleone, quando poteva, percorreva tratti di strada in compagnia dei soldati in marcia e non restava certo indifferente alla vista dei feriti, anzi mostrava sempre enorme empatia, quando faceva loro visita negli ospedali da campo. Alla luce di tali considerazioni, é pacifico che i soldati francesi fossero motivati a combattere molto più dei loro omologhi russi o austriaci.
Un ulteriore tassello del mosaico é il sistematico riferimento ai simboli e alle istituzioni dell’Impero romano, a cominciare dall’aquila che dopo la presa turca di Costantinopoli del 1453 invero era stata adottata come vessillo dallo zar russo Ivan Il Terribile, facendo di Mosca la “terza Roma”.
Quello di Bonaparte fu un inarrestabile e irresistibile cammino verso il potere, passando per le vittorie militari nel Nord-Italia e in Egitto e il colpo di Stato del 18 brumaio (9 novembre 1799) che lo fece diventare console, ossia primo magistrato della Repubblica. Nel 1802, in virtù di un provvedimento del Senato francese, la carica di console divenne vitalizia e due anni più tardi il cursus honorum ebbe termine con la nascita dell’Impero di cui Bonaparte era titolare e con il quale egli stesso si identificava fisicamente e spiritualmente, utilizzando come simboli, oltre l’aquila romana, l’alloro e la “N” di Napoleone.
Forse fu proprio questo il principale errore commesso da Bonaparte: aver edificato in tempi rapidissimi un vasto Impero le cui fondamenta erano troppo fragili giacché intimamente legate alla sua persona. Egli non seppe cooptare adeguatamente le élite delle Nazioni sottomesse o vassalle, tanto che non fece di meglio che mettere i suoi numerosi fratelli e sorelle sui troni di mezza Europa.
Con la dovuta prudenza, non può non farsi un raffronto fra ciò che accadde nella seconda guerra punica dopo la battaglia di Canne e quanto avvenne dopo la sconfitta francese in Russia nel 1812. Nel primo caso, Annibale che aveva mietuto una vittoria dopo l’altra avrebbe potuto agevolmente onorare la promessa fatta al padre e agli dei quand’era bambino, vale a dire annientare Roma una volta per tutte, sennonché diversi fattori sfavorevoli glielo impedirono. In primis, a causa delle gravi perdite nelle varie battaglie che si erano susseguite mancavano gli uomini e i mezzi necessari a sostenere l’assedio dell’Urbe, salvo che fossero giunti rifornimenti da Cartagine dove però ci fu un fatale temporeggiamento, anche per via dell’apprensione suscitata dal grande potere che Annibale aveva nel frattempo acquisito. In secundis, cosa ancora più importante, le colonie e le tribù italiche rimasero fedeli a Roma che, a dispetto dell’anarchia portata dal generale cartaginese, offriva garanzia di stabilità e sicurezza. Se tali colonie e tribù avessero tradito la Repubblica, molto probabilmente oggi racconteremmo una storia diversa.
Nel caso di Napoleone, invece, diffusasi la notizia dell’annientamento in Russia della Grande Armata, decimata dal freddo e dalla penuria di cibo, nei territori dell’Impero esplose l’insurrezione e la Sesta Coalizione inflisse ai francesi un colpo mortale nella battaglia di Lipsia del 1813, meglio nota come “battaglia delle Nazioni”. Il resto della storia é noto: l’abdicazione, l’esilio sull’Isola d’Elba, la fuga, i Cento giorni, Waterloo e infine Sant’Elena.
D’altro canto, un fatto che merita di essere sottolineato riguarda il clima di giubilo e di euforia che travolse Napoleone il quale, fuggito dall’Elba, sbarcò nel Sud della Francia e da lì risalì trionfalmente verso Parigi, acclamato al suo passaggio e con le truppe mandate a fermarlo che puntualmente disertavano per unirsi a lui, ivi incluso quello che era stato uno dei suoi Marescialli più fedeli, Michel Ney. Questi, in procinto di lasciare Parigi su ordine di Re Luigi XVIII per andare incontro al suo ex imperatore ed arrestarlo, pronunciò una frase rimasta celebre : “Riporterò qui quel forsennato dentro una gabbia di ferro”: in effetti lo riportò a Parigi, ma di nuovo al suo fianco come Maresciallo dell’Impero.
Il 5 maggio 2021 ricorrerà l’anniversario dei duecento anni dalla morte di Napoleone Bonaparte per commemorare la quale, all’epoca, Alessandro Manzoni compose la celeberrima ode “Il cinque maggio“.
Cosa resta oggi dell’eredità di Napoleone?
Si possono citare il suo Codice civile, le straordinarie battaglie campali vinte, la rivoluzione del modo stesso di fare la guerra e di condurre la politica, ma soprattutto, ancora oggi, sopravvive il mito dell’uomo che, artefice del suo stesso destino e alla guida di centinaia di migliaia di altri uomini, muove il pendolo della Storia da una parte all’altra, influenzando il destino dell’Europa e del mondo intero.
Dr. Jacopo Bracciale
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