La guerra sociale

La guerra sociale

L’autore, Alberto Di Mattia, è laureato in Scienze Politiche, discutendo una tesi sulla “futuribilità del Soft Power applicato alle Relazioni Internazionali”. E’ membro dell’Istituto Ellenico della Diplomazia Culturale. Candidato Sindaco di Ascoli Piceno nel 2019, svolge ruoli attivi occupandosi di politiche giovanili e civiche. Presiede l’Associazione culturale Impero Mmxiv. Appassionato di Antichità ed universo Bizantino.

 

Quando si pensa al I° secolo avanti Cristo in chiave occidentale, il pensiero vola automaticamente ad un periodo storico simbolo di cambiamenti epocali nel mondo romano. La conquista della Gallia da parte del Divo Giulio, il bellum civile, l’acquisizione del ricco e fertile Egitto tolemaico, il triumvirato, l’agonia della Repubblica ed il passaggio definitivo al Principato sancito da Ottaviano.

Un fatto che spesso passa in secondo piano, ridotto ad un minimo trafiletto nei libri di scuola inserito giusto per riempire lo spazio tra la Roma dei Gracchi e la Restaurazione di Silla, è l’evento bellico conosciuto come Guerra Sociale, o Guerra Italica, nota anche, secondo alcune fonti[1] e nel mondo anglosassone, come Marsic War, poiché il popolo dei Marsi fu uno dei principali attori del conflitto[2] e uno degli ultimi a deporre le armi. Si svolse a partire dal 91 a.C. e si concluse nell’88, con strascichi che si protrassero fino all’87-86.

In questa epoca, in cui la principale contendente mediterranea di Roma era già caduta da tempo (fine delle guerre Puniche) e gli eventi della Graecia Capta erano già assodati, risulta difficile pensare che proprio sul suolo italico potesse svilupparsi un conflitto così distruttivo, in grado di mettere gli uni contro altri la Roma “centrale” ed i suoi Socii italici. Eppure il primo dei temi da analizzare per comprendere questo evento bellico è proprio il ruolo svolto dai Socii. Se guardiamo una classica cartina del 100 a.C. tutta l’Italia generalmente è compresa entro i colori e confini della Repubblica Romana, eppure, a solo qualche decennio di distanza dall’ascesa di Augusto, in Italia persisteva ancora una condizione sociale e politica che distingueva da secoli la popolazione in cittadini romani, latini e socii (alleati). Siamo abituati a concepire la tarda repubblica del I° secolo a.C. come uno stato organico già al proprio apice dal lato organizzativo e politico, considerando il lato sociale una proiezione della romanità latina su tutta la penisola. Eppure gli storici dell’epoca e le fonti classiche, per descrivere la guerra, utilizzarono nomi di popoli già assoggettati da secoli all’Urbe: lo fecero per una semplice e pratica funzione narrativa, ovvero dare i nomi geografici degli antichi popoli per meglio far comprendere gli avvenimenti oppure perché effettivamente permanevano, oltre che differenze politiche e sociali, delle differenze culturali? Ed è così che nel 91 a.C. sentiamo ancora parlare di Piceni, Sanniti, Vestini, Peligni, Marsi, Marrucini, Etruschi, Umbri ecc. Ma andiamo in ordine.

Nella Repubblica Romana vi erano differenze nel tipo di cittadinanza di cui ogni individuo poteva disporre all’interno dei confini romani. In primo luogo vi erano i cives romani optimo jure, vale a dire quei cittadini romani di pieno diritto, in secondo luogo vi erano i cittadini senza diritto di voto attivo e passivo, denominati sine suffragio; esistevano poi ancora i cittadini latini, ed in ultima istanza i Socii, vale a dire gli Alleati. La penisola dunque al tempo si divideva in zone che dipendevano dal potere centrale e in zone in cui i Socii disponevano di autonomia pur rispondendo a Roma.

Da un paio di secoli le popolazioni italiche, assoggettate all’Urbe, fornivano le migliori truppe per le legioni e le più qualitative risorse finanziarie delle elevate tasse, contribuendo con il proprio sacrificio alla vittoria della Lupa ad ogni angolo del Mediterraneo. Agli inizi del nuovo secolo la situazione era ormai insostenibile per le popolazioni italiche che, sempre più latinizzate e romanizzate (alfabeto, lingua e cultura tendevano ormai alla quasi egemonia totale nell’Italia dal Rubicone in giù) e nonostante la loro attiva partecipazione alle imprese di Roma, si vedevano non riconosciuti, sostanzialmente, ne bottino, ne divisioni di terre, e soprattutto ancora nessuna rappresentanza politica.

Personaggio centrale all’inizio di questa vicenda è Marcus Livius Drusus, Tribuno della Plebe nel 91 a.C. che con le sua azione accelerò i venti di cambiamento (e tempesta) che spiravano sulla penisola. Lo legavano inoltre all’aristocrazia dei soci italici notevoli amicizie come quella con il capo dei Marsi Quintus Poppaedius Silo. Dunque Drusus propose all’Assemblea romana tre riforme giudicate fondamentali: una nuova distribuzione territoriale tra le classi meno abbienti, la riassegnazione di una percentuale preponderante dei seggi nelle giurie al Senato ed, in ultimo, il conferimento della cittadinanza romana piena (optimo jure) a tutti gli italici liberi[3]. La proposta non piacque a nessuno, dai Senatori ai Cavalieri. Nell’autunno di quello stesso anno seguaci estremisti di Lucius Marcius Philippus diedero mandato ad un sicario per assassinare Drusus. Subito dopo l’Italia fu in armi contro Roma.

Si diede via ad intense ambascerie tra i popoli del centro e del sud della penisola. Avvennero scambi di ostaggi in segno di fedeltà alla parola data di impugnare le armi per ottenere tramite la spada quello che il Senato ancora non voleva concedere. La scintilla che fece divampare la Guerra Sociale avvenne ad Asculum[4], città principale del Picenum[5]. Venuti a conoscenza di scambi di ostaggi e di una ribellione civile che di giorno in giorno rischiava di esplodere, vennero inviati in città il pretore Quintus Servilius Cepionis ed il legato Fonteio, con il compito di rimproverare ed ammonire la popolazione, diffidandola dallo sfidare il Senato e di tornare a più miti passi. L’ambasciata romana venne trucidata seduta stante nel teatro di Asculum, tutti i romani in città vennero uccisi[6]. Fu il segnale che la rivolta era cominciata. Gli italici riuniti designarono Corfiunium[7] come loro capitale per la neonata Lega Italica, avente per scopo non più il raggiungimento della cittadinanza ma la vera ribellione contro la Repubblica, ponendo come obiettivo il sovvertimento dello Stato, mirando ad un cambio di rotta nel controllo del potere, sino a quel momento esclusivo appannaggio delle elite romane. La prima reazione di Roma fu la proclamazione della Lex Varia, un atto vendicativo promosso dall’ala conservatrice nei confronti dei progressisti che si erano schierati a favore dell’estensione della cittadinanza: di fatti con la nuova leggere varata si perseguitavano coloro che si erano dimostrati favorevoli o collaboranti con le richieste degli italici.

I confederati crearono due teatri delle operazioni: quello del centro Italia e medio-adriatico, riunito sotto il comando del marso Quintus Poppaedius Silo, era formato dai Piceni, Marsi, Peligni, Vestini e Marrucini; mentre il teatro dell’Italia meridionale fu affidato al sannita Gaavis Paapiís Mutíl, e vedeva schierati in armi i Frentani, i Sanniti, gli Apuli, i Lucani ed i Campani. Ambigua per tutta la durata della guerra rimase la linea tenuta da Etruschi ed Umbri, mentre i Greci del meridione e delle isole si mantennero fuori e disinteressati dalla contesa. Le prime sorti della campagna arrisero agli italici, che forti delle prime vittorie si dotarono di un proprio Senato e coniarono anche monete proprie, effigiate con la scritta ITA – ITALIA raffiguranti un toro (antichissimo simbolo dei popoli della penisola) nell’atto di incornare la lupa romana. L’esercito confederato comprendeva secondo le fonti circa centomila uomini, mentre le legioni (da poco riformate[8]) di stanza in Italia o nelle immediate vicinanze al momento dello scoppio delle ostilità si attestavano sulla disponibilità di dieci legioni, e per pareggiare le forze in campo ne arruolarono subito altre dieci seguendo il metodo di reclutamento imposto da Gaius Marius. Bisogna notare con molta attenzione, per comprendere l’entità, il valore e l’importanza di questa guerra, che come detto i soldati italici da secoli combattevano con Roma e per Roma, si sentivano latini e romani quanto i cittadini già dotati di cittadinanza e, quindi, è importante tenere a mente che combattevano secondo lo stesso uso e tradizione romana, inquadrandosi in legioni, combattendo con gladium, scutum e pilum. Forse anche grazie a questo si spiegano le fulminee mosse iniziali che portarono a vittorie lampanti dei ribelli contro l’impreparata Repubblica colpita nel proprio cuore. Poppaedius Silo a nord e Papio Mutilo a sud prevedevano come piano una convergenza verso il Lazio e l’accerchiamento dell’Urbe. A loro il Senato contrappose le sue massime autorità, i consoli Publio Rutilo Lupo a nord e Lucio Giulio Cesare a sud.

Dalle fonti storiche, che pongono molto l’accento sulle vicende del teatro settentrionale del medio-adriatico, si possono azzardare ipotesi speculative su come il blocco nord degli italici fosse impostato come armata da campagna e quella sud da contenimento. Ad avvalorare questa teoria sono i fatti che accaddero nel primo anno di guerra, e che videro grossi scontri nel Picenum: qui il legatus Gnaeus Pompeius Strabo (padre del futuro Pompeius Magnus) subì una grande sconfitta e dovette riparare a Firmum[9], dove venne assediato per lunghi mesi; mentre più a sud i Romani del console Rutilio (morto nello scontro) ed il suo legato Gaius Marius vennero sbaragliati nella battaglia del fiume Turano. La guerra si trascinò dunque con piccole battaglie campali che non cambiarono gli equilibri, tranne qualche città del meridione che passò in mano italica, sino a quando nel 90 a.C. Gnaeus Pompeius Strabo, forte dei rinforzi giunti, riuscì a rompere l’assedio di Firmum, ribaltando la situazione e ponendo sotto assedio Asculum, principale centro del blocco settentrionale. Qui nel Picenum si svolse la più grande battaglia del Bellum Sociale, e la città, nonostante la resistenza del comandante locale Gaius Vidacilius, cadde. Le legioni inglobarono un ingente bottino, con il risultato strategico che il fronte nord era crollato e le legioni si potevano dirigere a sud per ricongiungersi con le altre, segnando il punto di svolta della guerra a favore di Roma. Nonostante nella Marsica fosse caduto anche l’altro console Lucius Porcius Cato, la situazione del meridione fu risollevata dal temibile Silla.

Si giunse all’anno 89 avanti Cristo con le forze romane che incalzavano gli italici, ma entrambe le fazioni erano disperatamente esauste e l’Italia era in macerie. Lo sforzo bellico era costato sino quel momento, secondo le fonti, trecentomila vittime. Bloccati in una fase di stallo non più sostenibile, il Senato romano sfoderò il proprio Soft Power ante-litteram e vara una legge che consentì ai popoli non ribellati, e soprattutto agli italici che avessero deposto le armi, di poter ottenere l’agognata e piena cittadinanza romana. La mossa politica riuscì, incrinando il morale del fronte italico. La Lex Plautia Papiria divise i rivoltosi. Da quel momento, poco a poco, gli italici abbandonarono le armi. Roma aveva dovuto spendere ingenti risorse militari per sedare la più rischiosa rivolta che aveva fronteggiato sino a quel momento, ma la vittoria militare fu raggiunta; sul fronte dei Socii italici anche l’obiettivo era raggiunto e la vittoria politica era innegabile.

Nonostante inizialmente gli italici vennero inseriti in nuove tribù romane, e quindi non in grado di influire effettivamente nella vita politica romana, la situazione si pacificò. Da quel momento l’Urbe e l’Italia avrebbero potuto guardare in maniera comune e condivisa al futuro dell’imminente Impero, condividendo la penisola che proprio Augusto, l’iniziatore del Principato, organizzò e denominò ufficialmente Italia.

Alberto Di Mattia

 

Note:

[1] Diodoro siculo bellum marsicum.
[2] La guerra dei Marsi – James Fantauzzi.
[3] Storia di Roma – Indro Montanelli.
[4] Odierna Ascoli Piceno, Marche.
[5] Picenum: regione storica dell’areale di interesse dei Piceni, comprendente la totalità delle attuali marche e le province nord Abruzzesi.
[6] Velleio Patercolo.
[7] Odierna Corfinio, oggi in provincia de L’Aquila.
[8] Gaio Mario, riforma militare del 107-104 a.C.
[9] Odierna Fermo, Marche.