Quando affrontiamo un personaggio come Seneca, la prima naturale reazione è l’esserne stupiti, egli infatti è comunemente considerato un erudito, termine che tuttavia non gli rende giustizia. Infatti nella sua vita fu filosofo, drammaturgo, abile politico e più abile oratore, incarnava in sé quel principio catoniano, che lui adotterà, tanto caro al mos: vir bonus, dicendi peritus. Figlio di Seneca il vecchio, scalò senza problemi il cursus honorum, condannato una prima volta a morte sotto l’imperatore Claudio preferì l’esilio. Ottenne grazie ad Agrippina minore il richiamo in patria che ne fece insieme al prefetto del pretorio Afranio Burro tutore di suo figlio Lucio Domizio Enobarbo, il futuro imperatore Nerone. Allontanatosi sempre più dalla corte fu accusato di aver preso parte alla congiura dei Pisoni e fu condannato a suicidarsi.
Il suo pensiero si districa tra molteplici inferenze di varie scuole filosofiche, è considerato come uno tra i membri più eminenti del Neostoicismo, secondo la divisione di Giovanni Reale, della tarda Stoa o Stoa romana, secondo la divisione classica. Per Seneca lo scopo della filosofia consisteva nell’aiutare l’uomo a guardare con occhi diversi la realtà, a vivere virtuosamente cioè a prendere coscienza della vanità delle cose. In ciò consiste la differenza tra il saggio e lo stolto, il primo pur godendo dei beni del mondo non ne subisce il fascino ma è sempre pronto a staccarsene qualora ne fosse necessario. Ma la filosofia è anche cura, terapia per i mali dell’anima, senza di essa questa rimane turbata dai suoi medesimi moti, non confessa a sé i propri difetti e volontariamente accecata ricade nell’errore, nel vizio. Vorrei soffermarmi un attimo sulla concezione di vizio per i latini, noi tendiamo infatti a interpretare tale parola sulla falsariga della concezione giudaico-cristiana, quindi come radice di mali infernali. I romani invece consideravano il vizio semplicemente come vivere male e male di vivere, come il non spendere la vita bene, non dedicandola alla patria, alla famiglia, agi dei.
Detto ciò che è considerato male dal nostro autore dobbiamo definire cosa intenda egli per bene: <<Il bene dell’uomo non è nell’uomo se non quando la ragione è perfetta>>. Ragione perfetta capace di librarsi al di sopra della comune sfera concupiscibile e voluttuosa, capace di dominare e di non essere mai dominato, il solo modo per essere realmente liberi.
Il Dio di Seneca è un dio personale, simile al demone socratico ma più lontano dal singolo individuo, solo ed unico creatore delle cose ma al contempo presente in ciò che ha creato. E’ difficile comprendere se il nostro autore abbracci il panteismo o il panenteismo, indubitabile è che si tratti di monoteismo, a tratti molto simile a quello cristiano, tant’è che fu inventato uno pseudobiblion epistolare tra lui e Paolo di Tarso. Dio è generatore di sé medesimo, cosa che lo distacca palesemente dal cristianesimo, ed è il dominatore del Fato, sua creatura e come tale modificabile secondo la sua volontà sempre tendente al Bene (da intendere in senso universale) e tramite le nostre preghiere e invocazioni. Ogni cosa è pervasa da un fatidico finalismo, a tratti provvidenziale che governa e regge tutto come Nous, mente perfetta raziocinante e che pervade di raziocinio le cose, manifestandosi nella pluralità di ogni specifico ente, unico, irripetibile e irriducibile a forme assolute e generalizzanti. La nostra ragione è parte della divina intelligenza, partecipante della stessa e in quanto parte della nostra anima la eleva al di sopra del corpo. Anzi la nostra corporeità diviene una pena, una prigione e l’unico modo per alleggerire il pesante esilio è la ricerca metafisica. Ogni uomo è un peccatore anzi nasce intriso di peccato, la sapienza consiste nel cercare di allontanarsene; la colpa non è causata dall’ignoranza del bene ma dalla volontà di fare del male. E’ questo volontarismo che lo discosta in particolar modo dal pensiero greco, dove era opinione diffusa, e non solo socratica considerazione, il credere che la causa del peccato umano sia l’ignoranza. Proprio il nostro essere tutti ugualmente colpevoli ci mette sullo stesso piano, non esiste né nobiltà di sangue e né nobiltà di spada, l’unica nobiltà è quella d’animo. Quel che turba Seneca è vedere schiavi nobili servi di potenti schiavi delle loro stesse passioni, non sono le ricchezze, la fama e le imprese a renderci simili al Dio ma il tendere alla virtù. Questo è un’ulteriore differenza rispetto al pensiero greco dove l’aretè era una caratteristica innata, la virtus si acquista facendosi violenza, dominandosi, rinnegando i moti perversi. Egli riconosce l’uguaglianza di ogni individuo anche nei barbari, essi non sono nemici, il vero nemico è il vizio; si pone in contraddizione col pensiero dell’homo homini lupus e afferma con la fierezza e la dignità di filosofo amante delle sapienza che <<homo res sacra homini>>, l’uomo diventa sacro, inviolabile, divino indipendentemente dalle condizioni sociali e culturali, etniche e familiari. Ciò non ci deve far pensare che Seneca sia un pacifista, non rinnega la guerra ma la guerra non deve mai farci smettere di essere umani intrisi di humanitas.
Riprese il concetto stoico di conflagrazione cosmica, dove tutto l’universo raggiunto il suo massimo compimento comincerà ad ardere riducendo tutto ad un ammasso primordiale comprese le anime dei saggi. Ciò non gli impedì tuttavia di esaltare la bellezza della vita e soprattutto ad invogliare i suoi lettori, a tratti supplicandoli, a non sprecare il tempo concessogli. Infatti sebbene per la conflagrazione cosmica tutto è destinato ciclicamente a ripetersi è pur vero che egli ammette delle modificazioni seppur piccole nelle esistenze dei singoli individui. Il tempo è la più grande ricchezza dell’uomo esso non deve essere sprecato né per eccesso e né per difetto, né procrastinando senza moderazione e né occupandosi con impegni eccessivi, bisogna dedicare il giusto tempo all’otium e il giusto tempo al negotium. Per Seneca dobbiamo vivere e vivere sapientemente, assaporando ogni attimo, ogni sofferenza, ogni delusione, ogni gioia, ogni amore, ogni lacrima, ogni sospiro, ogni pensiero, ogni palpito, ogni respiro. Solo così vivremo veramente, solo così ameremo ardentemente, solo così esisteremo eternamente.
Nello Maruca