Le navi ritrovate (e poi dimenticate)

Le navi ritrovate (e poi dimenticate)

L’autore, Tommaso Balconi: Laureato in Design del Prodotto Industriale al Politecnico di Milano, si occupa della creazione di modelli digitali per stampa 3D, specializzandosi nella realizzazione di modelli in scala di soggetti militari, in particolare navi da battaglia. Da qualche anno si interessa di studi accademici sull’architettura navale antica, e sta lavorando a un progetto di ricostruzione archeologica in scala delle Navi di Nemi in collaborazione con il Prof. Marco Bonino, già Docente di Architettura Navale Antica all’Università di Bologna.

 

Ecco a voi una favola vera, dalla lunga Storia, ricca di miti e leggende, d’Italia. Siamo sulle sponde del lago di Nemi, uno specchio d’acqua all’interno di un antico cratere vulcanico, non più di un chilometro e mezzo nel suo punto più largo, qualche decina di chilometri a sud della Capitale. Siamo tra il 37 e il 39 d.C.. Sulle acque del lago si assiste al completamento di due navi immense, sovrastate da murature intonacate e tegole in rame dorato; le colossali costruzioni sono state volute da uno degli imperatori più controversi della storia romana: Gaio Cesare Augusto Germanico, più comunemente conosciuto come Caligola.

Perchè furono costruite? Che aspetto avevano? Dove si ferma la realtà e inizia la leggenda? Queste sono solo alcune delle mille domande che pendono nell’alone di mistero che ancora circonda le Navi di Nemi.

Caligola
Ricostruzione del volto dell’imperatore Caligola, realizzata ad opera di Cesares de Roma.

Le due Navi vennero costruite sotto il regno di Gaio Cesare, che governò tra il 37 e il 41 d.C., figlio del generale Germanico e nipote del precedente imperatore, Tiberio. Tanto si è detto e scritto di questa figura controversa, giudicata dagli antichi storici (primo fra tutti Svetonio) come tiranno e scialacquatore, ma questa non può essere una visione obbiettiva, perché scrissero di personaggi vissuti decenni, a volte secoli prima. In tempi recenti si è cercato di restaurarne la memoria, ricostruendo gli eventi e il contesto che hanno modellato la mente di Gaio Cesare: da bambino seguì il padre Germanico nelle sue campagne militari, e fu in questo contesto che gli venne dato l’infame appellativo con cui era destinato ad essere ricordato: Caligola, o “piccole Caligae”, i sandali dei legionari romani. A soli sette anni vide il padre assassinato, si disse dall’Imperatore Tiberio, preoccupato dalla popolarità del suo miglior generale; non contento di ciò, Tiberio fece eliminare anche la madre e i fratelli, possibili rivali per la carica suprema. Ma per qualche motivo sconosciuto prese con sé Gaio Cesare nella sua villa a Capri, dove è testimone delle stravaganze e della spietatezza dell’Imperatore nei confronti di chiunque osasse minacciare la sua posizione. A fronte di una tale lezione di vita, la Storia è stata forse eccessivamente dura con un personaggio che in fondo fu un prodotto del suo tempo, nel bene e nel male.

Delle opere di Gaio Cesare poco si parla: di queste molte vennero completate ed attribuite al successore Claudio oppure dimenticate, come ad esempio l’obelisco oggi in Piazza San Pietro, che venne importato dall’Egitto dal nostro controverso Imperatore per decorare il Circo di Gaio, poi completato da Nerone. Altre ancora vennero cancellate in seguito alla damnatio memoriae voluta dal Senato, e in quest’ultima categoria ricadono le Navi di Nemi, la cui straordinaria scoperta permette non solo di far luce sulle curiosità tecniche dell’architettura navale romana, ma di raccontare in modo indiretto del loro ideatore, a partire dal motivo per cui furono costruite.

Fin dal ritrovamento nel 1895 le Navi erano state definite come una coppia di yacht di piacere, il capriccio di un Imperatore sadico ed egoista o il frutto della fantasia di un folle. Questi giudizi, spesso purtroppo ancora attuali, risultano però a dir poco superficiali e riduttivi. Seppur sia vero che una di queste imbarcazioni, il thalamegos, sia vagamente accostabile a simili appellativi, una definizione esaustiva di questo termine greco è difficile da formulare: la traduzione letterale è quella di cabin-carrier (porta-cabine). Esempi di thalamegoi erano estremamente diffusi nell’Egitto tolemaico (con cui un adolescente Gaio Cesare ebbe modo di confrontarsi durante i tanti viaggi del padre), e qualche esempio lo abbiamo anche nel mondo romano; alcuni erano anche utilizzati per il trasporto di vari beni, perciò qualsiasi definizione del termine che riduca esclusivamente a yacht di piacere è restrittiva e fuorviante. Nel caso specifico abbiamo qualcosa che potremmo definire un palazzo su una piattaforma galleggiante di forma navale: opera decisamente non definibile quale nave da crociera, specialmente quando questa non dispone di mezzi propri per muoversi. Circa questo aspetto si è sollevata l’ipotesi che la nave fosse trainata, ma ciò sarebbe stato difficoltoso a dir poco, vista la mole del bastimento (non dimentichiamoci che la forza motrice dell’epoca erano gambe e braccia). Detta ipotesi però non è applicabile per ogni thalamegos, e, anzi, quello di Nemi è forse ancora più unico, in quanto sembra il solo, di cui sia pervenuta notizia, a non avere un proprio mezzo di propulsione.

La seconda Nave era invece di natura cerimoniale, con un tempio probabilmente dedicato a Iside, il cui culto venne introdotto proprio da Gaio Cesare accanto a quello di Diana, la quale era già venerata in un tempio consacrato sulle rive. Da qui il nome con cui era conosciuto il lago di Nemi: Speculum Dianae, lo specchio di Diana, a causa di un curioso fenomeno per cui, in determinate notti dell’anno, la Luna si riflette tre volte sulle acque del lago.

A fronte di queste considerazioni non si possono sminuire queste grandi opere d’ingegno come mero capriccio di piacere.

Navi di Nemi - Thalamegos
Ricostruzione in scala del relitto del Thalamegos, custodita presso il Museo delle Navi Romane di Nemi. Foto dell’autore.

Ma che aspetto avevano le Navi? Queste erano di dimensioni simili ma molto diverse tra loro: la prima Nave era un thalamegos imperiale di 71,3 metri per 20, mentre la seconda era una grande nave cerimoniale con a bordo un tempio, di circa 73 metri per 29. In molti articoli e pubblicazioni sulle Navi vengono citate altre misure simili, ma queste sono spesso e volentieri le misure dei relitti, non corrispondenti a quelle qui riportate, che sono le dimensioni originali basate su disegni di ricostruzione archeologica.

L’aspetto delle Navi era caratteristico dei legni dell’epoca, con prua rostrata (fittizia) coronata dalla caratteristica voluta corinzia, simile a quella dei capitelli e poi riprodotta nei riccioli di alcuni strumenti musicali, come il violino; la poppa ricurva era sormontata da una cresta decorativa (aphlaston), ed entrambe le estremità rivestite da una guaina in bronzo.

Il thalamegos aveva tre blocchi di edifici a bordo: una grande costruzione articolata da poppa a poco prima della mezzeria; un edificio centrale rimodellato più volte, di cui non è ben chiara la disposizione, con un pavimento ribassato rispetto al ponte di coperta e sostenuto da tubi in terracotta, alcuni affondati in muri di mattoni cotti; un’ulteriore costruzione a prua di cui conosciamo l’esistenza ma di cui non è quasi rimasta traccia. Non è possibile perciò stabilirne con virtuale certezza la pianta, che invece si può chiaramente leggere per i restanti edifici grazie ai puntelli sopravvissuti.

La nave tempio era invece di concezione più semplice: un lungo colonnato fiancheggiava un grande spazio aperto rettangolare, poggiante sul livello inferiore di bagli (travi con funzione strutturale poste in senso trasversale), terminante alle estremità con due edifici. Quello di poppa era un tempio che ricalcava costruzioni di simili dimensioni, con un rapporto tra lunghezza e larghezza di 6:5, dietro a cui era presente un edificio di servizio, mentre a prua una costruzione più piccola e decorata da colonnine tortili (di cui una recuperata negli Anni ’30 ma successivamente distrutta) chiudeva il cortile centrale; un altro edificio di servizio occupava parte della coperta a prua. Questa Nave si può facilmente distinguere dalla precedente in fotografia grazie al doppio ordine di bagli sporgenti oltre la fiancata, che sorreggevano un aposticcio, ossia una galleria coperta per i rematori (caratteristica non presente nel thalamegos), oltre ai quattro timoni, ognuno ai rispettivi vertici dell’aposticcio.

Navi di Nemi - Nave tempio
Ricostruzione in scala del relitto della nave tempio, custodita presso il Museo delle Navi Romane di Nemi. Foto dell’autore.

Entrambi gli scafi erano costruiti con fasciame estremamente spesso per gli standard moderni (da 10 a 15 cm ai lati della chiglia), rivestito di una lana impermeabile e coperto da enormi lastre in piombo, di oltre 1,5 mt di lunghezza, ma sorprendentemente dello spessore di circa 1 mm: assolutamente straordinario per la manifattura dell’epoca.

Tra gli straordinari ritrovamenti nel 1929, un’enorme asse di timone di oltre 11 metri, proveniente dal thalamegos e decorato con una testa di leone in bronzo, continua a destare meraviglia grazie alle sole dimensioni.

Resti di pompe a pressione, rulli cilindrici in bronzo, parte della base di un argano con cuscinetti a sfera e un massiccio bozzello sono alcuni degli enigmi tecnici che ancora lasciano perplessi e stupiti gli archeologi, a testimonianza dell’ingegnosità romana. Si credeva che i cuscinetti a sfera fossero stati ideati da Leonardo da Vinci, e tuttavia i ritrovamenti nemorensi mostrano che tali principi fossero compresi, per lo meno a livello empirico, già da molto prima del XV secolo.

Frammenti di pavimenti a mosaico e in marmo sono emersi dagli scavi, insieme ad una miriade di frammenti di mosaici parietali e parti di un capitello, che decoravano l’edificio centrale del thalamegos; una coppia di riquadri marmorei con motivi geometrici sono l’unico elemento sopravvissuto che accennano all’esistenza di un edificio a prua su questa imbarcazione. I fusti di quattro colonne in marmo africano (giallastro con striature porpora) vennero ritrovate nei pressi della seconda Nave, quasi completamente intatti, oltre ad una base per una colonna di dimensioni eccezionali (oltre 60 cm di diametro).

Navi di Nemi - Colonne
Le colonne in marmo africano emerse durante gli scavi del 1929, presso il Museo delle Navi Romane di Nemi. Foto dell’autore.

Un numero consistente di pilastrini ad erme bifronti con altrettante barre orizzontali, originalmente parte di una balaustrata in bronzo, decoravano le impavesate di almeno una di queste navi. Un numero altrettanto consistente di tegole in rame dorato ricopriva i tetti degli edifici principali.

Per quanto a lungo rimasero in uso i galleggianti non possiamo dirlo con certezza. La nave tempio venne probabilmente saccheggiata e affondata dopo l’assassinio di Gaio Cesare nel 41 d.C., anche se potrebbe essere intercorso un periodo più o meno lungo che ne avrebbe permesso la spogliazione; al contrario, il thalamegos non fu affondato, ma risorse sotto Nerone, che ne fece uso demolendo il precedente edificio centrale e sostituendolo con una costruzione più elaborata e caratteristica del periodo.

Dopo il suicidio dell’ultimo Imperatore della dinastia Giulio-Claudia, la nave venne abbandonata e razziata sistematicamente di quanto si potesse riutilizzare e rivendere. Non ci è dato sapere come le imbarcazioni siano affondate. Nessun foro o segni di bruciatura sono stati trovati sugli scafi, e le ipotesi avanzate non sono decisamente convincenti né soddisfacenti. In particolare per il thalamegos, l’aver trascorso trent’anni in acqua, quasi certamente senza essere mai mosso, avrà lentamente logorato le strutture; umidità, infiltrazioni e la successiva incuria possono aver causato un lento ma costante accumulo di acqua di sentina che alla fine ha reclamato la nave.

Da quel momento nacque la leggenda delle navi sommerse, che portò tanti personaggi, illustri e non, a cercare di svelarne il segreto.

La prima notizia documentata che ci sia pervenuta risale al XV secolo: nel 1446 il cardinale Prospero Colonna, proprietario delle terre circostanti il lago di Nemi, chiese ad uno dei grandi architetti dell’epoca, Leon Battista Alberti, di effettuare un sopralluogo per smentire o confermare le voci tramandate dagli abitanti locali su tesori sommersi. I marangoni di Genova, chiamati apposta per l’occasione, usarono uncini fissati al relitto per tentarne il sollevamento; inutile dire che fallirono miseramente e l’impresa fu abbandonata. Ne trassero però preziosi frammenti: parte del fasciame proveniente dalla fiancata sinistra del thalamegos, e la meravigliosa ruota centellinata in bronzo, che decorava una delle prue, oggi esposta al Museo delle Navi Romane.

Navi di Nemi - ruota in bronzo
Ruota centellinata in bronzo, rivenuta durante le operazioni di scavo del XV secolo, presso il Museo delle Navi Romane. Foto dell’autore

Quasi un secolo dopo, nel 1535, il bolognese Francesco de Marchi segnò un primato sensazionale: grazie ad un ingegnoso macchinario inventato da Guglielmo di Lorena divenne il primo essere umano ad immergersi e rimanere sott’acqua per un periodo di tempo prolungato; ciò gli permise di trarre una gran quantità di legname dal relitto. La testimonianza di de Marchi è estremamente importante per un altro motivo: difatti egli riporta le colossali misure e la posizione della Nave nel lago, la quale è soggetto del grosso delle razzie nei secoli successivi.

Una di queste, compiuta nel 1827, portò alla luce reperti interessanti, elencati dal cavaliere Annesio Fusconi nel proprio opuscolo magnificamente intitolato “Memoria Archeologico-Idraulica sulla Nave dell’Imperator Tiberio”, il quale vendette poi detti reperti ai Musei Vaticani; tra questi vale la pena di notare uno strano oggetto metallico, non meglio identificato, che viene definito come il capitello di una colonna, due tondi di pavimenti in marmo, e un frammento di grata con un’epigrafe.

Navi di Nemi - epigrafe
Frammento di grata con epigrafe: “CAESARIS AVG GERMANIC”. Museo delle Navi Romane, Nemi. Foto dell’autore.

A seguito delle voci rinforzate dai ritrovamenti precedenti, nel 1895 fu il turno di un tale Eliseo Borghi, che fece scempio di entrambe le Navi estraendo una quantità immensa di legname, principalmente strutturale, come bagli e puntelli, e una spettacolare testa di Gorgone in bronzo, la quale diverrà indiscutibilmente il reperto più famoso e rappresentativo dell’impresa di recupero nemorense. Solo l’intervento dello Stato mise fine alle razzie, confiscando quanto già recuperato, ma purtroppo i legni, abbandonati a loro stessi senza protezione sulle rive del lago, vennero logorati e disintegrati dagli agenti atmosferici, causando la perdita di una importante fonte di studio che avrebbe permesso di comprendere più a fondo la struttura delle Navi.

Incaricato dai Ministri della Pubblica Istruzione e della Marina, il Tenente Colonnello del Genio Navale Vittorio Malfatti supervisionò i lavori di indagine di quanto fosse presente sul fondo e l’ideazione di un piano di recupero, ma questa venne pesantemente criticata all’epoca perché considerata troppo ambiziosa. Il piano prevedeva infatti lo svuotamento parziale del lago tramite l’antico emissario e riportare le Navi a terra senza doverle sollevare, che tra l’altro venne considerato (correttamente) impossibile, perché sommerse dal fango ed eccessivamente ingombranti per essere tirate in secco. La proposta perciò cadde su un pubblico sordo.

Pompe di svaso
20 ottobre 1928: Benito Mussolini, appoggiato alla balaustra e con il cappello in capo, circondato da altre personalità, osserva l’impianto idrovoro fornito dalla società Costruzioni Meccaniche Riva di Milano per lo svuotamento del lago di Nemi

Passarono due decenni. La storia delle Navi qui si intrecciò con il personaggio chiave che ne ha permesso il recupero: Guido Ucelli. All’epoca consigliere delegato della ditta Costruzioni Meccaniche Riva di Milano, Ucelli formò, insieme a due società locali, il Comitato Industriale per lo scoprimento delle Navi Nemorensi, mettendo a disposizione, di comune accordo, impianti e manodopera a spese delle ditte. Mecenate, umanista, ingegnere, Ucelli si fece portavoce e strenuo sostenitore del salvataggio delle grandiose opere, e più volte salvò il recupero dal fallimento e dall’abbandono, a partire dalle ostruzioni non previste, emerse dall’indagine dell’emissario, e dalle generali condizioni inferiori a quelle attese, che rischiarono di terminare i lavori prima ancora che iniziassero. La società allora si assunse anche questa difficoltosa operazione, e dopo quasi sei mesi, le pompe di svaso vennero finalmente avviate il 20 Ottobre 1928 dall’allora capo del governo, Mussolini.

Alla fine del 1929 la prima delle due Navi (il thalamegos) venne portata all’asciutto, ma quando questa non restituì i tesori favoleggiati e fantasticati inutilmente da giornalisti e divulgatori, dal governo arrivò l’ordine di interrompere l’opera col solo recupero della prima Nave e di abbandonare la seconda, già quasi completamente emersa.

Vorrei soffermarmi per un momento su una citazione dello stesso Ucelli, scritta in questo periodo: il quadro che dipinge è una delle immagini più vivide ed emotive che sottolinea l’unicità dell’impresa nemorense. Da “Le Navi Ritrovate – immagini e testi del recupero delle Navi romane del lago di Nemi” (2011, P. ):

<<La lunga odissea nemorense non è ancora alla fine: risorgono le antiche polemiche, e trascorrono mesi in discussioni, finché viene l’ordine di smontare le elettropompe e di abbandonare il prezioso cimelio.

Il lago aumenta man mano di livello, invade il campo di scavo, e riconquista la sua preda. Si scende alla riva per constatare i danni, ma lo scafo immenso, circondato dalle acque, sembra invece galleggiare e rianimarsi sul mobile gioco delle onde: visione prodigiosa che non potrà mai più ripetersi, e che si imprime per sempre nell’animo commosso. L’occhio non può soffermarsi sulle mutilazioni e sulle rovine causate dal tempo, e più dagli uomini; ma contempla, nella smagliante cornice di fronde e di fiori che adorna le sponde, il quadro più vivo dell’antichità classica, che si sia mai presentato. Sul tremulo bagliore dei flutti, sul lucido specchio di Diana, la nave imperiale di Roma, dalle linee severe e armoniose, risale il corso dei secoli e, nella divina solitudine e nell’arcano silenzio che il Nume ha gelosamente conservato, sembra una magica sopravvivenza: è realtà concreta e tangibile [1]>>.

Inaugurazione museo navi romane
Mussolini e Bottai all’inaugurazione del Museo delle Navi Romane.

Fu solo dopo lunghi e accesi dibattiti che, con il supporto e i finanziamenti messi a disposizione da Ucelli, anche la nave tempio poté essere finalmente salvata. Gli scafi vennero lentamente liberati dal fango scavando tutt’intorno e al di sotto delle Navi, sostenendole con un’imbracatura di alaggio su rotaie che ne permise lo spostamento fino a riva, dove vennero ricoverate nel Museo delle Navi Romane, progettato dall’architetto Vittorio Morpurgo e inaugurato nell’Aprile 1940. Sfortunatamente fu una permanenza breve: il 31 Maggio 1944 le Navi vennero distrutte da un incendio per coprire il furto del piombo che rivestiva gli scafi; e, contrariamente a quanto affermato al tempo, non furono le truppe tedesche ad incendiarle, in quanto non potevano trovarsi fisicamente sul posto essendosi già ritirate giorni prima.

Qualunque sia stata la causa e chiunque ne sia stato responsabile, quel che è certo è che quella notte andò perduto un patrimonio archeologico inestimabile, una tragedia che potrebbe essere paragonata al crollo del Colosseo.

Padiglione delle navi
Padiglione delle navi, Museo delle Navi Romane di Nemi. Foto dell’autore.

Ma cosa resta oggi delle Navi di Nemi? Sfortunatamente, non molto. La distruzione dei relitti e di una impressionante quantità di materiale recuperato in origine, tra cui marmi, colonne, mattoni, non aiuta nelle ipotesi di ricostruzione né può riempire il vuoto della perdita degli scafi. Fortunatamente, è possibile ammirare i meravigliosi bronzi con protomi animali conservati al Museo Nazionale Romano nella Capitale, mentre il Museo delle Navi Romane è stato restaurato nel dopoguerra, all’interno del quale sono oggi contenuti due modelli in scala 1:5, la ruota in bronzo recuperata dall’Alberti, e vari frammenti di mosaici, colonne e tegole, oltre ad un paio di bagli miracolosamente sopravvissuti all’incendio. Le dimensioni stesse delle sale e i reperti rimasti restano muti testimoni della storia straordinaria che ha permesso, seppur per breve tempo, di gettare uno sguardo oltre una finestra temporale di due millenni magnificamente preservata.

L’importanza delle Navi di Nemi non può essere sottovalutata. Le ragioni sono molte e complesse.

In primis sono i relitti antichi più grandi e completi mai recuperati [2], ma la loro importanza è ampliata dal contesto storico in cui vengono studiate: all’inizio degli Anni ’40 l’archeologia sottomarina e lo studio dell’architettura navale antica è ancora in fase di sviluppo e occorrerà molto tempo prima che tutto il materiale sia studiato e, a confronti avvenuti, si inizino a comprenderne le implicazioni. Non solo, ma le Navi di Nemi forniscono un gran numero di risposte alle domande tecniche degli archeologi, partendo dalla costruzione a guscio portante, secondo cui il fasciame esterno viene messo in opera e solo successivamente l’ossatura interna conferisce rigidità al tutto, passando per le giunzioni dei tavolati con biette e cavicchie, fino agli operatori geometrici riscontrati in varie costruzioni navali romane.

Di questa tecnica le navi di Gaio Cesare sono i primi e i più completi esempi mai scoperti, offrendo una finestra nella costruzione tradizionale romana, qui affiancata da soluzioni tecniche uniche per risolvere i problemi di compatibilità tra la parte navale ed edile. Si è integrato con gli elementi nautici una struttura composta da puntelli verticali, per sostenere i muri perimetrali, disposti lungo una serie di correnti longitudinali per tutta la lunghezza della nave; il tutto si potrebbe definire come un complesso sistema antisismico per compensare i movimenti dell’imbarcazione sottostante. Una piccola curiosità tecnica: sembra che gli ideatori del progetto non conoscessero, o abbiano consapevolmente deciso di non implementare, supporti diagonali nella costruzione, sia questa navale o edile. L’intero sistema è composto da travi orizzontali e puntelli verticali.

Ancora
Una delle ancore delle Navi di Nemi, custodita presso il Museo delle Navi Romane. Foto dell’autore.

E, a proposito di curiosità tecniche, come dimenticarsi delle colossali ancore, ciascuna di oltre 5 metri, ritrovate con i cavi di ormeggio ancora attaccati? L’ancora in ferro, in particolare, suscitò un certo scalpore quando venne dissotterrata, in quanto era dotata un ceppo mobile (il ceppo è la trave orizzontale posta in alto) ed era estremamente simile in forma e funzione alle Admiralty-pattern anchors, così chiamate perché brevettate dall’Ammiragliato inglese nel XVIII secolo. È chiaro che i Romani già conoscessero e utilizzassero principi simili, caduti poi in disuso e reinventati oltre un millennio dopo.

Sebbene non sarà mai possibile dare una risposta a tutte le domande che sovrastano le Navi di Nemi, le risposte che sono in grado di fornire vanno ben oltre quanto si fosse potuto immaginare prima e dopo il recupero.

Vorrei concludere con una notizia di attualità di cui si è parlato relativamente poco. Uno dei reperti recuperati nel 1895 da Eliseo Borghi, un rarissimo mosaico, intero e intatto, era misteriosamente scomparso nel dopoguerra. Nel 2017 viene rintracciato in una collezione privata di New York dai carabinieri, sequestrato e riportato in Italia. Dall’11 Marzo 2021 lo splendido reperto è finalmente ritornato in esposizione nel Museo delle Navi Romane, miracoloso sopravvissuto della storia travagliata delle Navi di Nemi.

E siccome qualcuno solleverà la domanda, permettetemi di spendere due parole sulla seguente questione: qualche anno fa si è parlato di una ricerca di una “terza Nave di Nemi”, e tanto si è pontificato e discorso inutilmente, che si è andata creando una tale confusione in cui è difficile distinguere le notizie vere da quelle false. Ebbene si, la Nave esiste. È stata fotografata e se ne conosce l’attuale posizione; no, non poteva essere stata vista durante gli scavi tra il ’29 e il ’32 perché è ancora quasi totalmente sepolta, e ad oggi non se ne conoscono le attuali dimensioni (del relitto) e lo stato di conservazione.

Non è certo che cosa sarà di questa Nave: purtroppo manca l’interesse per approfondire il problema.

Ma la storia delle navi nemorensi non finisce qui. Gli studi sono continuati anche dopo la distruzione dei reperti, e anzi hanno visto importanti sviluppi; ad oggi solo scritti possono essere presentati, ma è possibile che in un vicino futuro si potrà avere un quadro più accurato e realistico anche tramite la realizzazione di modelli in scala, viste le chiare difficoltà di realizzazione di una ricostruzione archeologica al vero. La mia speranza è che un giorno, grazie anche al forte interesse che da sempre suscitano le Navi, potranno essere esposte le ricostruzioni accurate per poter ridare una forma e un aspetto completo a ciò che sfortunatamente si è perduto.

 

Tommaso Balconi

 

[1]: G. Ucelli, “Le navi ritrovate. I testi e le immagini del recupero delle navi romane di Nemi”, 2011.

[2]: Fatta forse eccezione per la nave mercantile del IV sec. a.C. ritrovata nel 2018 nel Mar Nero e della Alkedo (Nave C) di Pisa, ritrovata negli Anni ’80, completa al 90%.

 

Bibliografia:

  • Un sogno ellenistico: le Navi di Nemi; Marco Bonino, 2003, Felici Editore
  • Argomenti di Architettura Navale Antica; Marco Bonino, 2005, Felici Editore
  • Evidence of Geometric Operators used to Shape Ancient Hulls, in ‘International Journal of Nautical Archaeology’; Marco Bonino, 2012, Wiley Blackwell Publishing
  • La Verità sulle Navi Romane del Lago di Nemi; Eliseo Borghi, 1901, Tipografia dell’Unione Cooperativa Editrice
  • Houseboating in Ancient Times: thalamegos, lusoriae, cubiculae and the Nemi ships as ancestors of nowadays floating houses trend, in ‘Nautical and Maritime Culture, from the Past to the Future’; Martina Callegaro, 2019, Editori Ernesto Fasano, Antonio Scamardella, Vittorio Bucci
  • Memoria Archeologico-Idraulica sulla Nave dell’Imperator Tiberio; Annesio Fusconi, 1839, Tipografia Giovanni Olivieri
  • Le Navi Romane del Lago di Nemi; Vittorio Malfatti, 1905, Officina Poligrafica Italiana
  • Della Barca di Trajano, in ‘Della Architettura Militare’; Francesco de Marchi, 1594
  • Le Navi di Nemi; Guido Ucelli, [1940] 1950, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato
  • Le Navi ritrovate: immagini e testi del recupero delle Navi romane del lago di Nemi; Guido Ucelli, 2011, Lampi di Stampa Edizioni [ristampa dell’edizione originale]