In questo articolo intendo occuparmi dei ripostigli monetali, o tesoretti, della provincia di Cremona, il primo territorio romanizzato a nord del Po. Il periodo considerato va dalle origini fino all’età del secondo triumvirato e ai primi anni del principato di Augusto, dopo il quale Cremona, forse ridimensionata nel suo ruolo di avamposto dall’estensione dell’Italia fino alle Alpi (cancellazione della provincia Cisalpina nel 42 a.C.), scompare sostanzialmente dall’attenzione delle fonti antiche; vi riappare drammaticamente solo per la distruzione nel 69 d.C. da parte dei soldati di Vespasiano, dalla quale, pur venendo ricostruita, non si sarebbe ripresa del tutto. L’intento è ricollegare i tesoretti al contesto storico e, quando possibile, archeologico, affinché le diverse discipline provino a illuminarsi a vicenda. Occorre però precisare preliminarmente che la provincia di Cremona attuale non corrisponde esattamente al territorio antico della città, l’ager Cremonensis, e perciò solo le località che ne facevano effettivamente parte potranno correttamente essere correlate alla sua storia[1]. In particolare, il suo limite meridionale era rappresentato dal Po, il limite orientale e in parte settentrionale dall’Oglio, il limite occidentale per un breve tratto dall’Adda e soprattutto dal corso d’acqua, oggi minore, del Serio morto, un po’ più a est del Serio; quanto alla parte settentrionale, priva di confini naturali, vi era una linea convenzionale che faceva all’incirca degli odierni comuni di Fiesco, Trigolo, Genivolta e Ticengo i limiti del territorio; la differenza principale rispetto all’attuale provincia è dunque la mancanza di gran parte del Cremasco, appartenente allora al territorio di Bergamo (Bergomum): quest’ultimo nella riorganizzazione augustea rientrerà nella Regio XI Transpadana, mentre Cremona e il suo territorio nella Regio X Venetia et Histria. Per la classificazione delle monete, i cataloghi di riferimento, se non diversamente segnalato, saranno il Roman Republican Coinage (RRC)[2] e il Roman Imperial Coinage (RIC)[3], rispettivamente per l’età repubblicana e augustea.
Il punto di partenza è una ricerca sul database online CHRR[4], che raccoglie i tesoretti romani repubblicani, basandosi sulla fondamentale opera di Crawford[5] (indicata negli studi numismatici con la sigla RRCH) e sulla bibliografia successiva. Ricercando la provincia di Cremona si hanno 7 risultati, nelle seguenti località: Pieve d’Olmi, Olmeneta, Ossolaro, Sergnano[6], Gallignano e due da Calvatone. Può sembrare strano che vengano tutti dal territorio e nessuno da Cremona stessa, ma ciò è spiegabile con la continuità di vita della città, che rende più difficile che qualcosa di prezioso resti abbandonato a lungo: anche i ritrovamenti di monete singole sono peraltro scarsi[7]. Occorre subito dire che Gallignano è un errore del database, come risulta dalla semplice lettura del titolo di un riferimento bibliografico[8]: non si tratta della frazione di Soncino, in provincia di Cremona, ma dell’omonima frazione di Ancona. Quanto a Sergnano, nel cremasco, il database si limita a citarlo, riferendosi a note personali inedite di Crawford, ma senza indicarne composizione né datazione, né bibliografia; sembrerebbe tuttavia, se si trattasse dello stesso, un tesoretto tardo, di “età barbarica”, da un contesto di sepolture[9]: dunque esterno ai limiti della nostra ricerca. Tale datazione tarda si accorderebbe bene con la vicinanza a Palazzo Pignano, uno dei pochi siti scavati sistematicamente nella provincia, che presenta un’importante villa tardoantica e un complesso paleocristiano.[10]
Eliminati dunque questi due tesoretti, restano da esaminare gli altri 5, tutti rientranti nell’ager antico della città. Purtroppo, trattandosi di vecchi ritrovamenti, le circostanze della scoperta e il preciso contesto archeologico restano oscuri, vigendo ancora al tempo una concezione della numismatica sostanzialmente antiquaria e collezionistica. Spesso, anzi, non si è nemmeno preservata l’integrità di questi gruppi monetali, poiché interessavano esclusivamente le singole monete, per completare le collezioni aggiungendo le emissioni mancanti o sostituendo quelle in cattivo stato: col risultato che i tesoretti finivano per disperdersi in tutto o in parte e la composizione originaria ci è nota solo quando ne sia stata fatta una catalogazione in precedenza. È comunque possibile tentare di ragionare dei fenomeni di tesaurizzazione, in quanto, se è vero che un singolo tesoretto può essere stato accumulato e non più recuperato per svariati motivi personali da parte del proprietario, sono anche ipotizzabili tendenze più generali, da mettere in relazione con la storia e l’archeologia del territorio.
Partiamo dunque dalla storia che, tuttavia, accanto a fasi ricche di informazioni, ne vede altre quasi del tutto oscure: ciò in parte dipende dalla perdita materiale delle fonti scritte, in parte, come un po’ per tutte le storie locali, dal fatto che i “riflettori” si accendano su Cremona solo quando le sue vicende abbiano una qualche rilevanza per quelle di Roma, come Stato centrale[11]. Non meno discontinue sono le conoscenze archeologiche, le quali, a parte le tre aree di Calvatone, Palazzo Pignano e Cremona stessa, non si fondano su scavi sistematici, ma su rinvenimenti occasionali legati a lavori agricoli o edilizi.
Nel 218 a.C., dopo una serie di vittorie contro le tribù galliche stanziate nella pianura Padana, Roma fonda due colonie latine molto vicine fra loro: Piacenza, a sud del Po, e Cremona a nord. In ciascuna di esse furono inviati 6000 coloni (da intendersi non come individui ma come famiglie). Si assicurava così il controllo del più grande fiume di Italia, confine naturale ma al tempo stesso via di comunicazione. La stretta connessione, anche funzionale, fra le due colonie, specie nelle prime fasi di vita, è ben sottolineata dalle fonti, tanto che la storiografia moderna parla di “colonie gemelle”. Sulla motivazione di queste fondazioni, le fonti insistono sulla funzione di baluardo difensivo delle terre a sud del Po, più saldamente in mano romana, contro gli attacchi gallici. Non sfuggì anche il momento della fondazione, ovvero il primo anno della guerra punica, poco prima che Annibale attraversasse le Alpi per invadere l’Italia. Se però alcuni autori antichi sottolineano solo la coincidenza cronologica, altri vi vedono anche una causalità, una funzione difensiva non solo rispetto ai Galli ma anche ai Cartaginesi. La seconda lettura è la più probabile, se non altro perché il Senato difficilmente avrà preso la decisione senza considerare le circostanze. Fatto sta che la seconda guerra punica mise fin da subito a dura prova la vita delle colonie e ne causò quasi la fine prima ancora di cominciare. Diverse tribù galliche, infatti, approfittarono della situazione per attaccare e saccheggiare i campi e assediare le città stesse. Negli anni si susseguirono diversi attacchi, prima dei Galli da soli, poi alleati coi Cartaginesi: molti fra i cittadini morirono, scapparono o furono fatti prigionieri e schiavi. Tuttavia le città resistettero e nel 209 a.C. ricevettero anche il pubblico ringraziamento dei consoli in Senato, per essersi mantenute fedeli a Roma. Nemmeno con la fine della guerra (202) finirono i guai, anzi nel 200 le truppe galliche, assieme al generale cartaginese Asdrubale rimasto in Italia, presero e saccheggiarono Piacenza, per poi passare all’assedio di Cremona, ma furono respinte dall’esercito romano in una battaglia nella quale morì lo stesso Asdrubale.

Solo la definitiva vittoria del console Cornelio Cetego contro i Galli Boi, Insubri e Cenomani pose fine agli attacchi, ma le due colonie erano devastate, soprattutto demograficamente. Per questo nel 190 a.C. il Senato decise di rafforzarle inviando 6000 nuovi coloni, ripartiti fra entrambe: una vera e propria nuova fondazione. Il rafforzamento di Cremona e Piacenza si pone nel contesto di un rilancio, dopo la pausa forzata, della romanizzazione della pianura Padana, con anche la fondazione di nuove colonie, come Bononia (Bologna) nel 189 a.C., Mutina (Modena) nel 183 e Aquileia nel 181. Nel 148 venne realizzata la via Postumia, una strada che collegava Genova ad Aquileia, attraverso parte dell’Appennino e la pianura Padana, e passava anche per Cremona, che si trovava all’incirca nel mezzo. La posizione lungo questa e altre vie di terra, nonché sul corso del Po, diede molta importanza a Cremona, per la quale tuttavia, fra il rafforzamento del 190 e il secondo triumvirato, siamo sostanzialmente privi di informazioni storiche, se non per ciò che riguarda il nord Italia nel suo insieme. Anche le testimonianze archeologiche nella città[12], più consistenti per l’età imperiale, sono per questo periodo piuttosto sporadiche, ma indicano l’esistenza di una committenza in grado di far realizzare opere artistiche di livello, probabilmente mobilitando artisti da Roma: è il caso ad esempio di un frammento di busto virile fittile del II secolo a.C., reimpiegato nel muro medievale di Palazzo Dati, in via Plasio, e proveniente forse da un edificio pubblico (un tempio?); analisi dell’argilla indicherebbero una produzione locale[13]. I resti di anfore rivelano grandi importazioni di vino dall’Oriente greco, che dovevano giungere risalendo il corso del Po. Ma Cremona, oltre a importare, era anche un centro produttivo che realizzava ceramica a vernice nera, la tipica ceramica da mensa romana in età repubblicana.[14]
Nel corso della guerra sociale fra Roma e gli Italici (91-88 a.C.), diverse colonie latine rimaste fedeli a Roma, fra cui Cremona, ottennero la cittadinanza romana nel 90 a.C., mentre l’anno successivo fu concessa la cittadinanza latina a tutti gli abitanti della Gallia Cisalpina, che non avevano preso parte alla ribellione; solo nel 49 tuttavia, per iniziativa dell’allora governatore Giulio Cesare, avrebbero ottenuto i pieni diritti politici con la cittadinanza romana, senza tuttavia che il territorio cessasse di essere una provincia.

Agli anni immediatamente successivi alla guerra sociale sembra datarsi il primo e più antico tesoretto che andiamo a considerare, l’RRCH 203 di Olmeneta, un comune situato nella parte centrale della provincia, circa 10,5 km a nord del capoluogo.[15] Esso fu scoperto casualmente nel 1879 all’interno di un recipiente, fu catalogato dal prof. Pizzi sulla base del Catalogo del Reale Museo di Antichità di Torino e fu acquistato dalla Reale Commissione per i Monumenti di Cremona, ma poi è andato disperso e oggi non se ne sa più nulla: i successivi cataloghi si sono dunque basati non sull’osservazione diretta, ma sulla catalogazione precedente. Era costituito da 408 monete argentee repubblicane, tutti denari. Di questi 15 erano del tipo dei denarii serrati, vale a dire con una dentellatura sul bordo, il cui scopo non è ancora del tutto chiarito: forse serviva a evitare la tosatura, forse a provare la bontà del metallo all’interno, forse a rendere più difficile l’opera dei falsari, o forse aveva solo un valore estetico[16]. Le monete presenti coprono un periodo piuttosto ampio, ma questo si riscontra spesso e non deve sorprendere, dato che anticamente non esisteva il fuoricorso e il metallo aveva comunque un valore intrinseco. I 3 esemplari più antichi sono di tipo RRC 44/45, di emittente anonimo e databile al 211 a.C. Riguardo ai più recenti, essi sono fondamentali per datare la chiusura del tesoretto, ovvero quando è stato raccolto o, nel caso si sia formato in più anni, quando si è smesso di rimpinguarlo: naturalmente, al momento della chiusura, anche questi esemplari più recenti potevano essere già vecchi di qualche anno, ma ragionevolmente non di molto. Secondo Crawford, la chiusura avverrebbe dopo il 100 a.C., che è la datazione di 3 esemplari del tipo RRC 327/1. Altri 3 esemplari più recenti furono da lui esclusi in quanto, distaccandosi di almeno un decennio, devono essergli sembrati estranei, e tuttavia sono riportati da Backendorf. Essi sono rispettivamente di tipo RRC 342/5b (90 a.C.), RRC 348/1 (87 a.C.) e RRC 352/1a (85 a.C.): quest’ultimo è usato da Backendorf per datare la chiusura. Si tratta di un’emissione di L. Iulius Bursio, della zecca di Roma, e presenta sul diritto una testa maschile rivolta a destra con gli attributi di Apollo, Mercurio e Nettuno, sul rovescio una quadriga rivolta a destra guidata dalla Vittoria, che tiene nella mano sinistra le briglie e nella destra una corona; sia diritto che rovescio hanno una cornice puntinata.

Ad Olmeneta non solo si ha notizia, oltre al tesoretto, di altri rinvenimenti archeologici (cosa che avviene – e in modo più consistente – anche a Calvatone), ma è l’unico dei casi qui considerati in cui i due tipi di rinvenimento siano fra loro correlati, sebbene la mancanza di documentazione non chiarisca come. Nell’Ottocento, in località Ca’ del Botto, furono ritrovati resti di una villa romana con una parte abitativa e una parte produttiva; fu in quell’occasione che quivi si rinvenne anche l’olletta con le monete. Saggi più recenti, fra il 1989 e il 1997, hanno datato la frequentazione dell’area fra l’età tardo-repubblicana e la prima età imperiale. Si sono anche individuate due fornaci, la più piccola delle quali non si sa per quali prodotti fosse utilizzata; la più grande invece, dalla bocca rettangolare e dalla camera di cottura ovale, serviva a cuocere mattoni.[17] Tale complesso residenziale-produttivo distava poco più di 1 km dalla strada Cremona-Brixia.[18]

Il fatto che il tesoretto si chiuda nell’85 a.C. e la villa prosegua la propria vita oltre, a mio avviso, può portare a due ipotesi: o la villa nasce posteriormente al tesoretto o, se parzialmente contemporanei, vi è stato un cambio di proprietà del terreno. Altrimenti non si capirebbe perché, dall’85 alla prima età imperiale, questo patrimonio non sia stato toccato, né dal possessore né dagli eredi. Riguardo alle motivazioni che hanno spinto alla tesaurizzazione prima e al mancato recupero poi, queste possono certamente dipendere da vicende individuali che non conosceremo mai, ma potrebbero anche legarsi al quadro storico. Purtroppo, come già detto, non si hanno per questo periodo notizie specifiche su Cremona. Ci si potrebbe però richiamare alle vicende storiche più generali e l’85 cade proprio negli anni della guerra civile tra i fautori di Mario e quelli di Silla (88-82 a.C.), che portò infine alla dittatura di quest’ultimo e all’eliminazione degli avversari tramite le liste di proscrizione. Sebbene il nostro territorio non sia direttamente interessato dagli eventi bellici, è normale che in un periodo di instabilità e incertezza si tenda a mettere da parte il denaro (se lo si ha), piuttosto che investirlo: lo stesso accade oggi anche se, in genere, ai tesoretti si sono sostituiti i conti correnti. Questo per quanto riguarda la formazione del tesoretto. Quanto al suo mancato recupero, può banalmente dipendere dalla morte naturale senza eredi del proprietario, ma non si possono nemmeno escludere fattori più violenti legati alla guerra o a regolamenti dei conti negli anni immediatamente successivi; del resto è possibile, anche se non accertato, che Cremona, come avverrà altre volte in seguito, appoggiasse la parte “sbagliata”, in quanto generalmente Mario aveva fra i suoi sostenitori proprio i nuovi cittadini romani, di cui Silla e gli aristocratici tentavano di ridimensionare il peso.

Il tesoretto successivo in ordine cronologico è l’RRCH 267 di Pieve d’Olmi, un comune posto circa 10 km a sud-est del capoluogo[19]. Esso fu rinvenuto nel 1877 nel campo detto Merone, di proprietà privata, e se ne ha notizia contestualmente alla scoperta di alcune sepolture romane nei campi di Pieve d’Olmi e di Straconcolo, frazione del comune confinante di Stagno Lombardo; tombe quasi subito rinterrate per permettere i lavori agricoli. Secondo Backendorf la descrizione delle circostanze del ritrovamento da parte dell’archeologo e numismatico Fiorelli potrebbe far pensare alla provenienza delle monete da una tomba, ma potrebbero anche provenire dall’area circostante. Il tesoretto è piuttosto piccolo, composto di 15 denari, 3 dei quali serrati. La moneta più antica è un denario del tipo RRC 231/1, databile al 138 a.C. La più recente è del 79 a.C., di tipo RRC 382/1b. Si tratta di un denario serrato, emesso dalla zecca di Roma sotto l’autorità di C. Naevius Balbus. Sul diritto presenta una testa di Venere rivolta a destra, che indossa un diadema, dai capelli avvolti attorno alla parte inferiore del diadema e ricadenti lungo la schiena, con l’orecchino a tre perline e la collana di perline; sul rovescio presenta una triga rivolta a destra guidata dalla Vittoria, che tiene le briglie con entrambe le mani; diritto e rovescio hanno una cornice puntinata.
Vorrei sottolineare come fra le 7 monete più antiche (138-109 a.C.) e le 8 più recenti (90-79 a.C.) vi sia un vuoto di 19 anni e, nonostante ciò, il raggruppamento sia stato considerato unitario: non mi sembra dunque vi fosse motivo, nel tesoretto di Olmeneta visto prima, per considerare estranee le 3 monete più recenti, come fanno Crawford e il catalogo online, e credo che giustamente siano invece state incluse da Backendorf.
Riguardo al contesto storico, il tesoretto potrebbe collocarsi in parte nell’ambito della guerra civile, come il precedente, per quanto riguarda la sua accumulazione. Ma la sua chiusura nel 79 non permette di spiegarne l’abbandono con questa guerra, né con le successive proscrizioni, dato che Silla si ritira a vita privata proprio in quell’anno. Ci si potrebbe allora richiamare alla rivolta di M. Emilio Lepido (78-77). Questi, anti-sillano, fu console nel 78 e, invece di recarsi nella provincia della Narbonense assegnatagli per l’anno successivo, si fermò in Etruria e ne fece sollevare la popolazione, che più di tutte era stata penalizzata dalle confische dell’ex dittatore. Un suo legato nel frattempo occupò la Gallia Cisalpina e probabilmente vi reclutò uomini. Come molte altre rivolte “popolari” anche questa fallì, ma ci interessa perché il possessore di questo tesoretto potrebbe essere stato un soldato partito e non più ritornato[20]. Ma si può anche pensare per il mancato recupero a una qualche motivazione non storica ma individuale che, nel caso di provenienza delle monete da una tomba, sarebbe il seppellimento stesso. Il contesto archeologico è invece purtroppo ignoto, a parte la notizia sulla scoperta delle tombe, e anche su RAPTOR non è segnalato alcun ritrovamento romano per Pieve d’Olmi, né nulla di rilevante, come una strada, nelle vicinanze.
Riprendendo il filo storico del discorso, per tornare ad avere notizie su Cremona, bisogna saltare agli anni successivi all’assassinio di Giulio Cesare nelle Idi di marzo del 44 a.C. Nel 43, dopo alcune vicende che qui non ci interessano direttamente, Ottaviano, nipote di Cesare, Marco Antonio, suo luogotenente, e Lepido, suo collaboratore ed ex comandante della cavalleria, formarono un triumvirato “rei publicae constituendae”, ovvero per riorganizzare lo Stato. Viene comunemente chiamato “secondo triumvirato” per distinguerlo dal primo, di Cesare, Pompeo e Crasso; il “primo” era tuttavia un accordo privato per spartirsi il potere, mentre il “secondo”, pur avendo nella sostanza lo stesso scopo, era una vera e propria magistratura creata per legge dal Senato. Fra i suoi primi obiettivi, il triumvirato ebbe quello di punire i cospiratori che avevano ucciso Cesare e per questo furono anche rispolverate le liste di proscrizione per eliminare gli avversari. I principali responsabili, tuttavia, in primis Bruto e Cassio, si erano già rifugiati in Oriente, dove avevano messo insieme un esercito. Ottaviano e Marco Antonio li raggiunsero con le proprie legioni e li sconfissero definitivamente nella battaglia di Filippi, in Macedonia (42 a.C.), dove Bruto e Cassio morirono suicidi. Nella successiva spartizione fra i triumviri di territori, ma anche di poteri, Ottaviano, rimasto in Italia, ebbe il compito piuttosto ingrato di assegnare terre ai veterani delle legioni vittoriose, in gran parte di Antonio. Poiché non ce n’erano abbastanza a disposizione, si procedette all’esproprio nei territori di 18 città designate, operazione che rovinò molti piccoli e medi proprietari e suscitò grande malcontento. Questo ci interessa particolarmente perché fra le città che subirono espropri vi fu certamente anche Cremona e il passaggio forzato di proprietà di un terreno può certamente essere una buona ragione per il mancato recupero, e dunque la riscoperta moderna, di un tesoretto nascosto dal vecchio proprietario nei burrascosi anni precedenti. Teniamo conto che, non essendo previsto come oggi un equo indennizzo, molti potrebbero aver provato a resistere all’esproprio ed esser stati costretti ad allontanarsi con la violenza. In effetti, due dei tesoretti che consideriamo sembrerebbero riferibili a questi fatti e agli strascichi degli anni successivi. Sui motivi per cui si sia scelta Cremona, se solo per la sua fertilità o per punirla di qualcosa, si è discusso molto, ma ci torneremo più avanti nel proporre un’interpretazione dei ripostigli.

Il primo tesoretto è l’RRCH 390 di Ossolaro, frazione del comune di Paderno Ponchielli, nella parte centrale della provincia, posta circa 9 km a nord-ovest del capoluogo[21]. Esso fu rinvenuto casualmente nel 1876 durante dei lavori agricoli nel campo Bosco Trecantoni, di proprietà Jacini. Era contenuto in un vaso di ceramica, che si ruppe al momento del ritrovamento. Originariamente era costituito da circa 2000 monete d’argento (3500 secondo Tomasoni e in RAPTOR), poi vendute e disperse fra i collezionisti privati. Una parte di esse fu tuttavia catalogata dallo stesso professor Pizzi che si occupò del tesoretto di Olmeneta, cui poi si rifecero le notizie pubblicate da Fiorelli. Sulla base di ciò, Backendorf, discostandosi leggermente da Crawford, conta 1526 monete, di cui 1524 denari e 2 quinari (mezzi denari). Fra i denari poi, secondo il catalogo online, 136 sono serrati. Le emissioni più antiche sono 7 denari di tipo RRC 44/45, databili al 211 a.C. Le più recenti sono 2 denari di tipo RRC 494/23, databili al 42 a.C. Questo tipo è emesso dalla zecca di Roma, sotto l’autorità di P. Clodius. Presenta sul diritto la testa di Apollo rivolta a destra, con una lira sullo sfondo; sul rovescio Diana stante frontalmente, con arco e faretra alle spalle e che tiene una fiaccola accesa in ciascuna mano; diritto e rovescio presentano una cornice puntinata. Le 2 monete di questo tipo vennero ritenute estranee da Crawford, in quanto, fra esse e quelle immediatamente più vecchie (del 45 a.C.), vi erano 2 anni di vuoto; Backendorf ritiene debole questa motivazione e infatti le include, indicando il 42 come anno di chiusura del tesoretto. Quest’anno, lo stesso della battaglia di Filippi, ben si accorderebbe con un abbandono in relazione alla confisca di terre che seguì nei due anni successivi. Del resto, anche una chiusura al 45 non porrebbe particolari problemi a questa interpretazione.
Da un punto di vista archeologico, al di là del fatto che non sia noto lo specifico contesto di rinvenimento, il territorio comunale si segnala soprattutto per alcune iscrizioni funerarie frammentarie ed altri elementi riferibili a monumenti funerari, oltre a vari affioramenti di materiali romani[22]. Non si trovano tuttavia pubblicazioni specifiche. A mio avviso l’aspetto più interessante è la vicinanza del luogo dove si trovava il tesoretto alla via Cremona-Mediolanum (meno di 700 m). In particolare, non si tratta della strada che collegava Milano e Cremona passando per Laus Pompeia (Lodi Vecchio), presente nella Tabula Peutingeriana, ma di un’altra via diretta, più recente e alternativa, non citata dalle fonti e dalla cartografia antica, ma ricostruita da varie evidenze[23]. La vicinanza ad una via romana l’abbiamo già notata per il tesoretto di Olmeneta e questo potrebbe far ipotizzare anche ad Ossolaro un qualche impianto produttivo connesso ad una villa, che si avvantaggiasse della strada per esportare i propri prodotti; un impianto forse più importante e remunerativo, almeno a giudicare dalla quantità di denaro rinvenuta.

Gli ultimi due tesoretti da trattare provengono da Calvatone, un comune al confine con la provincia di Mantova, 33,5 km circa a est di Cremona. A differenza dei luoghi di rinvenimento citati finora, su Calvatone si hanno moltissime informazioni archeologiche e pubblicazioni: si tratta infatti dell’antico insediamento di Bedriacum, noto per le due battaglie svoltesi nel 69 d.C., l’”anno dei quattro imperatori”. Di questo vicus, posto lungo la via Postumia, ho già parlato in un precedente articolo qui su Renovatio Imperii, cui rimando per saperne di più.
Passiamo ora a trattare dei due tesoretti repubblicani provenienti da Calvatone. Il primo, non essendo presente nel fondamentale catalogo di Crawford, è noto come “Calvatone 1911”, dall’anno della scoperta[24]. Esso fu ritrovato con modalità ignote in un campo di proprietà dei fratelli Simonazzi. Era costituito, presumibilmente, di 327 denari, che vennero sequestrati e consegnati al Gabinetto numismatico di Brera, a Milano. Proprio una legge di due anni prima, poi ripresa nella legislazione attualmente vigente, stabiliva infatti che qualsiasi bene archeologico rinvenuto nel Regno, anche in proprietà private, appartenesse allo Stato[25]. Tutte le monete, tranne una illeggibile, furono catalogate dal direttore Ricci, facendo riferimento all’opera di Babelon[26]. Secondo la prassi del tempo, come dicevamo nell’introduzione, non si preservò l’unitarietà del tesoretto, ma solo 42 monete furono trattenute nelle collezioni di Brera, scegliendo i tipi che non vi erano ancora rappresentati o che erano già presenti ma mal conservati: le restanti furono restituite ai proprietari del terreno e andarono disperse. Oggi solo per 12 di esse si è conservata l’indicazione di provenienza, mentre per altre 9 la si è ricostruita, essendo le uniche di quel tipo presenti nelle collezioni. Il tesoretto attualmente conservato consta dunque di 21 monete, e si trova nel Gabinetto Numismatico e Medagliere del Castello Sforzesco. Vismara ne ha effettuato il catalogo, provvedendo inoltre a una riattribuzione di tutte quelle presenti nel catalogo del Ricci, basandosi non più sui tipi di Babelon, ma su quelli oggi più in uso dell’RRC[27] e del RIC[28]. Fra i 326 denari leggibili, 19 dei quali serrati, l’emissione più antica (non conservata) è un denario di tipo RRC 204/1, databile al 152 a.C. Le più recenti sono un denario di tipo RIC 266, 2 di tipo RIC 267 e uno di tipo RIC 272, databili al 29-26 a.C. e di zecca italiana incerta (forse Brundisium). Il primo tipo, conservato, presenta sul diritto la testa nuda di Ottaviano rivolta a destra; sul rovescio un tempio con colonne alla base, Vittoria all’apice e guerrieri ai lati del tetto e con legenda IMP CAE; diritto e rovescio hanno il contorno lineare. Il secondo tipo, conservato in un solo esemplare, ha il diritto analogo al tipo precedente, mentre sul rovescio presenta un arco sormontato da una quadriga, su cui sta in piedi forse Ottaviano, e la legenda IMP CAE; il contorno è sempre lineare sul diritto e sul rovescio. Infine il terzo tipo, conservato, presenta sul diritto la testa laureata di Apollo, nume tutelare del princeps, rivolta a destra; sul rovescio Ottaviano, togato e velato, che conduce al giogo verso destra un bue e una giovenca e la legenda IMP CAESAR; il contorno è lineare sul diritto, perlinato sul rovescio.

Oltre alle monete più recenti, che chiudono il tesoretto al 29-26 a.C., vale qui la pena citarne anche alcune degli anni precedenti poiché, oltre alla zecca ufficiale di Roma, compaiono altre zecche, legate ai diversi protagonisti degli anni che seguirono l’uccisione di Cesare. Si tratta dunque di monete non urbane ma imperatorie, ovvero coniate dai generali per pagare i propri eserciti. È presente la zecca itinerante di Marco Bruto, uno dei capi della congiura, che sulle sue monete è definito imperator, nel significato repubblicano del termine, cioè di comandante dell’esercito. C’è poi la zecca siciliana di Sesto Pompeo, figlio di Gneo Pompeo Magno, il quale, dopo la battaglia di Filippi, era rimasto l’unico esponente importante del partito anti-cesariano; proprio nel 42, per boicottare il governo dei triumviri, occupò la Sicilia, bloccando il rifornimento di grano a Roma e compiendo vere e proprie azioni di pirateria contro le navi romane, venendo infine sconfitto solo nel 36 a Nauloco; il controllo del mare fu a lungo la sua forza e non a caso i tipi delle sue monete sottolineano il tema, tramite le raffigurazioni di Nettuno, del faro di Messina e del mostro marino Scilla, collocato dal mito nelle perigliose acque dello Stretto. Vi sono poi altre zecche itineranti, in particolare quella di Marco Antonio. Di quest’ultimo è particolarmente interessante, a mio avviso, la più vecchia delle monete conservate, di tipo RRC 528/3, databile al 39 a.C.: essa presenta sul diritto la testa di Marco Antonio stesso e sul rovescio quella di Ottaviano e testimonia un periodo ancora di apparente amicizia fra i due, che tuttavia si sarebbe presto logorata.
L’ultimo tesoretto è l’RRCH 434, noto in letteratura anche come Calvatone 1942[29]. In questo caso il 1942 non è l’anno della scoperta, che è ignoto, ma quello delle prime notizie su di esso. Il recupero dev’essere avvenuto qualche anno prima in circostanze oscure e, a seguito di un sequestro, dev’essere stato trasferito a Milano, dov’è attualmente conservato al Gabinetto Numismatico e Medagliere del Castello Sforzesco, al pari delle monete dell’altro tesoretto di Calvatone: in questo caso però si è mantenuta l’indicazione di provenienza. Questo tesoretto si differenzia dall’altro di Calvatone, e in generale da tutti quelli visti finora, per il fatto di essere misto, ovvero formato da monete sia d’argento che di rame/bronzo; è anche parecchio più esiguo del Calvatone 1911. È attualmente costituito da 16 monete, catalogate da Vismara. Le monete più antiche sono 8 assi repubblicani illeggibili, databili fra il 169 e il 145 a.C., uno dei quali dimezzato intenzionalmente. Segue un altro asse repubblicano illeggibile, databile forse dopo il 92 a.C., anch’esso dimezzato intenzionalmente.


Si hanno poi 2 denari databili al 46 a.C. (tipo RRC 464/2) e 2 databili al 45 (tipo RRC 472/1). Un asse di Ottaviano è forse databile al 36-35 a.C. e forse proveniente dalla zecca di Narbo, in Gallia. Il tipo non fa parte dei cataloghi di monete romane ed ha infatti come riferimento bibliografico la Silloge Nummorum Graecorum, nella sezione relativa alle civiche raccolte di Milano (SNGMil., 263-267)[30]. Anch’essa è spezzata in due, probabilmente non in modo intenzionale, data l’irregolarità della frattura e la diversità fra le due metà; il suo pessimo stato di conservazione rende dubbia l’appartenenza alla serie. Infine le due monete più recenti, che chiudono il tesoretto, sono due assi augustei, entrambi databili al 15 a.C. Il primo è del tipo RIC 382. Presenta sul diritto la testa di Augusto rivolta a destra, con contorno perlinato, e la legenda CAESAR AVGVSTVS TRIBVNIC POTEST. Vi è dunque il riferimento alla tribunicia potestas, un potere formalmente equivalente a quello del tribuno della plebe, che rendeva la persona dell’imperatore sacra e inviolabile. Sul rovescio, sempre dal contorno perlinato, vi è il nome del triumviro monetale Cn. Piso e la sigla SC. Il secondo asse è di tipo RIC 387 e differisce dal primo solo per il nome del triumviro sul rovescio: C. Plotius Rufus. Nella riforma monetale augustea (23 a.C.) era stata mantenuta la carica repubblicana dei triumviri monetali, che sovrintendevano alla zecca di Roma e per un certo tempo continueranno a firmare le monete (fino al 4 a.C. quelle in rame). Quanto alla sigla SC (Senatus Consultum), che dall’età augustea marca il rovescio delle monete in rame e leghe di rame, si ritiene debba essere riferita a una divisione, almeno formale, di competenze: al Senato appunto quella sulla monetazione enea, all’imperatore quella sulla monetazione in oro e argento[31].

La composizione del tesoretto riportata da Crawford è piuttosto diversa, in quanto vi attribuisce erroneamente alcuni denari in realtà appartenenti al Calvatone 1911 (che non conosce); inoltre indica come probabile, ma non certa, l’appartenenza dei 2 assi dimezzati e dei 2 augustei.
Riguardo all’interpretazione storica dei tesoretti di Calvatone, mi sono chiesto se anch’essi siano ipoteticamente ricollegabili in qualche modo alle riassegnazioni dei terreni cremonesi effettuate da Ottaviano, al pari del tesoretto di Ossolaro. Apparentemente la risposta è no per entrambi, in quanto le loro date di chiusura (29-26 e 15 a.C.) sono successive agli anni in cui avvennero gli espropri, il 41 e il 40. È però possibile che, oltre agli anni subito successivi alla battaglia di Filippi, vi sia stata almeno una seconda fase di espropri e riassegnazioni? Per rispondere bisogna tornare a un’altra questione che abbiamo lasciato in sospeso, ovvero se Cremona sia stata scelta solo per la fertilità del suo territorio o anche per altre motivazioni[32]. Indicativo in tal senso è un passo delle Bucoliche di Virgilio: “Mantua vae miserae nimium vicina Cremonae”, ovvero “Mantova, ahimé troppo vicina all’infelice Cremona”[33]. L’interpretazione comune è che il poeta mantovano, che subì personalmente la confisca delle proprietà, lamenti il fatto che Mantova, se pur incolpevole, sia stata coinvolta nel provvedimento riguardante Cremona, solo perché confinante e perché i terreni cremonesi non bastavano a sistemare tutti i veterani. Dunque sembra esserci stato un preciso intento di colpire Cremona. Sulle motivazioni del presunto odio di Ottaviano per questa colonia, si sono interrogati già i commentatori antichi di Virgilio, fornendo due diverse spiegazioni. Secondo Probo, essa era rimasta neutrale durante le guerre civili; secondo Servio e Donato, invece, aveva parteggiato per Antonio. Questa seconda interpretazione è però in genere considerata errata, perché pone un problema storiografico: nella battaglia di Filippi del 42 Ottaviano e Antonio non erano nemici, ma alleati contro i cesaricidi. Perciò, se anche Cremona avesse simpatizzato per Antonio, non avrebbe avuto senso punirla di ciò negli anni immediatamente successivi; tanto più che le terre espropriate andarono in gran parte ai veterani di Antonio. L’unico modo per salvare questa testimonianza è quello di ipotizzare una seconda ondata di espropri e riassegnazioni dopo le battaglie di Azio e di Alessandria (31-30 a.C.), quando effettivamente Ottaviano sconfisse Antonio, divenuto nel frattempo nemico. Naturalmente Virgilio non poteva riferirsi a queste presunte confische post-Azio, dato che le Bucoliche sono state scritte prima, ma il punto non è cosa intendesse il poeta: Servio e Donato, disponendo di fonti per noi perdute, potrebbero aver riferito nel commento un fatto storico reale, se pur citato a sproposito. La storiografia tende a scartare queste nuove riassegnazioni nel territorio cremonese o al massimo ad ammettere assegnazioni individuali ad alcuni veterani di lotti resisi vacanti, come indicherebbero anche alcune iscrizioni. A mio avviso, però, in questo ipotetico quadro storico ben si collocherebbe il tesoretto Calvatone 1911, che si chiude proprio negli anni successivi ad Azio; a sua volta il tesoretto diventa un elemento a favore dell’ipotesi, che si rafforzerebbe ulteriormente se ne venissero scoperti altri coevi. In sintesi, vi fu certamente un esproprio di terre cremonesi (e mantovane) nel 41-40 a.C., riassegnate ai veterani di Ottaviano e soprattutto di Antonio. La scelta di Cremona può esser stata solo utilitaristica o punitiva, in relazione alla neutralità durante lo scontro coi cesaricidi. Essendo la città ripopolata di molti veterani di Antonio, non è inverosimile che abbia parteggiato per questi durante gli scontri fra i due ex alleati. Infine, non credo nemmeno inverosimile che, divenuto Ottaviano padrone assoluto, vi sia stata una sorta di resa dei conti e che i veterani antoniani, salvo opportuno cambio di bandiera, abbiano perso le terre da poco ricevute, affinché venissero date ai sostenitori di Ottaviano o forse ai vecchi proprietari. E un cambio forzato di proprietà può ben spiegare l’abbandono del tesoretto Calvatone 1911.
Quanto al Calvatone 1942, invece, non penso sia ricollegabile a questo ipotetico contesto storico. Innanzitutto per la data di chiusura, il 15 a.C., che è troppo tarda per prospettare ancora un qualche legame con le guerre civili di fine repubblica. Inoltre, a differenza di tutti gli altri visti, non ha le caratteristiche di un ripostiglio di emergenza, in cui si cerchi di salvare i propri risparmi in tempi incerti, ma piuttosto quelle di un gruzzolo da utilizzare per le spese correnti. È infatti piuttosto piccolo e composto in maggioranza di monete di basso valore, due delle quali addirittura spezzate intenzionalmente, secondo una prassi diffusa, per ottenere dei divisionali. Doveva essere in sostanza il borsellino del proprietario e tale tipo di tesoretto può essere perso in molti modi diversi, senza doversi richiamare a spiegazioni storiche. È un peccato che non si conosca nulla sul suo ritrovamento che, se fosse invece avvenuto durante uno scavo archeologico, sarebbe stato forse indicativo della vita quotidiana del vicus, ad esempio indicando un’area di compravendite. Interessante è anche la presenza degli assi dimezzati: fenomeno comune nella tarda repubblica, in cui scarseggiava la moneta in rame, lo si ritiene in genere sostanzialmente concluso con la riforma augustea, quando fu messa in circolazione una massiccia quantità di queste monete, comprese le frazioni dell’asse, il semisse e soprattutto il quadrante[34]. Il problema è che in questo tesoretto le metà degli assi repubblicani non sono spaiate ma ricomponibili, dunque il dimezzamento non dev’essere stato molto risalente nel tempo, ma sembrerebbe avvenuto poco prima dello smarrimento, in piena età augustea. Dunque, sebbene i ritrovamenti monetari di Calvatone mostrino il rapido arrivo delle nuove monete di Augusto[35], potrebbe esserci stato un qualche attardamento del fenomeno di dimezzamento, o forse il proprietario del gruzzolo era un viaggiatore, proveniente da un’area più isolata e meno aggiornata.
Oltre ai 5 tesoretti ricavabili dal catalogo online, occorre dire per completezza che ne sono segnalati in letteratura altri 2: a Pescarolo e a Farfengo[36]. Il primo fu scoperto casualmente nel 1880 e constava di 450 denari repubblicani; il secondo, trovato sempre casualmente nel 1887, era costituito di circa 800 denari repubblicani. Purtroppo sono entrambi andati dispersi senza che ne venisse fatto il catalogo – si conoscono solo alcune delle famiglie dei magistrati monetali – perciò non se ne può indicare la datazione e sono praticamente inutili per la storia del territorio. Di ciò bisogna particolarmente dolersi, anche perché il contesto archeologico poteva essere interessante. Farfengo, infatti, frazione di Grumello Cremonese ed Uniti, è poco distante da Ossolaro (circa 6 km), di cui abbiamo parlato, e, come Ossolaro, vicino alla via per Milano. Inoltre sempre da Grumello viene un altro tesoretto, che è tuttavia molto più tardo, del III secolo d.C.[37] Per quanto riguarda Pescarolo, 14,5 km a nord-est di Cremona, è nota una villa che si trova sotto il santuario campestre di Santa Maria della Senigola, che in parte la ingloba e riutilizza. Essa fu frequentata a partire da fine I secolo a.C./inizio I d.C. e presentava alcuni pavimenti con decorazione musiva[38].
In conclusione, escludendo i tesoretti non databili e anche il più recente, per gli altri sembra una costante il raggruppamento cronologico attorno a periodi di guerra civile e instabilità politica e amministrativa, che ben giustificherebbero il loro accumulo e in parte anche l’abbandono. Secondo l’interpretazione generale di Crawford, infatti, l’abbondanza di tesoretti nell’Italia romana tardo-repubblicana va messa in relazione con la violenza del periodo: e non si deve pensare necessariamente a operazioni di guerra sul territorio, ma anche al reclutamento di soldati, molti dei quali nascondevano le proprie ricchezze prima di partire e non facevano ritorno[39]. Ma si tratta solo di ipotesi interpretative, mentre le vere spiegazioni possono dipendere da una serie di vicende individuali, la cui complessità possiamo solo immaginare.
Una vera costante è poi la vicinanza a importanti vie di comunicazione: la Cremona-Brixia per Olmeneta, la Cremona-Mediolanum per Ossolaro e Farfengo, la via Postumia e altre per Calvatone. Perfino Pieve d’Olmi, che abbiamo detto non esser vicina a nessuna strada, è comunque in prossimità del Po, anche se occorrerebbe verificare le modifiche nel tempo del suo alveo; analogamente Pescarolo si trova vicino all’Oglio. Evidentemente lungo le vie di comunicazione sorgevano le attività più redditizie e, più denaro era presente in una certa area, più è probabile che se ne trovi. Ma le distribuzioni numismatiche, come quelle archeologiche in generale, subiscono una certa distorsione a causa del carattere spesso casuale dei ritrovamenti e delle indagini non uniformemente distribuite. Non essendo possibile, soprattutto per ragioni di budget, indagare sistematicamente un territorio come la provincia di Cremona, per cercare di avere almeno un quadro sempre più chiaro sulle presenze e sulle assenze, è particolarmente importante sfruttare ogni occasione in cui si scavi la terra per altri motivi, e far dunque seguire le operazioni da un archeologo, in tutti i casi previsti dalla legge. E questo non perché un archeologo sia più in grado di riconoscere un tesoretto rispetto a una persona qualunque; ma perché, comprendendone il valore informativo oltre a quello venale, dovrebbe essere maggiormente motivato, oltre che obbligato, a consegnarlo. Come dissi, scherzando ma non troppo, a un operaio durante un’assistenza archeologica: “Non sono qui per trovare tesori: sono qui per trovarli prima di voi!”.
Filippo Molteni
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Note:
[1] Sui confini dell’ager Cremonensis si veda: TOZZI 1972, pp. 27-28; TOMASONI 1990, p. 129; TOZZI 2003 a, pp. 116-122.
[2] CRAWFORD 1974.
[3] SUTHERLAND 1984.
[4] LOCKYEAR 2013.
[5] CRAWFORD 1969 a.
[6] Impropriamente denominata “Cergnano”, ma poi correttamente indicata nella collocazione geografica.
[7] TOMASONI 1990, pp. 130-131, 137.
[8] MORETTI 1930.
[9] TOMASONI 1990, p. 134.
[10] PASSI PITCHER 2003, pp. 216-219.
[11] Sulle vicende storiche di Cremona e del suo territorio, cui si farà riferimenti, si veda: SANTANGELO 2017; TOZZI 2003 b; VERA 2003.
[12] Sulle testimonianze archeologiche repubblicane si veda SANTANGELO 2017, pp. 32-33.
[13] MASSEROLI 2001, pp. 115-116.
[14] GRASSI 2008.
[15] CRAWFORD 1969 a, p. 89; TOMASONI 1990, pp. 134-135, 141; BACKENDORF 1998, pp. 91-92; LOCKYEAR 2013.
[16] SAVIO 2014, pp. 118-120.
[17] PASSI PITCHER 2003, pp. 219-220.
[18] Secondo i dati del database online della Soprintendenza RAPTOR. Sulla strada, si veda TOZZI 2003 b, p. 248.
[19] CRAWFORD 1969 a, p. 99; BACKENDORF 1998, p. 100; LOCKYEAR 2013.
[20] PIGANIOL 1997, p.408; LANGINI 2017-2018, pp. 215, 245-246.
[21] CRAWFORD 1969 a, p. 117; TOMASONI 1990, pp. 135, 142; BACKENDORF 1998, pp. 92-93; LOCKYEAR 2013; RAPTOR.
[22] RAPTOR; PASSI PITCHER 2003, pp. 201, 223.
[23] RAPTOR; sulle vie per Milano si veda TOZZI 2003 b, pp. 249-251.
[24] VISMARA 1992 a; BACKENDORF 1998, p. 48; LOCKYEAR 2013; CRISÀ 2018, p. 22.
[25] Legge N° 304 del 20 giugno 1909.
[26] BABELON 1886.
[27] CRAWFORD 1974.
[28] SUTHERLAND 1984.
[29] CRAWFORD 1969 a, p. 124; VISMARA 1992 b; LOCKYEAR 2013; CRISÀ 2018.
[30] VISMARA 1988.
[31] SAVIO 2014, pp. 128-130, 151-152.
[32] Sugli espropri triumvirali si veda: TOZZI 2003 b, pp. 239-241; VERA 2003, pp. 274-279; SANTANGELO 2017, pp. 33-34.
[33] Verg., Ecl. 9.28. Traduzione in SANTANGELO 2017, p. 33.
[34] SAVIO 2014, pp. 156-161.
[35] CRISÀ 2018, p. 21.
[36] FENTI 1984; TOMASONI 1990, pp. 135, 141-142.
[37] TOMASONI 1990, pp. 135-136, 141.
[38] PASSI PITCHER 2003, pp. 214-215.
[39] CRAWFORD 1985, pp. 193-194; CRAWFORD 1969 b.