Fin da quando Romolo pose le fondamenta dell’Urbe, mai un uomo romano si adoperò per emanare una legge che vietasse l’esercizio delle attività maschili alle donne. Il mos maiorum, in quanto tacito accordo sociale, permise di interiorizzare la divisione dei ruoli sessuali. Era convinzione comune che la donna avesse alcuni implacabili difetti: un’incontenibile curiosità; l’incapacità di mantenere un segreto; il continuo interesse ad intromettersi negli affari maschili. Era indispensabile che essa si limitasse al suo ruolo di tutrice del focolare domestico, obbedendo ciecamente al volere del marito, altrimenti, come profetizzato da Catone l’Uticense, “non appena [le donne] avranno la parità, saranno superiori”[1].
Tuttavia, coloro le quali raggiunsero un’indipendenza economica, si fecero strada anche nel mondo maschile, specialmente in campo giuridico.
“Neppure bisogna tacere riguardo a quelle donne che né il sesso né il ritegno dell’abito femminile valsero affinché tacessero nel Foro e nei tribunali.”[2]
Così recita l’incipit del sintetico racconto fornitoci da Valerio Massimo. Un breve elenco. Tre nomi. Mesia Sentinate, Afrania e Ortensia.
Nel I secolo a.C., l’ordo matronarum aveva raggiunto un’importante influenza economica: le donne, avendo accesso a eredità, riuscirono a riunire nelle loro mani cospicui patrimoni. Ciò non è sinonimo di emancipazione femminile, la quale era ideologicamente lontana dalla mentalità dell’epoca.
Nel 42 a.C., i triumviri Ottaviano, Antonio e Lepido, impegnati nella guerra contro i cesaricidi, decisero di sfruttare i suddetti patrimoni, imponendo a millequattrocento matrone il pagamento di una tassa volta a contribuire alle spese militari. Reputando il tributo ingiusto, le donne si riunirono, cercando qualcuno che fosse disposto a difenderle in giudizio. Nessun uomo rispose alla loro richiesta. Fu in quel disperato momento che si fece avanti Ortensia.
Figlia di Quinto Ortensio Ortalo, oratore rivale di Cicerone, e della prima moglie Lutatia, Ortensia nacque attorno all’80 a.C. Avviata ad un’educazione letteraria, seguì le orme del padre, dedicandosi all’arte oratoria. Fu proprio al cospetto dei triumviri che Ortensia pronunciò la sua oratio pro mulieribus, capolavoro della sua carriera. Ella entrò direttamente nell’agone politico, pronunciando un discorso senza precedenti. Le sue parole riecheggiano attraverso i secoli nel racconto di Appiano, rendendoci eruditi di quell’ars tanto nobile quanto elitaria. Ortensia rammentò come le recenti guerre avessero privato le donne romane di padri, figli, mariti. Le lasciarono sprovviste della tutela maschile, mercè degli eventi, senza nessun uomo in grado di difenderle davanti alla legge. Privarle anche dei loro beni, avrebbe tolto loro l’indipendenza economica. “Perché mai le donne dovrebbero pagare le tasse, essendo esse escluse dalla magistratura, dal comando e dalla res publica?”[3]
Le stringenti argomentazioni unite all’elegante oratoria di Ortensia, costrinsero i triumviri a tassare solamente quattrocento donne, le più ricche. Per sopperire alla mancanza di denaro, venne approvata una tassazione supplementare per gli uomini dichiaranti un patrimonio cospicuo.
I romani assistettero ad un fatto inaudito: una femina aveva personalmente preso parola nel Foro, in difesa di altre donne, ottenendo il risultato sperato.
“[…] Parve allora rivivere nella figlia Quinto Ortensio ed ispirarne le parole: del quale se i posteri di sesso maschile avessero voluto imitarne l’efficacia, la grande eredità dell’eloquenza di Quinto Ortensio non sarebbe finita con la sola orazione di una donna.”[4]
Quinto Ortensio Ortalo aveva parlato attraverso la figlia. L’arringa, orgoglio dell’oratrice, poteva trarle meriti solo ammettendo che lei, burattino in teatro, non l’aveva pronunciata. Suo padre ne era l’artefice. Quale peccato, quale offesa sarebbe stata se l’eredità di un grande oratore fosse finita nelle mani di una donna.
Oltre un secolo più tardi, Quintiliano commemorò Ortensia, dedicandole parole che avrebbe dovuto ricevere molto tempo prima.
“Quanto poi ai genitori, desidererei che in loro ci fosse quanta più cultura possibile. E non parlo soltanto dei padri: sappiamo infatti che all’eloquenza dei Gracchi contribuì molto la madre Cornelia, della quale il linguaggio pieno di erudizione è stato tramandato anche ai posteri nelle lettere; e si dice che la figlia di Lelio rendesse nella parola l’eleganza paterna, e l’orazione della figlia di Q. Ortensio, presso i triumviri, è letta non solo per fare onore al suo sesso.”[5]
Ortensia vinse. Ortensia superò in eloquenza tutti i suoi rivali. Ortensia dimostrò ad ogni uomo romano quanta verità ci fosse nell’affermazione di Catone. “Non appena [le donne] avranno la parità, saranno superiori”[6].
Sabina Petroni
Bibliografia
Eva Cantarella, Passato Prossimo: donne romane da Tacita a Sulpicia, Milano 1998.
Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri IX, VIII, 3,3.
Appiano di Alessandria, Bellum Civile, IV, 32-34.
Quintiliano, Institutio Oratoria, I, 1, 6.
[1] Livio, Ab Urbe Condita, XXXIV, 3, 2.
[2] Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri IX, VIII, 3, 3.
[3] Appiano, Bellum Civile, IV, 32-33.
[4] Valerio Massimo, Factorum et dictorum memorabilium libri IX, VIII, 3, 3.
[5] Quintiliano, Institutio Oratoria, I, 1, 6.
[6] Livio, Ab Urbe Condita, XXXIV, 3, 2.