Spesso si è detto che l’archeologia, assieme ai beni culturali in generale, è il petrolio dell’Italia. Per quanto l’importanza di conoscere il proprio passato vada ben oltre il semplice sfruttamento economico, certamente c’è del vero in questa abusata affermazione. Il problema è che, come tutti sanno, il petrolio non sgorga naturalmente dalla terra pronto all’uso, ma dev’essere estratto e poi raffinato nei vari carburanti: insomma per dare un profitto richiede ingenti investimenti.
Ormai da decenni gli organi territoriali del Ministero, ovvero le Soprintendenze, sono a corto di fondi e, riuscendo a stento a gestire l’ordinaria amministrazione, non sono più in grado di programmare attività di ricerca come in passato, in particolare gli scavi. Le principali occasioni di scoperte archeologiche provengono dunque dall’archeologia preventiva e di emergenza. Vediamo brevemente di cosa si tratta.
Ogni volta che un committente intende realizzare strutture, infrastrutture o sottoservizi che richiedano degli scavi, la Soprintendenza, in base a valutazioni sul potenziale archeologico dell’area, può negare il permesso (molto raramente), accordarlo, oppure mettere certe condizioni, come il fatto che un archeologo segua le operazioni (la cosiddetta assistenza archeologica) ed eventuali sondaggi preliminari. Il committente appalta questo servizio a una ditta archeologica e si fa carico delle spese, nonché dei costi di eventuali scavi di emergenza nel caso si trovasse qualcosa, mentre la Soprintendenza, senza pagare nulla, ha il controllo scientifico.
Sia chiaro, l’archeologia preventiva e di emergenza non sono un semplice ripiego, ma sono fondamentali per tutelare il nostro patrimonio senza per questo impedire opere necessarie al progresso (forse non sempre davvero necessarie, ma questo è un altro discorso…). Vi sono però alcuni problemi. Innanzitutto è evidente una sorta di conflitto di interessi tra la Soprintendenza che, giustamente, pretende alti standard qualitativi e il committente, che paga e vuole soprattutto che si faccia in fretta (o addirittura che si chiuda un occhio su quello che emerge!). A chi bisogna rispondere? Inoltre le scoperte che emergono in questa maniera sono del tutto fortuite, dipendendo da dove si vuol costruire e non piuttosto dall’intento di conoscere meglio un territorio, un periodo o una specifica questione storica. Altra problematica sono le pessime condizioni lavorative che il sistema genera. Il committente, costretto a pagare ma generalmente poco interessato all’archeologia, cerca naturalmente di spendere il meno possibile e di scegliere una ditta o cooperativa archeologica con un appalto al ribasso. Questa – tranne alcune eccezioni – a sua volta pagherà poco l’archeologo incaricato che, peraltro, in genere non è un dipendente ma una piccola partita iva (molto meno costosa a livello di tasse): in pratica un “imprenditore di sé stesso”, senza i diritti di un dipendente (ferie, malattia ecc.) e senza neanche le possibilità di profitto di un vero imprenditore. Non sono infrequenti contratti da 10 € l’ora lordi (una colf, senza nulla togliere, prende la stessa cifra, ma netta); ma si sentono addirittura storie di 4 € l’ora, col ricatto “o così o stai a casa”! Perché mi dilungo su questi aspetti apparentemente sindacali e poco archeologici? Perché è chiaro che un paese non può eccellere in un settore se non riesce a garantire buone prospettive a chi decide di dedicarvisi, investendo tempo e denaro negli studi. Se si provasse a pagare così poco i medici, le facoltà di medicina andrebbero deserte e in breve torneremmo a una speranza di vita pre-industriale…
Occorre quindi riprendere le redini della ricerca e investirvi. Ad oggi gli scavi di ricerca sono svolti quasi esclusivamente dalle Università e riescono a sostenersi con magre risorse solo perché la maggior parte della manodopera, costituita da studenti, è gratuita. Si tratta di scavi generalmente di ottima qualità, sia chiaro, ma non basta affidare la ricerca ad essi. In primis durano per un periodo limitato dell’anno, poche settimane in genere estive, in quanto il resto del tempo degli studenti è occupato dagli esami. In secundis, se dopo lo studio le prospettive professionali non sono buone, alla fine scarseggeranno perfino gli studenti, che preferiranno altri percorsi o altri paesi. Molti corsi sono già scarsamente frequentati e, quando andranno in pensione i titolari delle cattedre, non converrà più sostituirli.
Va poi detto che parte degli scavi di ricerca è anche svolta tramite volontari. Senza voler demonizzare tali scavi, cui io stesso ho partecipato in passato e che mi hanno fatto scegliere l’archeologia, l’abuso dei volontari è una vera piaga dei beni culturali italiani, poiché da una parte si tratta spesso di persone senza una formazione adeguata – e la qualità del lavoro ne risente – dall’altra la loro concorrenza spinge ulteriormente al ribasso i compensi dei professionisti. Il problema nasce quando i volontari non sono più complementari ma sostitutivi. Ma l’abuso del volontariato non riguarda tanto o solo gli scavi, quanto soprattutto i musei. Il ministro Franceschini ha molto esaltato come modello realtà quali il FAI, che proprio sul volontariato si basano. La verità è che, per tralasciare i problemi già ricordati per i professionisti, non si offre nemmeno un buon servizio al pubblico. Viene presentata come meritoria l’apertura ai visitatori poche volte all’anno di siti che, assumendo lavoratori, potrebbero e dovrebbero essere aperti sempre. La situazione non è comunque migliore nei musei e siti gestiti dallo Stato, dove c’è sì personale retribuito, ma in quantità insufficiente, col risultato che molti non riescono a garantire l’apertura, come noi stessi abbiamo spesso verificato e denunciato.
Lo Stato dunque deve investire per rilanciare la ricerca e la fruizione da parte del pubblico. Quanto a siti, musei e monumenti, sottrarli certamente a privati che ricorrano ai volontari, per gestirli direttamente (come sarebbe preferibile) o almeno per affidarli a privati che garantiscano un buon servizio e creino lavoro. Riguardo invece agli scavi, sarebbe da auspicare la creazione di un servizio archeologico nazionale che, come in Francia e altri paesi, impieghi direttamente operatori archeologi e conduca direttamente gli scavi, invece di limitarsi al controllo di terzi, applicando elevati standard qualitativi ed equi compensi. Ciò non significa eliminare le ditte private, ma certamente si risolverebbero molti problemi ricordati sopra, in quanto nessuno più sarebbe disposto a lavorare male e per poco, avendo un’alternativa migliore, e il mercato si auto-regolerebbe.
Fare scavi e tenere aperti i siti e musei però non basta: occorre che i risultati delle ricerche siano chiari al pubblico e facilmente fruibili. Oltre alle più tradizionali attività divulgative, a nostro avviso occorre ragionare su delle caute e accurate ricostruzioni di monumenti. La nostra tradizione italiana, rappresentata dall’ottimo ICR voluto dal ministro Gentile e fondato da Cesare Brandi, è sempre stata, a differenza di altri paesi, molto restia alla ricostruzione e più orientata alla conservazione dell’esistente (che è già molto!). Però ormai l’archeologia non è più solo per i pochi in grado di capire tutto vedendo solo dei resti, ma dev’essere il più possibile pubblica. Per questo occorre aprire a delle ricostruzioni, per quei monumenti di cui si conosca abbastanza da non lasciare spazio all’invenzione fantasiosa (niente effetti disneyani per capirci); o almeno a delle anastilosi, che si distinguono per il fatto di utilizzare solo parti originali crollate, rimettendole in piedi con aggiunte minime di materiale moderno che garantisca la tenuta, ma senza integrare le parti mancanti che non abbiano una funzione portante. Prima ancora di pensare in grande con le ricostruzioni, occorrerebbe almeno fare in modo che, quando possibile, gli scavi vengano resi visitabili dal pubblico, mentre quasi sempre non si è in grado di metterli in sicurezza e al termine delle indagini si preferisce coprirli nuovamente di terra, in attesa di tempi migliori. Per mia esperienza, uno dei motivi per cui la gente considera l’archeologia uno spreco di tempo e denaro (soprattutto se blocca i cantieri) è che alla fine non resta niente di tangibile per la comunità, a parte la documentazione gelosamente custodita dalle Soprintendenze e comunque incomprensibile ai più.
Altro fronte su cui agire è quello della formazione dei professionisti. L’università italiana ha un livello eccellente per quanto riguarda gli aspetti più classici della disciplina: la storia, la storia dell’arte, la letteratura, la filologia e in generale tutta la cultura umanistica che dà profondità alle interpretazioni dell’archeologo. Queste cose ce le invidiano tutti. Manca però l’aspetto più tecnico e quelli che escono dalle università sono bravissimi a studiare ma non a lavorare… spesso nemmeno sanno esattamente cosa ci si attende che facciano, ad esempio mai nel mio percorso sono state spese parole dai docenti sull’assistenza archeologica, ammesso che ne fossero a conoscenza! Oltretutto, il Ministero stesso ha introdotto finalmente dei requisiti per poter svolgere la professione, per evitare che chiunque potesse improvvisarsi (DM 244/2019). Tali requisiti prevedono la collocazione dei professionisti in 3 fasce, con responsabilità crescenti: nella terza laureati triennali, nella seconda magistrali e nella prima chi ha titoli post-laurea (specializzazione, master o dottorato). Oltre al titolo, servono 12 mesi di esperienza pratica, ed è questo l’aspetto importante ma anche problematico. È chiaro che, almeno per la fascia più bassa, tale esperienza dev’essere interamente acquisita durante gli studi, altrimenti non si può nemmeno lavorare per raggiungerla; ed è altrettanto chiaro che l’Università non è minimamente in grado di fornire 12 mesi di esperienza in 3 anni (ma in genere neanche in tutto il ciclo di studi)! Occorrerebbe che i due ministeri si parlassero, assieme anche alle associazioni professionali, riformando profondamente i programmi universitari. Un modo per raggiungere tale esperienza, sarebbe coinvolgere nell’organizzazione di tirocini anche i privati, ditte e cooperative archeologiche, anche in modo da rendere l’esperienza più mirata al mercato del lavoro e non solo alla ricerca “pura” dell’università. Sono del resto gli stessi datori di lavoro a lamentarsi spesso della formazione insufficiente dei neolaureati. Naturalmente, per evitare che le aziende sfruttino la manodopera gratuita o poco costosa dei tirocinanti, lasciando a casa i lavoratori, occorrono precisi paletti. Eccone alcuni:
- Limite numerico nel rapporto, all’interno di uno scavo, fra tirocinanti e archeologi professionisti (ad esempio 1 tirocinante ogni 5 professionisti);
- Tirocini non a tempo pieno, ma part-time: in tal modo non solo il tirocinante avrebbe il tempo di dedicarsi alle restanti attività (lezioni, tesi ecc.), ma sarebbe evidente come il ruolo dei tirocinanti sia solo di affiancamento e in nessun modo le ditte potrebbero sostituirli ai lavoratori;
- Impiego dei tirocinanti non per ruoli che possano già svolgere come lavoratori, ma solo per quelli che non possono ancora svolgere prima di conseguire il titolo, in affiancamento a chi sia già qualificato. E così i triennalisti (in Beni Culturali o Lettere) potrebbero fare pratica negli scavi archeologici in mansioni più semplici; gli studenti magistrali sempre negli scavi, in operazioni di maggior responsabilità, e/o affiancando un professionista nelle assistenze archeologiche durante i lavori urbanistici; infine gli specializzandi potrebbero affiancare professionisti già specializzati o con dottorato per imparare come dirigere uno scavo o come redigere una VIARCH, cioè la valutazione preventiva dell’impatto archeologico per le opere pubbliche.
In conclusione, investire nell’archeologia produrrebbe un ritorno per lo Stato, tramite il turismo – anche in aree interne e meno gettonate – ma anche tramite più lavoro di qualità, quindi più consumi e alla fine più tasse incassate. Il problema del trovare risorse dunque non c’è, perché si tratta di un investimento, non di spesa improduttiva. Ma più ancora dei vantaggi economici, l’archeologia, con la materialità delle sue scoperte, può aiutare a costruire in Italia qualcosa di più: un senso di identità, di comunità e, perché no, anche un po’ di orgoglio per le fasi più luminose del nostro passato e la volontà di non essere da meno!
Filippo Molteni (archeologo specializzato)