Talassocrazia: l’importanza della marina militare da Pericle a oggi

Talassocrazia: l’importanza della marina militare da Pericle a oggi

Non è certo una scoperta recente che un paese ambizioso con sbocco sul mare debba dotarsi anche di una marina militare adeguatamente potente.

Quella che oggi conosciamo come “arma blu”, infatti, è da sempre uno strumento potentissimo, se non il più potente, che ogni paese o stato ha a disposizione per proiettare la propria sfera di influenza all’esterno dei propri confini geografici.

I primi a capirlo furono Pericle e gli Ateniesi, alla cui meravigliosa lingua dobbiamo il termine “talassocrazia”. Questo concetto di “potere derivato dal mare” è responsabile dell’epica vittoria di Salamina e anche dell’instaurazione della Lega di Delo. Con un salto in avanti di qualche secolo, abbiamo l’opposizione tra Cartaginesi e Romani, che pur difettando di esperienza marittima trovarono un modo ingegnoso per volgere lo scontro con i rivali a loro favore: l’installazione dei ponti mobili detti “corvi” sulla flotta della Repubblica, infatti, consentì ai figli di Enea di trasformare lo scontro, almeno in parte, da marittimo a terrestre, rendendo più agevoli gli abbordaggi.

L’esperienza dei Romani ci ricorda quanto l’innovazione sia fondamentale in ogni settore, a maggior ragione parlando di uno strumento tanto importante, ma torna utile anche per sottolineare ancora quanto la marina militare svolga un ruolo fondamentale nell’arsenale di uno stato. La guerra piratica condotta da Pompeo, oltre a ricordarcelo, può infatti fungere da interessante spunto se presa dalla prospettiva opposta: anche senza uno stato a cui appoggiarsi, volendo considerare i vari gruppi di pirati che infestavano le coste del Mediterraneo come un insieme unico, una marina forte può giocare un ruolo fondamentale in qualsiasi scacchiere geopolitico.

Facendo scorrere avanti le lancette della Storia, troviamo ancora nella Penisola un esempio dell’importanza di flotte strutturate e capaci di percorrere lunghe distanze. Sia dal punto di vista militare che commerciale, con preminenza di questo secondo aspetto senza dubbio, l’esperienza delle Repubbliche Marinare dimostra come anche stati dalla ridotta estensione territoriale possano sfruttare al meglio il mare per avere voce in capitolo nelle dinamiche geopolitiche di interi continenti. Senza scendere nel dettaglio in merito a reti commerciali e successi navali come Meloria, Lepanto e Curzolane, cambiamo prospettiva e usciamo dal Mediterraneo.

Le potenze che hanno o hanno avuto in età moderna rilevanza globale hanno ben presto compreso la lezione appresa nel Mediterraneo applicandola su scala oceanica. Spagna e Portogallo hanno costruito imperi coloniali di immensa estensione appoggiandosi sulla potenza delle loro flotte, per non parlare dell’Inghilterra, la quale ha puntato tutto sulla marina anche in virtù della propria condizione di isola, e ne è stata ampiamente ripagata da cinque secoli a questa parte. La Royal Navy ha infatti consentito alla corona britannica di mantenere la sua supremazia economica e politica globale fino a poco tempo fa, soffocando allo stesso tempo i tentativi della Francia di costruire una marina comparabile alla propria. Il film “Master and Commander”, oltre a essere davvero apprezzabile, descrive molto bene la situazione e l’importanza della marina inglese per Londra.

Con un ultimo salto temporale, arriviamo al secolo scorso. Prima di parlare di ciò a cui tutti pensano quando si tratta del ‘900, ricordiamoci che già nei primi anni del secolo la marina dava avvisaglie della sua rinnovata importanza: la crisi di Agadir, con l’invio della corazzata Panther in Marocco da parte dell’Impero Tedesco, preannuncia quanto le armate di mare saranno ancora importanti per proiettare la potenza di uno stato. Dopo questa premessa, passiamo a trattare del secondo conflitto mondiale. Al di là delle vicende che non approfondiamo qui per evitare di peccare di superficialità, citando a titolo d’esempio l’invenzione dei reparti speciali anfibi con gli “uomini rana” della Regia Marina o gli U-boot tedeschi, l’importanza dell’arma blu si è resa ancora più evidente. Se si pensa soprattutto al teatro bellico del Pacifico, infatti, a venire in mente sono sicuramente gli scontri tra la Marina Imperiale Giapponese e la sua omologa Statunitense. In questo confronto, a fare la parte del leone sono stati i vascelli più all’avanguardia delle rispettive flotte, ovvero le portaerei. Quale imbarcazione potrebbe esemplificare meglio la capacità di proiettare il potere simbolico e militare di una nazione, se non quella che è capace di garantire superiorità sia in acqua che in aria simultaneamente?

Gli Stati Uniti hanno capito benissimo il concetto, tanto che oggi la spina dorsale della macchina bellica e geopolitica americana, complice la posizione geografica che rende questo approccio comunque una necessità, è rappresentata dalle formazioni conosciute come “battle groups”. Queste formazioni navali, composte da fregate, incrociatori, navi appoggio e sottomarini, vedono sempre il loro centro nevralgico incarnato da una portaerei, e rappresentano il modo più rapido con cui Washington può dispiegare la sua considerevole potenza militare nel mondo.

E l’Italia? Al giorno d’oggi, la Marina Militare nazionale presenta punti di forza e debolezza. Nel primo caso, la costruzione di unità d’avanguardia per mano dell’eccellente Fincantieri è un’ottima notizia: il programma italo-francese FREMM e il varo della prossima ammiraglia, la porta elicotteri “Trieste”, fanno sicuramente ben sperare in prospettiva, ma esistono anche delle carenze strutturali importanti con cui fare i conti. Oltre alla scarsità dell’organico quasi cronica ormai, il numero esiguo di unità mette la Marina Militare in una condizione di essere operativa al minimo della condizione accettabile. Se a questa situazione aggiungiamo anche una certa tendenza a navigare a vista, letteralmente, dalle parti della Farnesina per quanto riguarda le strategie di politica estera (si veda a titolo di esempio il teatro libico), ecco che l’ottimismo deve essere necessariamente rimodulato.

La situazione attuale deve rappresentare comunque un’opportunità: in un contesto che tende a tornare dinamico a livello internazionale dopo decenni di immobilismo unipolare, sarebbe bene per l’Italia recuperare la propria dimensione marinara per tornare a chiamare il Mediterraneo “Mare Nostrum”. Da che mondo è mondo, le fortune della Penisola sono sempre passate dall’acqua e dal controllo sul Mediterraneo: un utile monito da tenere a mente per provare a tornare padroni del proprio destino.

Luigi Oriani