L’uomo per natura è portato a fuggire il dolore. Si sceglie di dimenticare, coprire il passato con un velo che, con lo scorrere del tempo, diventa difficile rimuovere. Non sempre avviene consapevolmente: la mente umana dimentica, senza che si abbia veramente deciso di farlo, quasi il solo pensiero fosse insostenibile. L’uomo vuole cancellare non solamente ciò che lui stesso, in quanto singolo individuo, ha compiuto, ma anche tutto il male perpetrato dall’intera umanità, come si sentisse parte di un organismo superiore, quale la specie umana, ed ogni colpa commessa da persone passate ricadesse inesorabilmente su di lui, macchiando la sua anima.
Nella Roma Antica, il ricordo della storia aveva un’importanza particolare: ogni uomo agiva ut nome suum posteritati traditus sit. Così, litri e litri di inchiostro macchiarono pergamene e papiri con l’intento di scrivere Annales, Historiæ, carmina, ed ogni altro singolo componimento che potesse eternare le gesta delle grandi personalità. Tonnellate di marmo furono scolpite per immortalare le imprese di consules, imperatores, dictatores.
Tuttavia, non era sufficiente essere imperator, consul o dictator per entrare nel novero dei “magni viri”. Roma voleva tramandare ai posteri un’immagine di sé molto precisa: ciò che avrebbe potuto intaccare, scalfire, distruggere questo modello, sarebbe stato dichiarato “damnatum”. L’arma che il Senato impugnava contro i nemici, tali o presunti, era la damnatio memoriae – “condanna della memoria”: un’interruzione della linea storica decretata al fine di cancellare la persona, e con essa anche ogni prova della sua esistenza, quali statue, monumenti trionfali, opere, poemi, carmina.
Fin dall’età della “Res publica“, quando la damnatio memoriae è stata ufficialmente introdotta all’interno del corpus civilis romano, rappresentava una delle più atroci pene per un cittadino: se decretata e applicata quando il condannato era ancora in vita, essa sanciva una vera e propria morte civile.
In epoca repubblicana, la damnatio memoriae consisteva nell’abolitio nominis: al malcapitato era revocato il diritto di tramandare il suo praenomen alla famiglia, veniva impartito l’ordine di eliminare la sua presenza nelle iscrizioni e nelle statue. Con l’approvazione del Senato, poteva essere dichiarata anche la rescissio actorum, l’abrogazione totale di tutte le opere e gli atti realizzati dal condannato durante l’esercizio della propria carica. All’indomani della battaglia di Azio, vennero decretate severe misure per obliterare il ricordo di Marco Antonio, grande avversario del futuro Princeps Augusto.
Nell’intero arco dell’età imperiale, il ricorso alla damnatio memoriae assunse un rilievo politico senza precedenti, poiché a subirne le conseguenze furono i personaggi legati alla domus Augusta, se non gli stessi princeps.
La morte violenta di Caligola nel 41d. C. costituì la prima occasione per attaccare direttamente la figura dell’imperatore: le statue e i busti non vennero però immediatamente decapitati o distrutti, ma furono rimossi e trasformati nei lineamenti di altri imperatori.
Nel 68 d.C., con la morte dell’imperatore Nerone, il Senato sancì, per la prima volta ufficialmente, la damnatio memoriae. Nella notte fra l’8 e il 9 giugno, Nerone fuggì dalla Capitale, poiché anche i pretoriani avevano giurato fedeltà al futuro imperatore Galba, lasciandolo così senza protezione. Il Senato dichiara Nerone hostis publicus. Questa condanna non fu mai revocata, e la communis opinio ritiene che ad essa facesse seguito la damnatio memoriae.
Il principato di Nerone fu oltremodo controverso.
«La sua impudenza, la sua libidine, la sua lussuria, la sua cupidigia e la sua crudeltà si manifestarono da principio gradualmente e in forma clandestina, come una follia di gioventù, ma anche allora nessuno ebbe dubbi che si trattasse di vizi di natura e non dovuti all’età.»[1]
Il suo governo fu inizialmente lodevole di meriti, soprattutto grazie alla guida del filosofo stoico Seneca che, per volere della madre, Agrippina Minore, ne era divenuto il precettore. Sui delitti che macchiarono il suo principato, si è scritto molto: la morte della madre Agrippina, della moglie Poppea Sabina, il suicidio di Seneca. Secondo la tradizione cristiana, ad esse si aggiungono la decapitazione di San Paolo e la crocifissione di San Pietro. Tuttavia, il suo governo non fu molto diverso da quello dei suoi predecessori Claudio e Tiberio.
È da attribuire a Tacito, senatore ostile a Nerone, Svetonio e gli storici cristiani, la responsabilità di aver divulgato la leggenda che ancora accompagna la memoria dell’imperatore: l’incendio che bruciò la Capitale, avvenuto proprio nel momento in cui Nerone si trovava ad Anzio. L’imperatore raggiunse immediatamente la città ed aiutò in prima persona nelle operazioni di soccorso. Di tale evento, vennero accusati i cristiani, già malvisti dalla popolazione: alcuni di essi furono arrestati e condannati a morte. Ciò motiva l’astio provato dagli storici cristiani, i quali lo delinearono come il principale persecutore della religione.
La ricostruzione storica dell’incendio di Roma è ancora incerta, molti aspetti sono attualmente controversi. Tuttavia, gli storici concordano nel rifiutare l’immagine dell’imperatore che suona la lira, mentre Roma brucia. Nerone aprì addirittura i suoi giardini per mettere in salvo la popolazione, attirandosi l’odio dei patrizi, e facendo sequestrare imponenti quantitativi di merce alimentari per sfamare gli sfollati.
Il Senato fu costretto a celebrarne i funerali, per non attirare le ire del popolo, dedito al circo e al teatro, rimasto smarrito con la morte dell’ultimo discendente della dinastia Giulio – Claudia.
La vera e propria damnatio memoriae, tanto desiderata dalla classe senatoria, fu applicata da Vespasiano, il quale si pose l’obbiettivo di restaurare materialmente e moralmente Roma, basandosi su un deciso allontanamento dal modello neroniano. Vespasiano, con la Lex de imperio Vespasiani, escluse Nerone dal novero dei boni principes indicati a esempio per il nuovo imperatore. Tutti i monumenti onorari neroniani, come la colossale statua in bronzo o l’arco di trionfo costruito in seguito alla vittoria sui Parti nel 58 d.C., furono distrutti.
L’uomo, raramente, riesce a prevedere le conseguenze delle proprie azioni. La degenerazione è un processo meccanico ed inevitabile, specialmente quando emergono, nel corso della storia, figure che trattengono nelle loro mani una quantità di potere che supera le loro capacità nel gestirla. Si attirano, in tal modo, le ire di classi sociali potenti, che potranno decidere ciò che di lui rimarrà sulla terra dopo la morte.
Sabina Petroni
Fonte: “Il senato e a damnatio memoriae da Caligola a Domiziano”, E. Bianchi. (link)
[1] Svetonio, Vita di Nerone, par. XXVI, traduzione di E. Noseda, Milano, Garzanti, 2004