Romolo contra Zelensky

Romolo contra Zelensky

Именно контроль над историей, а не ее знание дает власть. È il controllo della storia, non la sua conoscenza, che conferisce potere.

 

La guerra, da sempre, scandisce la vita degli uomini. A ben vedere, scandisce in primo luogo il tempo, e, quindi, la vita degli uomini. Il metron del tempo per eccellenza, il calendario, ce lo ricorda nascostamente. Secondo un’antica tradizione, sarebbe stato Romolo, il conditor Urbis, il fondatore di Roma, a disporre la sistematizzazione originaria del calendario romano. Prima che il suo successore Numa Pompilio vi aggiungesse i mesi di gennaio e febbraio, dunque, l’anno romano aveva inizio con marzo, mese sacro a Marte, Dio della guerra e dell’agricoltura. Dicembre è quindi il decimo mese a partire da marzo, secondo la calendarizzazione romulea. Al sopraggiungere della primavera, pertanto, le attività di raccolta del grano e pianificazione delle campagne militari coincidevano simbioticamente. L’economia come nervo della guerra, e viceversa.

Per il popolo ucraino, nella miglior tradizione romana, il 2023 ha avuto inizio a cavallo tra febbraio e marzo, quando si sono verificati due fatti, l’uno destinatario di eccezionale attenzione mediatica, l’altro passato in sordina, ancorché meritevolissimo di considerazione. Trattasi, innanzitutto, del primo anniversario del lancio dell’operazione speciale da parte del Cremlino. Dunque, con riferimento al 24 febbraio 2023, anche del primo anniversario dell’inizio della resistenza ucraina: mito fondativo del nuovo evo post post-sovietico. Pare che Napoleone Buonaparte usasse dire, sarcasticamente, che Dio prende le parti di chi si avvale dell’artiglieria migliore. Nel caso di Kiev, la forza dell’identità nazionale ucraina e, in ispecie, lo spiccato sentimento antirusso che ora abita la maggioranza del paese, hanno avuto importanza uguale al denaro e alle armi dello sponsor euroamericano. Il vescovo e filosofo angloirlandese George Berkeley – una delle massime autorità dell’empirismo del XVIII secolo, insieme a David Hume e John Locke – scriveva che esse est percipi. Accettare l’identità di essere e percezione, nel nostro caso, significa invitare la sovrapposizione della realtà sensibile, governata da dati misurabili, torniti e cesellati, con la più sfumata dimensione onirica, dominata dall’immaginazione. La massima dell’angloirlandese esprime molto bene le dinamiche sottese alla genesi delle identità nazionali, ivi inclusa quella ucraina.

Questa considerazione ci conduce al secondo fatto. Il 10 marzo 2023, il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky si è rivolto alla comunità internazionale avanzando la richiesta di mutare il nome della Russia in “Moscovia” e della Federazione Russa in “Federazione Moscovita”[1]. Di primo acchito, una semplice provocazione. Come tale raccolta dall’ex presidente e primo ministro russo Dmitry Medvedev, il quale, dopo aver definito Zelensky “il supremo nazista di Kiev”, ha proposto di cambiare invece il nome dell’Ucraina. “Non Hochlandia (dispregiativo che può essere tradotto come terra inferiore) e nemmeno Piccola Russia”, ha detto Medvedev, “solo sporco Reich di Bandera”[2], alludendo a Stepan Bandera, leader ucraino celebrato come eroe nazionale a Kiev e che, in funzione antisovietica, fu assiduo collaborazionista della Germania hitleriana.

La richiesta-provocazione di Volodymyr Zelensky è un rebus mediatico soltanto al di fuori dello spazio post-sovietico. Volodymyr Zelensky non chiede solamente di rinominare “Moscovia” la Russia, quanto, piuttosto, di privarla del nome, e, cosa assai più rilevante, del titolo e attributo di Russia. Titolo e attributo che dall’epoca dell’Impero zarista valgono a Mosca la rappresentazione di tutti i popoli russici, le genti slavo-scandinave che, al tempo della Rus di Kiev, abitavano le odierne regioni di Bielorussia, Ucraina e Russia occidentale. Rinominando “Moscovia” la Russia e “Federazione Moscovita” la Federazione Russa, Volodymyr Zelensky spoglia il Cremlino dei suoi attributi imperiali, priva lo Stato russo della funzione pedagogica in seno alla comunità slavo-ortodossa, e, in ultimo, declassa Mosca da Civilitas, Civiltà, a Civitas, la più modesta città.

Modificando il percipi, il nome, titolo e attributo imperiale con cui la Federazione è conosciuta, Volodymyr Zelensky intende modificarne anche l’esse, vale a dire la sua identità più profonda, ecumenica e universale. Non bisogna stupirsi. Nel gioco di specchi che è lo scacchiere internazionale, uno Stato è, anche e soprattutto, ciò che gli altri Stati pensano di esso. Così facendo, Volodymyr Zelensky introduce un’ulteriore dimensione nel conflitto con Mosca: quella culturale. Sul cadavere putrefatto dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, Volodymyr Zelensky e lo Stato nazione Ucraina contendono a Vladimir Putin e al suo quasi-impero l’eredità morale, spirituale e politica della Rus di Kiev. Non si tratta di un fenomeno nuovo. Nel XVIII secolo, gli storici illuministi dell’Europa occidentale presero a chiamare Impero Bizantino quello che fu sempre, solo, e solamente, Impero Romano (d’Oriente). Un simile trattamento fu riservato alla sua capitale, Costantinopoli, spesse volte menzionata come Bisanzio, dal nome della città greca su cui fu edificata la Regina delle Città dall’eroe eponimo e Imperatore romano Costantino il Grande. Unico obiettivo: l’arbitraria separazione della Nova Roma da quella originaria, occidentale, latina, e, soprattutto, più spiccatamente europea. A tre secoli di distanza dalla coniazione del termine “bizantino”, la stragrande maggioranza di chi vive in Occidente non sa, o non crede, generalmente, che dopo l’annus horribilis del 476 d.C. lo Stato romano sia sopravvissuto, menchemeno fiorito, per altri mille anni nella metà orientale del Mar Mediterraneo. Esse contra percipi.

Assai più grave delle conseguenze economiche del conflitto in corso sarebbe per Mosca un decadimento sul piano civilizzazionale e un, assai ipotetico, ritorno della capitale dei popoli russici a sud, in ispecie a Kiev: là dove, nel tratto di Bassopiano sarmatico accarezzato dalla divinità-fiume Dnipro, nacque, crebbe, e fu educata al cristianesimo la civiltà russa. Là dove i Rus’ si fecero grande potenza, sottomettendo le terre delle odierne Russia occidentale, Ucraina e Bielorussia. Là dove, come Roma in Europa occidentale, anche Kiev, dopo la caduta del suo impero, ha continuato a vantare un primato di natura spirituale. Là dove, da secoli, gli ucraini, i piccoli russi, contendono ai loro ingombranti vicini di casa, i grandi russi, il ruolo pedagogico in seno alla collettività slavo-ortodossa. Di questo ruolo e di questo primato Volodymyr Zelensky vuole riappropriarsi. In Ucraina, pertanto, è in atto anche una guerra di identità che, se perduta, costerebbe a Mosca l’egemonia spirituale sulla porzione russica dello spazio post-sovietico. L’espansione territoriale dello Stato russo, quand’anche avesse successo, rischierebbe di essere accompagnata da una contrazione culturale e civilizzazionale. Contrazione che altri attori ostili alla Russia, in ispecie in Europa orientale, non vorrebbero che accelerare. Gli equilibri di potenza sono relativi, persino nel campo dell’immaginazione.

Nihil novum sub sole. Si dovesse identificare una traiettoria permanente della storia dello Stato russico, dal Principato di Kiev alla Federazione Russa, essa sarebbe la sua ciclica espansione e contrazione geografica, ideale e spirituale. A ben vedere, nel segno di un’antinomica unità degli opposti, cicliche espansioni e contrazioni hanno rappresentato il dato fondamentale nella fenomenologia della Russia e dei suoi molti Stati. Perché si possano apprezzare talaltri aspetti di quanto esaminato, quindi, la questione fin qui considerata deve essere ricondotta nell’alveo dell’analisi propriamente geopolitica. Deve pertanto essere restituita alla disciplina che si occupa dell’impatto della dimensione geografico-spaziale, e di altri elementi “sistemici”, sul corso degli eventi politici, quindi storici. Quanto segue è il prodotto di una ri-sistemazione e una ri-periodizzazione del corso storico dello Stato russo – qui non inteso come soggetto politico, bensì come fenomeno e organismo geografico – dal Principato di Kiev ai nostri giorni.

Contestualmente a questa periodizzazione, la storia delle Russie viene scomposta in cinque cicli geopolitici, ciascuno dei quali – tranne l’ultimo, che si considera in corso – è costituito da fasi simmetriche di espansione e contrazione. Una fase di espansione, da un lato, e una fase di contrazione, dall’altro, completano un ciclo geopolitico. Tale sistematizzazione, che chi scrive ha denominato “teoria ciclica della storia russa”, è stata dedotta da uno studio prevalentemente spaziale della tradizione di politica estera dello Stato russo. L’analisi che segue descrive pertanto l’impatto delle caratteristiche geografiche della regione russica sulle traiettorie storiche degli Stati russi e sulle loro politiche estere. A cominciare dalla genesi del Principato di Kiev e della Russia medievale.

La storiografia occidentale brilla per il numero di opere dedicate allo studio dell’ascesa e del declino delle grandi potenze. Più opaco è invece il numero di opere che sono state dedicate alla loro genesi. In una pubblicazione che ha suscitato grande interesse nella comunità accademica, Peter Turchin, esponente di spicco della cliodinamica[3],  ha tentato di spiegare la nascita di talune grandi potenze attraverso un’analisi multifattoriale, ancorché incentrata sulla geografia[4]. Sinotticamente, l’autore ha sostenuto l’esistenza di una relazione simbiotica fra i grandi imperi nomadici e i grandi imperi agrario-sedentari sviluppatisi lungo la cerniera di steppe eurasiatica. In quella che egli definisce “a theory of imperiogenesis”, Peter Turchin suggerisce che lo sviluppo dei grandi imperi sedentari sia stato strettamente legato a quello delle potenze nomadiche. A causa dell’estrema mobilità di quest’ultime, le collettività nomadiche non sarebbero state in grado di raccogliere efficientemente le risorse necessarie sul piano domestico attraverso la produzione agricola e l’esazione di tributi. Per questa ragione, spiega Peter Turchin, è ragionevole pensare che tali risorse dovessero essere raccolte esogenamente attraverso la predazione e il saccheggio. D’altro canto, conclude il ricercatore, le comunità sedentarie sarebbero state incentivate a produrre burocrazie articolate, eserciti professionali, e, in ultimo, a organizzarsi in forme para-statali, per via della minaccia rappresentata dai razziatori nomadici.[5]

Uno dei casi-studio più emblematici è quello della Cina. La regolare presenza di collettività nomadiche dedite al saccheggio dell’entroterra cinese fornì assai presto un potente incentivo alla centralizzazione sociale, politica, amministrativa e militare delle comunità locali, originando il nucleo primitivo dello Stato cinese. Anche la genesi del Principato di Kiev risponde a questa dinamica. Possiamo quindi applicare la grand theory di Peter Turchin alla steppa pontico-caspica estesa dal Mar Nero al Mar Caspio e dall’Ucraina centrale al Kazakistan occidentale. Fu probabilmente la Cazaria[6] a fornire un impatto formativo sulla genesi dei proto-stati della regione. Nel periodo della sua massima estensione, lo Stato cazaro (VII-X secolo d.C.) si estendeva tra gli odierni Caucaso, Ucraina centro-orientale, Russia meridionale, e Kazakistan. Così, nel IX secolo, gli slavi che abitavano la regione si trovarono alla frontiera di una potenza nomadica. Si organizzarono quindi le prime potenze agrarie: il Khanato bulgaro e, in modo più significativo, la Rus’ di Kiev, il primo mega-impero dell’Europa orientale. Fondata dal principe Oleg alla fine del IX secolo, essa avrebbe raggiunto la sua massima estensione alla metà dell’XI secolo. Estendendosi dal Mar Bianco a nord al Mar Nero a sud, dalle sorgenti della Vistola a ovest alla penisola di Taman a est, la Rus’ di Kiev finì per sottomettere la maggior parte delle tribù slave nordorientali. Nella genesi della Rus’ di Kiev possiamo collocare temporalmente la prima fase di espansione di uno Stato russico, caratterizzato dal controllo del Bassopiano sarmatico e degli specchi d’acqua ad esso prospicienti: a sud il Mar Nero, al nord il Mar Bianco. Parallelamente, la prima fase di contrazione territoriale, e quindi la chiusura del primo ciclo geopolitico dello Stato russico, può riconoscersi nella disintegrazione del Principato di Kiev seguita alle invasioni mongole della metà del XIII secolo.

 

Il Principato di Kiev nell’età della sua massima espansione (XI sec circa)

 

L’annientamento del Principato, come risulta peraltro dalle fonti medievali, costituì un momento tanto tragico quanto formativo per coloro che lo abitavano. La velocità con cui l’Orda mongola riuscì ad abbattersi sullo Stato Kievano rese presto evidente alla collettività russica il dato fondamentale dello spazio geografico dell’Europa orientale: l’indifendibilità.[7]  Le desolate pianure sarmatiche non offrirono alcun punto di appoggio, rilievo montuoso o altra barriera geografica cui ancorare la difesa del Principato. Al contrario, unitamente alle steppe centroasiatiche, il Bassopiano sarmatico si prestò al celere spostamento dell’orda mongola. Alla rotta d’invasione orientale si aggiungeva quella occidentale. Come sul versante orientale, anche a occidente, in direzione della Mitteleuropa, non erano presenti che distese erbose e pianeggianti. Solo due le eccezioni: a est la catena dei Monti Urali, a ovest la catena dei Monti Carpazi. Il futuro Stato russo ne avrebbe tenuto conto.

La seconda fase di espansione dello Stato russico ha come protagonista il Gran Ducato di Mosca, cui taluni autori polacchi e dell’Europa occidentale usarono riferirsi, non senza intenti dispregiativi, col nome di “Moscovia”. Il Gran Ducato, nato come soggetto vassallo dell’Orda d’Oro, impegnò crescenti risorse a partire dal XIV secolo per accorpare le genti russiche circostanti e i territori che queste abitavano. Sotto il profilo propagandistico, tale processo venne presentato come indirizzato, sostanzialmente, alla “liberazione” dei popoli Rus’ dall’oppressione mongolica. Come nel caso della Rus’ di Kiev, dunque, anche la creazione del Gran Ducato di Mosca rispose alla necessità di resistere all’ingombrante presenza di una comunità nomadica in ascesa. Il coronamento della controffensiva russica giunse nel 1480, quando, al tempo di Ivan III, il Gran Ducato si liberò definitivamente del “giogo mongolo”. In questo periodo il Gran Ducato chiuse la rotta d’invasione orientale ancorandosi agli Urali e sottomettendo i khanati tartari alla sua frontiera sudorientale. Dopo le campagne espansionistiche di Ivan III e Ivan IV, lo Stato russo entrò in una crisi prolungata nella seconda metà del XVI secolo. Pochi anni dopo, aveva inizio una seconda, umiliante, fase di contrazione geopolitica. Dapprima, il Khanato di Crimea, protettorato Ottomano, mise al sacco Mosca nella seconda metà del XVI secolo. Poi, all’inizio del XVII secolo, furono le forze polacco-lituane a raggiungere ripetutamente Mosca, saccheggiandola e occupando parte dei territori del Gran Ducato.  Come nel XIII secolo, anche in quest’occasione un’imponente forza militare ebbe buon gioco a raggiungere e colpire rapidamente il cuore dello Stato russico.

Nella presente periodizzazione, il terzo ciclo include la più lunga fase di espansione nella storia dello Stato russo moderno. In primo luogo, si registra la conquista dell’Ucraina a metà del XVII secolo in seguito ai numerosi conflitti con il Commonwealth di Polonia-Lituania. In secondo luogo, l’espansione di Pietro il Grande e Caterina la Grande nell’area baltica e nel Caucaso. Terzo, avvengono la piena incorporazione del Caucaso meridionale, l’annessione della Finlandia e di ampie zone dell’Asia centrale nel corso del XIX secolo. A questo punto, merita di essere fatta una breve ma assai importante considerazione sulla struttura geografica assunta dallo Stato russo. Esso aveva appreso nel corso dei secoli che la collocazione delle sue strutture politico-amministrative centrali nel mezzo delle pianure sarmatiche le esponeva a una pluralità di minacce, provenienti, possibilmente, sia da Est che da Ovest. Il ricordo della disintegrazione del Principato di Kiev aveva suggerito alla futura classe dirigente moscovita di chiudere al più presto la strada da, e per, le steppe centroasiatiche. Ciò era avvenuto attraverso l’ancoramento dello Stato russo ai Monti Urali, e, a seguire, attraverso la conquista-colonizzazione di tutta la regione siberiana. D’altro canto, i sacchi di Mosca da parte del Khanato di Crimea (1571) e del Commonwealth polacco-lituano (1608) decisero Mosca a impegnarsi nell’espansione a occidente e a meridione. L’annessione dell’Ucraina (1654, 1667) e le tre spartizioni della dell’ex potenza polacco-lituana (1772, 1793, 1795) servirono il completamento del disegno russo. La soffertissima vittoria dello Zar Alessandro I sulla Francia di Napoleone Buonaparte (1812) segnò il successo della difesa in profondità architettata nel corso dei secoli precedenti. Al termine della terza fase di espansione, l’Impero Zarista raggiungeva la sua massima estensione e si collocava, di diritto, ai vertici delle gerarchie di potenza internazionali. 

L’Impero Zarista all’apice della sua potenza e della sua espansione territoriale (XIX secolo)

 

Eppure, nonostante questa spettacolare fase di espansione, l’umiliazione subita dallo Stato russo nella guerra di Crimea (1853-1856) ne rese note le gravi debolezze sul piano logistico. L’allargamento dei confini dello Stato russo non era stato accompagnato dall’ammodernamento delle sue infrastrutture, in primis sul piano ferroviario. Infine, le cocenti sconfitte contro il Giappone al principio del XX secolo introdussero lo Stato russo alla terza, particolarmente drammatica, fase di contrazione. Durante la Grande Guerra, la Rivoluzione Bolscevica, prima, e la pace cartaginese stretta con la Germania nel 1918 (Trattati di Brest Litovsk), dopo, condannarono lo Stato russo a gravissime perdite territoriali. L’inizio della quarta fase di espansione dello Stato russo si può far coincidere con il recupero di taluni territori persi a Brest Litovsk negli anni immediatamente successivi. La guerra polacco-russa, conclusasi con il Trattato di Riga (1921), condusse alla spartizione di Bielorussia e Ucraina fra Polonia e Russia bolscevica. Nel 1922, furono reincorporate Georgia, Armenia e Azerbaigian. Nello stesso anno nacque l’Unione Sovietica. L’ultima e più significativa ondata di espansione territoriale si sarebbe verificata durante la Seconda guerra mondiale. Al culmine di questa fase, Estonia, Lettonia e Lituania furono re-incorporate nello Stato russo-sovietico e Mosca – sotto la forma del Patto di Varsavia (1955) – poté nuovamente dotarsi di un vallum geopolitico in Europa centro-orientale, riottenendo, per un’ultima volta, la profondità spaziale che aveva perduto nel 1918. L’Unione Sovietica, ancorata a nord sul Baltico, a sud sui Carpazi e protetta dal Patto di Varsavia, ascendeva al rango di prima potenza eurasiatica.

La quarta fase di contrazione, dunque la chiusura del quarto ciclo geopolitico, coincide con il collasso dell’Unione Sovietica e il suo smembramento in quindici repubbliche indipendenti. Non intendendo in questa sede analizzare il crollo della potenza sovietica, giova comunque un’osservazione circa la ragione strutturale del ciclico declino dello Stato russico, corrisponda esso al Principato di Kiev, allo Zarato, all’Impero zarista, all’Unione Sovietica o alla Federazione russa: l’ultraestensione (in inglese, overstretch). Le cicliche espansione e contrazione della Russia sono radicate nella sua esperienza storica e nella sua geografia. La Russia è circondata da distese pianeggianti a perdita d’occhio. Non disponendo di difese naturali, essa deve espandersi preventivamente, raggiungendo estensioni geografiche impensabili. Poiché la Russia è stata sovente sotto pressione da parte da parte di potenze ostili, ha dovuto destinare la maggior parte delle sue risorse alle spese militari. Ciò, a sua volta, ha condotto a una condizione di overstretch permanente. La conseguenza naturale di questa condizione è il fallimento dello Stato, che deve quindi contrarsi e ripetere il ciclo.

 

Le quindici repubbliche emerse dalla disintegrazione dell’Unione Sovietica nel 1991.

 

Sul piano prettamente ideale, la ri-espansione dello Stato russo nel suo spazio geografico di riferimento ha inizio immediatamente. Dopo il 1991, il concetto di spazio post-sovietico viene fatto coincidere con quello del cosiddetto blizhnee zarubezhe (vicino estero). L’accezione puramente geografica che sembrerebbe sottesa a entrambe le espressioni cede il passo a un’altra interpretazione, massimamente geopolitica, che Dmitri Medvedev diede della prima delle due espressioni, che egli definì “una sfera di interessi privilegiati”[8]. Questa lettura condensa molto bene lo storico rapporto fra la Russia e parte della regione Eurasiatica, ch’essa ha avuto modo di dominare per lunghissimo tempo. Nella terminologia di analisi post-sovietica s’intercetta subito, ancorché moderatamente, il desiderio di Mosca di ri-appropriarsi del rango di grande potenza perduto al termine dell’epopea gorbacheviana. 

 In questa sede si avanzano tre interpretazioni del concetto di spazio post-sovietico. In primo luogo, come spazio legato, strictu sensu, a un egemone regionale. Questa interpretazione origina dall’applicazione della scuola di pensiero del neorealismo offensivo, dominata da John Mearsheimer, alla questione in oggetto. In secondo luogo, seguendo la scuola di pensiero neoliberale e appropriandosi delle parole di Joseph Nye e Robert Keohane, esso può essere compreso come espressione di una interdipendenza complessa (in inglese complex interdependence), vale a dire un insieme di collettività le cui classi dirigenti sono altamente interconnesse, in cui i processi decisionali sono co-dipendenti, in cui la forza militare sparisce come vettore di risoluzione delle controversie e in cui, cosa assai rilevante, la cooperazione interstatale è garantita dalla presenza di un egemone benigno. La creazione di organizzazioni regionali a fini di cooperazione internamente allo spazio post-sovietico (Comunità degli Stati Indipendenti, Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, Unione Economica Eurasiatica et alia) ha corroborato, quantomeno inizialmente, la visione neoliberale. In ultimo, lo spazio post-sovietico può considerarsi, seguendo taluni dettami della cosiddetta critical geopolitics, come l’espressione dell’intreccio di legami e identità transnazionali, transculturali e trans-statali che lo abitano. In tutti e tre i casi, che si guardi a Mosca come egemone regionale, come riferimento dell’integrazione regionale o come garante della sovrastruttura culturale, lo spazio post-sovietico assume le forme di una area of privileged interests in cui lo Stato russo desidererebbe re-inserirsi.

Almeno a partire dalla prima presidenza Putin, coerentemente, lo Stato russo ha tentato di imporre un denial alla penetrazione politica, economica e persino culturale nella regione post-sovietica da parte di altre grandi potenze, in ispecie gli Stati Uniti. Si guardi a questo soprattutto alla luce dell’allargamento dell’area euroatlantica alla parte di Europa centro-orientale un tempo sotto influenza moscovita. A partire da queste premesse, si possono considerare le guerre in Georgia (2008) e in Ucraina (2014, 2022-oggi) come il prodotto strutturale della frizione di due blocchi, l’uno rappresentato dalla Russia, l’altro dalla NATO (e dall’egemone di quest’ultima gli Stati Uniti), per l’organizzazione geopolitica del continente eurasiatico. Avvalora questa tesi la grave minaccia percepita da Mosca al momento della promessa della membership NATO a Georgia e Ucraina nel 2008, contestualmente al summit di Bucarest cui presenziava l’attonito Vladimir Putin. Tali conflitti, e in ispecie quello in Ucraina, segnalano il tentativo di Mosca – quantunque, ipoteticamente, di natura difensiva – di ri-espandersi nella regione. Si potrebbe quindi guardare ai conflitti post-sovietici che vedono impegnata la Russia come al principio di una, ancorché modesta e poco efficace, quinta fase di espansione.

Contestualmente a questa teorizzazione, un altro effetto delle scosse (guerra in Georgia) che hanno anticipato il terremoto (guerra in Ucraina) sarebbe il crollo dello spazio post-sovietico. Ergo, alla luce di quanto avvenuto nel passato recente, si potrebbe ora contestare la validità di ognuna delle tre demonstrationes circa l’esistenza di uno spazio post-sovietico inteso come sfera d’influenza moscovita. In effetti, l’impiego della forza da parte del Cremlino per impedire l’adesione di due dei suoi esteri vicini più rilevanti a un’alleanza militare ostile alla Russia già, da sola, basta a ridicolizzare il pensiero che lo spazio post-sovietico, ad oggi, sia concretamente egemonizzato da Mosca. Al contrario, esso è una regione tanto frammentata da permettere al magnetismo di una potenza assai lontana nello spazio, vale a dire gli Stati Uniti d’America, di attrarre molte dei suoi elementi nella sua orbita. Per giunta, promettendo garanzie circa la loro sicurezza militare. In seconda battuta, il fallimento dei tentativi di integrazione regionale della Russia nello spazio post-sovietico caucasico, europeo e centroasiatico, con poche eccezioni, nonché il fiorire dei conflitti in loco, rendono assurdo considerare Mosca garante di un’interdipendenza complessa.

Altrettanto confutabile sarebbe la terza argomentazione circa l’esistenza transculturale di uno spazio post-sovietico. Prima dello scoppio della guerra in Ucraina, il riconoscimento dell’indipendenza dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud aveva segnato una rottura nella conformazione geografica e culturale della regione. Similmente, la scelta della Russia di invadere l’Ucraina nel febbraio 2022 e di riconoscere l’indipendenza delle regioni separatiste di Luhansk e Donetsk ha rafforzato e reso più evidente la transizione verso uno spazio propriamente post post-sovietico. Riconoscendo l’indipendenza di nuovi organismi politici all’interno dei Paesi vicini, al netto delle ragioni addotte, la Russia ha partecipato alla creazione e produzione di spazio, le quali hanno condotto a una trasformazione transnazionale, transculturale del suo vicino estero.

La richiesta-provocazione di Volodymyr Zelensky si incastra perfettamente nel mosaico delle argomentazioni contro l’esistenza di uno spazio post-sovietico e si coniuga perfettamente con un approccio che potremmo definire costruttivista. Così come esse et percipi coincidono nella produzione delle identità e nella costruzione delle narrazioni, così l’invettiva lanciata da Volodymyr Zelensky contra Moscam rivela anche il crollo dell’egemonia culturale del Cremlino sulla porzione russica dello spazio post-sovietico. Questo sarebbe quindi il primo caso in cui un’espansione territoriale dello Stato russo si rifletterebbe in una sua contrazione sul piano culturale. Un domani, Mosca potrebbe vincere la guerra in Ucraina ma perdere quella identitaria. Dovesse Mosca uscire sconfitta da questo Armageddon culturale, Volodymyr Zelensky potrebbe incoronarsi, per diritto, Zar di tutte le Russie.

 Secondo la tradizione, Romolo uccise Remo, fondò la città eterna e inaugurò una nuova epoca. Così la piccola Russia di Volodymyr Zelensky potrebbe disfarsi della Grande Russia di Vladimir Putin. Del prossimo evo post post-sovietico, Volodymyr Zelensky disporrebbe, certamente, una nuova calendarizzazione.

 

 

Biografia dell’autore – Samuele Francesco Vasapollo, classe ’97, nasce a Torino. Ottenuta la maturità classica presso il Liceo Classico di Olbia, intraprende un corso di laurea triennale in Scienze politiche e delle Relazioni Internazionali presso l’Università Cattolica di Milano, che completa con la tesi “Nascita di Israele e il Sionismo nella Storia delle Relazioni Internazionali”. Prosegue i suoi studi all’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali di Milano (ASERI), presso cui consegue un Master in Studi Mediorientali discutendo la tesi “Geopolitics of the Ancient and Medieval Middle East: From the Fall of Rome to that of Constantinople”. Consegue, in ultimo, una doppia laurea magistrale in Diplomazia e Affari Globali presso la MGIMO (Mosca) e la LUISS (Roma), presentando la tesi “From the Kievan Rus to the Present: Geopolitical Patterns in the History of Russian Foreign Policy”. Ha collaborato come analista di politica internazionale alcuni istituti specializzati, fra i quali IARI (Istituto Analisi Relazioni Internazionali), Special Eurasia, Analytica for Intelligence & Security Studies, ISG (Italia Strategic Governance) e Aliseo. È co-fondatore e dirigente dell’associazione storica Renovatio Imperii.

 

[1] Agenzia Nova: https://www.agenzianova.com/news/zelensky-vuole-cambiare-il-nome-della-russia-in-moscovia/

[2] Il Giornale: https://www.ilgiornale.it/news/guerra/moscovia-sporco-reich-bandera-si-accende-guerra-dei-nomi-2125512.html

[3] La Cliodinamica è un’area di ricerca multidisciplinare incentrata sulla modellizzazione matematica delle dinamiche storiche.

[4] Peter Turchin, A theory for the formation of large agrarian empires, University of Connecticut

[5] La letteratura precedente, in particolare Barfield (2001) e Kradin (2000), indicava la relazione quantitativa e qualitativa tra la presenza di grandi imperi agrari e l’ascesa di potenze nomadi nelle steppe eurasiatiche.

[6] Il khanato cazaro era una confederazione di popoli delle steppe dell’Asia centrale discendente dalla confederazione turca dei Gokturk.

[7] Dmitri Trenin, The End of Eurasia: on the Border between Geopolitics and Globalization, Carnegie Moscow Center, 2001.

[8] The New York Times: https://www.nytimes.com/2008/09/01/world/europe/01russia.html