Nel momento in cui un popolo, per raccontare sé stesso, ricorre alla scientificità, ci racconta già qualcosa. Principalmente ci segnala di essere sospeso nell’irrealtà. Paradossale, ma il metodo scientifico applicato ai processi umani è quanto di meno reale possa esistere. Proprio perché tremendamente soggettiva e divisiva, la Storia è la materia più umana che ci sia. Esiste sicuramente un confine marcato tra verità e falsità storica, ma questo scompare completamente quando la questione diventa interpretativa. In maniera più concreta, Marco Antonio fu sconfitto nella battaglia di Azio il 2 settembre 31 a.C., innegabilmente. Ma il principato augusteo che ne consegue, ha lasciato un’eredità italiana? L’Italia è vecchia come quella battaglia, o viene prima, o dopo?
Applicare il metodo scientifico e analitico ci consente di verificare la data della battaglia, ma non è di nessun aiuto per la seconda domanda. Peggio ancora, è un errore logico. Come lo sarebbe applicare la fisica classica all’interpretazione di un sogno. Nonostante ciò, fioriscono le tesi che provano a confermare o smentire la continuità, o l’origine, degli italiani. Ancor di più, tesi e antitesi sull’italianità stessa. Biologia, etnografia, giurisprudenza e politologia si confrontano per districare il nodo gordiano dell’eredità romana nel popolo italiano. Ma proprio come il famoso nodo della città anatolica, anche tale questione può essere rapidamente tagliata da un colpo di spada. Gli italiani non si sentono eredi imperiali di Roma, quindi non lo sono.
Per provarlo, partiamo da lontano. La questione dell’eredità della città eterna comincia già all’indomani della caduta della città stessa, che si sarebbe spiritualmente trasferita a Costantinopoli. Gli abitanti del suo impero volevano farsi chiamare “romei”, “Ῥωμαῖοι” in greco, in diretta discendenza con l’Urbe. Siamo a una seconda Roma, ma ne esiste una terza, inevitabilmente figlia di Bisanzio. E proprio di parentela si parla, poiché Ivan il Grande, Gran duca di Mosca, sposò Sofia Paleologa, nipote di Costantino XI. Questi altro non era che l’ultimo imperatore bizantino. Alla faccia della scientificità. Ma muovendoci ancora nello spazio e nel tempo, non si può non citare il Sacro Romano Impero, o Primo Reich. Che di certo a Roma non stava.
Si aggiunga l’Illuminismo francese, che attinge a piene mani dal classicismo, innescando poi una rivoluzione che adotta i fasci littori come simbolo di giustizia e legge, e producendo infine Napoleone Bonaparte, un generale nato in Corsica che si raffigura come un misto tra Giulio Cesare e un sovrano d’ancien régime. E se vogliamo tornare in Germania, quando si tratta di creare la nazione, ecco che l’eroe da evocare diventa un generale che, almeno nell’immaginario collettivo, è stato uno dei più tenaci avversari di Roma: i tedeschi nascono a Teutoburgo.
Chiudiamo la cavalcata con un episodio tanto recente quanto affascinante. Durante un incontro con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nell’ottobre del 2019, Donald Trump descrive il legame italo-americano come una condivisione millenaria di valori democratici e culturali. Tutt’altro che una gaffe. In piena consapevolezza imperiale, gli americani si immaginano in continuità nella Storia. Certo, difficile raffigurare il presidente americano come un acuto storico, ma la sua uscita ci segnala un sentimento incomprensibile nella nostra penisola: individuare la propria origine lontano nel tempo, in modo da giustificare agli altri la propria grandezza.

Le grandi potenze si espandono dove possono, anche e soprattutto nel tempo, cercando di creare radici sempre più profonde. Consapevoli che solo l’ancoraggio al passato permette di resistere alle intemperie del presente. Nel concreto, un popolo che si sente imperiale ritiene di dover essere il primo al mondo. Gli Stati Uniti non sono in cima a nessun ranking internazionale di democrazia, dato che tali posizioni sono quasi sempre occupate da paesi scandinavi. Ma nessuno si è mai sognato di accostare l’espressione “faro della democrazia” alla Norvegia. Né gli Stati Uniti dichiarano di avere come modello di riferimento il freddo paese sul Baltico, o un’altra realtà schiacciata sul presente. Il centro del potere americano sta a Roma, a Capitol(ium) Hill.
Tale mentalità imperiale è talmente cogente che perfino Roma stessa, l’impero più produttore di Storia antica, non sfugge a tale logica e da qualche parte si deve aggrappare. E guarda a Oriente, dove la civiltà si era già abbondantemente sviluppata. In un evidente e mai del tutto superato complesso di inferiorità verso i greci, i romani nascono nel poema omerico. Enea, figlio di Venere e sposo di una delle figlie di Priamo, re di Troia, scappa dalla città in fiamme per fondare, con la sua discendenza, Roma. Se l’Urbe si può collocare in Asia Minore, trecento anni prima della data mitica del 753 a.C., gli americani hanno tutti il diritto di attingere dall’Italia la loro nascita spirituale.
Come detto sopra, è una dimensione onirica. E i grandi sognano in grande. Risulta pertanto facile ora comprendere perché gli italiani non siano tout court eredi di Roma. Non abbiamo (fortunatamente per noi) una mentalità imperiale come quella appartenuta ai romani, o attualmente agli americani, russi, iraniani, cinesi e turchi. Impero ed eredità romana sono dualismo inscindibile: il recupero dell’uno comporta inevitabilmente il ritorno dell’altro. E l’assenza di uno palesa l’assenza dell’altro.
E allora poco importa spendersi in lunghi dibattiti, pur interessanti, sull’eredità storica. Il metodo scientifico può aiutare a individuare quegli elementi di continuità che sicuramente esistono e che sono necessari alla comprensione del presente. Tuttavia, non si può dimenticare che la Storia è anche scienza, ma non solo. Proprio per questo motivo, come detto all’inizio, stendersi su una prospettiva unicamente tecnica è irrealtà. Eliminare l’immaginazione dall’equazione significa scorporare l’uomo dalla Storia, minando il senso di quest’ultima. Esiste una dimensione intangibile, che si può percepire solo sulla propria pelle. Sentimento assoluto e non misurabile.
La città eterna lo è davvero, poiché essa appartiene a chi decide di intestarsela. Ed è evidente che Roma esiste in Italia, ma non viceversa.
Matteo Gravina
L’autore: Matteo Gravina frequenta il corso magistrale Diplomazia e Relazioni internazionali presso l’Università degli studi di Padova. Ha conseguito il master SIOI in Sicurezza Economica, Geopolitica e Intelligence. È analista geopolitico per Italia Strategic Governance.
Profilo Linkedin dell’autore: https://www.linkedin.com/in/matteo-gravina-606b57142/
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