Perché in realtà Roma non ha mai “attaccato la Grecia”

Perché in realtà Roma non ha mai “attaccato la Grecia”

Quando si parla del complesso rapporto tra Greci e Romani – che pur visse una sorta di odi et amo catulliano – spesso si cade nell’errore di credere che ci sia stata una sorta di aggressione unilaterale da parte dei Romani nei confronti di una fantomatica Grecia unita, complice forse la celeberrima massima oraziana del Graecia capta ferum victorem cepit, ovvero la Grecia conquistata conquistò il selvaggio conquistatore, un aforisma tanto celebre quanto iperbolico. Va innanzitutto sgombrato il campo dal concetto erroneo che ai tempi vi fosse una Grecia unita, così come vi è oggi, e che la “conquista” della Grecia sia stata un processo uniforme e breve voluto dai Romani perché, svegliatisi di buon umore una mattinata, abbiano programmato l’annessione.

Vero è, in realtà, che quanto appena asserito (cioè che non sia vero che i Romani si alzassero al mattino decidendo chi annettere mentre gli altri se ne stavano per i fatti loro) sia estendibile ad una grossa parte dei conflitti in cui Roma s’è trovata invischiata, come per esempio coi Cartaginesi, coi Celti, con le varie potenze anatoliche, ove in vero si è trovata aggredita più che aggressore: purtroppo, questa concezione dei Romani “conquistatori della prima ora e gli altri brava gente” è figlia forse di un certo fenomeno squisitamente moderno, quello del revisionismo storico, che benché tanti benefici rechi quando condotto accademicamente dagli “addetti ai lavori”, giacché tante nuove scoperte adduce alla conoscenza ed al sapere, tuttavia tanti malefici reca quando scivola pericolosamente nelle mani dei non addetti ai lavori, specialmente tra quanti, inclini ad un certo politicamente corretto, tendano a mitizzare le ragioni dei vinti contro quelle dei vincitori, sul modello di un infondato dualismo eroi della resistenza-imperialisti aggressori. La storia insegna ben altro, si scopre per esempio andando a ritroso negli eventi che in molte circostanze furono i nemici di Roma ad aggredirla per primi ma, onde evitare di scrivere un trattato, ci concentreremo sulla tematica di cui il titolo, ovvero di come si arrivi all’aggressione della Grecia (o meglio, di una parte di questa) e soprattutto del perché.

La prima guerra Illirica

Partiamo dal principio, narrando sommariamente i fatti della prima guerra illirica (230-229 a.C.): continui atti di pirateria danneggiavano non poco i commerci di Roma ed i rifornimenti di numerosi beni. Certi che si trattasse di una sorta di “pirateria organizzata” allestita dalla regina degli Illiri, Teuta, il senato inviò un’ambasceria presso la stessa, nella speranza di acquisire informazioni. Furono ben accolti da calorose pugnalate, indi uccisi sul posto, verso la fine del 230 a.C.

La massima “ambasciator non porta pena”, come intuirete, è antichissima, e presso gli stessi Romani la sua violazione era considerata un atto profondamente sacrilego nonché come una dichiarazione di guerra: pertanto i consoli Lucio Postumio Albino e Gneo Fulvio Centumalo, divisisi il primo la flotta e l’altro le legioni, misero a ferro e fuoco l’Illiria facendo capitolare la spregiudicata regina nel giro di pochi mesi nel 229 a.C. L’Illiria divenne un regno cliente romano e, quale sovrano, fu posto Pinnes, il figlio di Teuta. Ma de facto, l’amministrazione del regno venne diretta dal greco Demetrio, governatore dell’isola di Faro che, durante la guerra, aveva voltato le spalle a Teuta per peronare la causa romana, cui fece fornire il supporto di numerose città. I Romani lo ricompensarono affidandogli l’incarico di far da consigliere a Pinnes.

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In giallo i domini illirici alla morte di Re Agro (231 a.C.), predecessore di Teuta, presumibilmente alla loro massima estensione. Nell’entroterra ed a settentrione, lungo le coste dalmatiche, altre popolazioni illiriche regnavano probabilmente in forme oligarchiche e tribali, non centralizzate sotto un unico regno, ma in qualche modo assoggettate ad Agro prima e Teuta poi, considerando che si sa di una loro ribellione ai tempi di Genzio (180 a.C.)

La seconda guerra illirica ed i suoi antefatti

Passarono otto anni, siamo nel 221 a.C.: Roma sta faticosamente liberando l’Etruria dalla presenza dei Celti, in cui s’erano da tempo insediati. Annibale, del cui genio s’è già detto altrove, sfoggiando la solita scaltrezza e informato da una potente rete di spie aveva saputo quanto Roma stesse faticando in questa impresa, e ne aveva approfittato per occupare l’Iberia.

Ed ecco che, clamorosamente, Demetrio di Faro, consigliere plenipotenziario de facto autonomo, decise di cambiar fazione: consapevole pure lui del momento di difficoltà di Roma, iniziò ad intrallazzare con il re di Macedonia (FATE ATTENZIONE, ECCO CHE ENTRANO IN GIOCO I GRECI!) Antigone III Dosone, fornendogli aiuto militare contro il re di Sparta Cleomene III in cambio di un futuro soccorso militare macedone contro i Romani.

Come s’è detto, Demetrio sapeva quanto Roma fosse impegnata contro i Galli cisalpini, quindi iniziò a saccheggiare e razziare le città dell’Illiria fedeli a Roma. Nel 219 a.C., prima che l’escalation con Annibale crescesse, Roma organizzò una spedizione punitiva ai danni del fedifrago Demetrio, chiudendo la partita in meno di un mese. I Macedoni non intervennero al fianco degli Illiri, poiché erano sorte delle ostilità al seguito di alcuni saccheggi sui territori epiroti nel cui tentativo di risoluzione, tra l’altro, perse la vita proprio Antigono III Dosone. Ciononostante, accolsero come rifugiato politico Demetrio: malgrado le ripetute richieste di consegna da parte dei Romani, i Macedoni risposero sempre con un sonoro due di picche.

Il sovrano Pinnes fu riconfermato, affiancato questa volta da un fidato (per i Romani) Illirio, chiamato Scerdilaidas. Si chiuse così ciò che la storiografia chiama col nome di seconda guerra illirica.

Tra seconda guerra punica e prima guerra macedonica

Siamo nel 215 a.C., in piena seconda guerra punica. Annibale ha vinto sul Trebbia (218 a.C.), sul Trasimeno (217 a.C.) ed ora anche a Canne. Egemone sull’Italia, ha stretto Roma in una morsa letale, togliendogli il supporto dei socii italici e giungendo ad un passo dall’impresa. D’accordo col solito Demetrio di Faro, Filippo V di Macedonia si mise in contatto con Annibale, nel tentativo di siglare un patto di mutuo soccorso: obiettivo comune, i Romani. Ad Annibale sarebbe spettata l’egemonia sulla penisola italica, a Filippo quella sui domini epiroti mentre Demetrio sarebbe diventato sovrano di un’Illiria indipendente. Fortuna volle che la flotta romana intercettasse gli ambasciatori Macedoni sulla via del ritorno in Puglia, venendo a conoscenza di tutto quanto.

Nell’estate del 214 a.C. si ebbe il primo confronto “greco-romano”: iniziava l’offensiva di Filippo sul regno cliente d’Illiria. I Romani, intrappolati nella morsa annibalica, dovettero spremersi come agrumi per allestire una flotta da inviare contro Filippo per contrastarne l’avanzata: la Repubblica si trovò a vivere probabilmente la fase più difficile della sua intera storia, ad un passo dalla fuoriuscita degli annali. Ma è nei momenti di difficoltà che emerge tutta l’audacia di un popolo destinato ad essere eterno: consapevole che sola non sarebbe andata avanti a lungo, iniziò nel 212 a.C. un lungo e complesso lavoro diplomatico avente come scopo la ricerca di alleati nello stesso panorama greco, affidando l’onere all’eroico propretore Marco Valerio Levino.

È qui che si ebbe la prima ingerenza romana nel mondo greco e, come potete vedere, la realtà è molto lontana dalla vulgata “Roma imperialista”, nell’accezione dispregiativa moderna. Furono i Macedoni “a cominciare”, a mettersi contro Roma, la quale pur dovette difendersi come stava appunto facendo.

Il propretore, con solerzia, conquistò la fiducia della caparbia Lega Etolica, costituitasi sin dal IV secolo a.C. in funzione antimacedone per l’indipendenza delle poleis etoliche. Levino, sotto mentite spoglie per non farsi scoprire dai Macedoni, riuscì a raggiungere nel 211 a.C. il luogo in cui si teneva l’assemblea panetolica e, parlando agli Etoli, promise loro l’Acarniana. I cittadini Etoli provenienti dalle varie poleis misero ai voti l’alleanza con Roma, la maggioranza fu favorevole. Quindi, nel giro di pochi mesi, grazie all’intercessione etolica, Roma riuscì a siglare un accordo anche con gli Elei, gli Spartani, la Messenia, Rodi nonché con Attalo re di Pergamo e Pleurato di Tracia, tutti antimacedoni.

Seguirono per ben 6 anni numerose scaramucce poco significative, tanto combattute nell’Ellade quanto per mare, che videro alterne vittore. A livello territoriale, si pervenne, nel 205 a.C., con la pace di Fenice, ad una sorta di status quo ante bellum, non fosse per alcuni piccoli territori illirici che passavano formalmente sotto la sfera di influenza della Macedonia ma a vincolo esplicativo del Senato: si concluse così la cosiddetta prima guerra macedonica (214-205 a.C.).

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La situazione che la mappa presenta al 200 a.C. è all’incirca la stessa che si presenta tra la seconda guerra punica e la prima macedonica. I numerosi scontri avutisi durante le lunghe quattro guerre dei diadochi portarono il regno macedone a dover concedere l’indipendenza alle più vivaci e dinamiche polis elleniche, tra cui Sparta ed Atene.

Verso la seconda guerra macedonica

La pace durò poco, nello stesso anno morì il sovrano tolemaico e Filippo V si accordò segretamente con Antioco III il Grande dell’impero seleucide per spartirsi le zone d’influenza: a quest’ultimo i territori anatolici e levantini storicamente sotto la protezione dei tolemaici, al primo il dominio sull’egeo.

Nel 201 a.C. la guerra venne portata al regno di Pergamo e a Rodi, alleati dei Romani, che li chiamarono in guerra: Roma aveva da un anno concluso la guerra contro Annibale, ma ne era uscita con le ossa rotte. Una guerra in quel momento era fortemente sconsigliata, sicché pensò di parlamentare con i Macedoni: inviò dapprima un’ambasceria per chiedere loro di smettere di attaccare Atene, di non attaccare nessun altra città greca e di mandare a Pergamo i danni delle incursioni e dei devastamenti. Filippo V rifiutò ogni richiesta e nel 200 a.C. la guerra fu inevitabile.

Il console Flaminio, a capo della spedizione, sbarcò in Grecia dichiarandosi filoelleno e alla ricerca di nuovi alleati, promettendo la libertà per la Grecia: riuscì così ad ottenere il supporto convinto di alcune polis della Lega Achea, che defezionarono dalla Macedonia dopo secoli di alleanza nella speranza che Roma concedesse loro la libertà dei tempi d’oro antecedenti l’ascesa di Filippo II di Macedonia, libertà che nessun greco dalla Beozia in giù aveva mai smesso di desiderare. Con un pizzico di fortuna (ritardo del posizionamento da parte degli alleati sui fianchi) le legioni Romane riuscirono a sbaragliare la falange macedone nel 197 a.C., nei pressi di Cinocefale.

Filippo V fu costretto a ritirare l’esercito dalle regioni della Grecia centro meridionale ed a considerare cessato ogni rapporto tributario o vassallatico. Ai giochi istmici del 196 a.C. un acclamato Flaminio salutò la folla panellenica, eccitata per quella che sarebbe stata l’alba di una nuova Grecia libera. Tuttavia però, mentre la guerra aveva avuto luogo, nulla aveva impedito all’ambizioso Antioco III il Grande di riuscire pressoché indisturbato ad estendersi sui possedimenti tolemaici in Asia Minore, arrivando a sottrarre il controllo della Caria, della Licia e della Lidia. Il Regno d’Egitto rischiava seriamente di venire annesso all’impero seleucide, data la debolezza in cui si ritrovava: a Tolomeo V Eucaristo non rimaneva che allearsi con Roma, inviando una delegazione al Senato, accolta favorevolmente.

Le insidie non sono finite: la guerra laconica in contemporanea alla seconda macedonica

Parentesi cronologicamente breve ma ricca di eventi che merita comunque d’essere citata è quella costituita dalla cosiddetta Guerra Laconica, o guerra di Nabide: è il caso di presentare quale fosse il quadro generale della la città di Sparta. È bene dire subito che questa si trovava ormai lontana anni luce dal modello stereotipato del film 300 e dell’immaginario comune. L’antico assetto costituzionale di Licurgo era superato da tempo, basti pensare che per un lustro durante le fasi finali delle guerre dei diadochi, Sparta fu addirittura trasformata in repubblica. Anche quando venne ripristinata la monarchia ormai il rigido schema diarchico di un re agiade ed uno euripontide risultava appannaggio di un passato melanconico: furono unici monarchi o tiranni usurpatori a guidare la più ammirata delle città-stato.

Questo re ambizioso, Nabide, usurpato il potere nel 207 a.C., dapprima firmò l’accordo coi Romani ma, agendo poi con fare non poco ambiguo, conquistò la Messenia che pur era alleata romana (si ricordi che la Messenia fu schiavizzata dagli Spartani intorno all’VIII secolo a.C. fino al IV a.C quando, con l’ascesa dei Macedoni di Filippo ed Alessandro cui Sparta si mostrò ostile, le fu ridonata la libertà dopo aver sconfitto i Lacedemoni). Oltre alla Messenia, Nabide provò altresì ad inglobare Argo, altro antagonista storico degli Spartani su cui però, a differenza dei Messeni, non era storicamente mai riuscita a spuntarla definitivamente.

Siamo nel pieno della seconda guerra macedonica, intorno al 199 a.C., quando Nabide provò nell’impresa storica di assoggettare l’indomita città: si mise in contatto con Filippo V di Macedonia dicendogli che, se gli avesse consegnato la città, in cambio egli sarebbe passato dalla parte macedone. Filippo V accettò e Sparta prese il controllo di Argo per poi, nel 198 a.C., ritornare clamorosamente con i Romani compreso che il vento fosse dalla loro parte.

Nabide si rese fautore di quella che fu la riforma più stravolgente dell’intera storia spartana, seconda soltanto alla traumatica introduzione del denaro a cavallo tra la seconda guerra persiana e la guerra del Peloponneso: egli, infatti, per sopperire alla mancanza di cittadini spartani (e quindi di guerrieri) logorati da secoli e secoli di guerre, decise di concedere in mogli le vedove degli spartiati a molti iloti, i celeberrimi schiavi spartani, che divennero ex abrupto cittadini a pieno titolo. Fu la fine di un’era. I progetti dell’ambiguo usurpatore atti a ridonare splendore antico a Sparta risultarono, sebbene innovatori nei modi, del tutto anacronistici rispetto al corso della storia: dovette scontrarsi infatti con la realtà nel 195 a.C. quando, a ormai due anni dalla fine delle ostilità del secondo conflitto macedonico, la Lega Achea comunicò a Roma la volontà che la città di Argo ritornasse autonoma e si sottraesse al dominio spartano, in quanto era paradossale che tra alleati ci fossero occupati e occupanti. Si tenne un consiglio panellenico, alla presenza di tutti i principali attori, anche quelli sconfitti da Roma: Regno di Macedonia, Lega Achea, Lega Etolica, Regno di Pergamo, Rodi, Tessali. Erano tutti favorevoli alla guerra contro Sparta, fuorché gli Etoli che, tra l’altro, ricordarono ai Romani che fosse passato un anno da quando avevano promesso che se ne sarebbero andati, mentre invece erano ancora lì. Alla fine fu guerra. Sparta, nonostante fosse riuscita a trovare degli alleati tra i Cretesi, fu assediata da Roma ed i suoi alleati, guidati dal console Flaminio: furono distrutte le mura e l’usurpatore avventuriero costretto a fuggire. La Messenia fu liberata nuovamente, così come Argo, ma a Nabide fu concesso di rimanere sul trono di Sparta, secondo un copione di concessione di clementia non nuovo nella storia di Roma. Ai Giochi Nemei del 194 a.C. Flaminio rinnovò il messaggio alle comunità panelleniche salutandole come libere e, effettivamente, mantenne la parola data due anni prima, ritirando le legioni e ponendo fine (per ora) ai brontolii degli Etoli.

Prime instabilità: l’insofferenza degli Etoli e lo scoppio della guerra romano-siriaca

Tuttavia però, qualcosa iniziava ad incrinarsi: gli Etoli non avevano tollerato quel ritardo di due anni, né che Roma avesse dichiarato guerra a Sparta. I primi grandi alleati greci di Roma stavano iniziando a cambiare parere, ritenendo che Roma si fosse troppo addentrata nelle dinamiche elleniche e che fosse divenuta de facto egemone. Presero quindi nel 192 a.C. a sollecitare Nabide affinché ricostituisse un esercito ed una flotta, contravvenendo agli accordi stipulati tre anni prima. Gli Achei chiesero aiuto al senato romano, preoccupati che Etoli e Spartani potessero minacciare nuovamente alcuni membri della propria Lega. Roma inviò soltanto una flotta al sostegno degli Achei, e piuttosto pensò di spedire numerose ambascerie per trovare una pace che non implicasse nuovi scontri. Gli Achei non pazientarono e fecero da soli, attaccando Sparta. Nabide fu ucciso a tradimento da un generale Etolico, a capo di una spedizione che avrebbe in realtà dovuto aiutarlo contro gli Achei: ciò perché gli Etoli avevano un piano, di cui dopo si dirà. Al 188 a.C. la Lega Achea aveva inglobato a sé tutto il territorio peloponnesiaco, Sparta inclusa.

Ma i conflitti con le tramanti realtà greche erano tutto fuorché destinati ad essere risolti: come abbiamo detto, Antioco III era riuscito nei suoi intenti espansivi ai danni dei tolemaici e delle realtà autonome in Asia Minore. Nel 196 a.C. Lampsaco, città amica e vicina al Regno di Pergamo, aveva chiesto aiuto ai Romani spaventata dalle mire espansionistiche di Antioco III il Grande. Roma aveva inviato una delegazione nella capitale seleucide, chiedendo la fine delle ostilità contro ogni città libera della Grecia e dell’Asia Minore, nonché di restituire a Tolomeo V Eucaristo i suoi legittimi possedimenti. Antioco III, quasi provocatoriamente, aveva chiesto un trattato d’amicizia a Roma, ovviamente senza impegnarsi alle rinunce imposte da Roma. Lapidaria la risposta del Senato: se Antioco concederà libertà ed indipendenza ai Greci dell’Asia minore, e si terrà fuori dall’Europa, egli potrà essere godere dell’amicizia del senato e del popolo romano.

Non se ne fece nulla. La Lega Etolica, come accennato, aveva da tempo iniziato a contestare molte decisioni romane, come quella di intervenire contro Sparta: aveva così, nel 192 a.C., formalmente dichiarato la disponibilità ad un accordo con Antioco III. Aveva inoltre tentato di sobillare la rivolta in molte polis alleate di Roma, quali Calcide, Sparta come sopra detto, Demetriade, Corinto: Sparta fu presa con l’inganno, assassinato Nabide (ecco perché lo fecero!); Demetriade e Calcide avevano scelto di rimanere fedeli agli accordi con Roma, finendo quindi per essere assalite dagli Etoli e – da lì a poco – dall’arrivo delle armate seleucidi, consigliate da un indomito Annibale, da tempo ormai alla corte di Antioco dopo esser riuscito a fuggire all’epilogo della seconda guerra punica.

La guerra entrò nel vivo nel 191 a.C., proseguendo per tre lunghi anni. Sarebbe interessante analizzare anche lo svolgimento delle varie battaglie e le ragioni tattiche e strategiche che consentirono ai Romani di avere la meglio, ma non finiremmo più. Ci limiteremo a dire che la Guerra romano-siriaca iniziata nel 192 a.C. si concluse con la pace di Apamea nel 188 a.C. in cui i Siriaci furono costretti a rinunciare a tutti i possedimenti tracici e microasiatici, che vennero liberati e costituiti in piccoli stati locali, in parte posti sotto la clientela di Pergamo ed in parte sotto quella del Senato romano. Anche Rodi, essendo amica al Regno di Pergamo ed avendolo seguito nell’amicizia con Roma, poté godere di nuovi territori, come quelli della Caria, concessigli da Roma come ringraziamento per il supporto.

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Nel 192 a.C. alla vigilia dello scoppio del conflitto tra l’impero seleucide e la Repubblica di Roma (guerra romano-siriaca) questa era la situazione: come potete notare rispetto alla precedente immagine, Antioco III il Grande si era espanso ai danni del Regno di Pergamo ed aveva trovato solido sostegno presso i Traci, nonché tra gli Etoli che voltarono le spalle all’Urbe. Roma aveva guadagnato il supporto di Rodi e degli Achei oltreché, con la forza, quello macedone.
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Alla pace di Apamea del 188 i possedimenti seleucidi in Asia Minore risultano sciolti come neve al sole, finendo sotto l’egida di Pergamo e di Roma. I Rodi in verde ottennero il controllo di Caria e Lycia.

Il rancore di Perseo: la Macedonia non si arrende, comincia la terza guerra macedonica

Nel 179 a.C. Perseo succedette a suo padre Filippo V al trono macedone. Formalmente, come primo atto, mandò emissari a Roma per rinnovare gli accordi di amicizia col Senato ma, sotto sotto, si mosse in senso decisamente ambiguo: sposò Laodicea la figlia di Seleuco IV Filopatore, successore di Antioco il Grande. Comprenderete, alla luce di quanto dettoci circa il precedente conflitto, che non doveva risultare proprio una mossa negli interessi dell’amicizia con Roma!

Intraprese relazioni diplomatiche con alcune polis della Lega Achea tanto quanto con alcune della Lega Etolica, cosa altrettanto ambigua in quanto teoricamente ambedue già alleati tra loro e con Roma. Iniziò a muovere anche l’esercito verso i confini tracici, contravvenendo (e qui concretamente, non in modo aleatorio) alla pace di Apamea che ne vietava la mobilitazione senza la consultazione col Senato.

Nel 172 a.C. Eumene II di Pergamo decise allora di mandare degli emissari in Senato al fine di denunciare tutto quanto. Inoltre, Eumene II sosteneva che ci fosse il suo zampino dietro i disordini in Illiria che stavano dando da anni grattacapi ai Romani: asseriva che stesse fomentando le popolazioni sarmatiche ed illiriche contro il governo romano dell’Illiria. I Romani, confermando la loro decantata razionalità, temperanza e gravità quanto si trattava di deliberare, non sembrarono prendere molto sul serio le denunce di Eumene, le reputarono prive di fondamenti, benché avrebbero potuto avere tutti gli interessi per fingere di credergli ed avviare pretestuosamente le ostilità contro i Macedoni.

Malgrado ciò, Roma si dovette ricredere sulla veridicità delle parole pergamee quando, verso la fine dello stesso anno, mentre si trovava a Delfi per consultare la Pizia, alcuni sicari attentarono alla vita di Eumene, senza riuscirvi: fu chiaro che molti indizi costituivano una prova!

Nel 171 a.C. Roma accusò formalmente Perseo del fallito attentato e di cospirare contro la Repubblica, avendo violato parte degli accordi di Apamea. Gli dichiararono guerra e, clamorosamente, né la Bitinia (al cui re aveva Perseo dato in sposa la figlia) né l’impero seleucide del suo genero risposero alla chiamata alle armi. Roma dovette iniziare ad essere davvero temuta! A schierarsi invece sorprendentemente al suo fianco, ad ulteriore riprova della fondatezza delle parole di Eumene, furono alcune polis della Lega Etolica, il Re Illirio Genzio, che si ribellò quindi al protettorato romano, nonché il Re dei Traci Kotys VI.

Uno sconsolato “ve l’avevo detto io!” pronunciato da Eumene verso i Romani pare di sentirlo sin qui!

Tralasciando lo svolgimento della guerra, non oggetto di questa indagine, la stessa si concluse nel 168 a.C. con una sonora sconfitta macedone: la Macedonia fu smembrata in quattro repubbliche aventi come capitali Anfipoli, Tessalonica, Pella e Herakleia Lynkestis, rette dalle aristocrazie locali e poste nuovamente sotto la protezione di Roma.

Contrariamente a quanto accaduto sinora, la clementia dei Romani e la loro patientia parvero davvero esaurite, al seguito di tutte quelle trame, di quei cambiamenti repentini, di alleati che si trasformavano in nemici per poi ritornare sui propri passi. Questa volta Roma fu costretta a drastici provvedimenti per scoraggiare questo modo di fare costantemente incoerente e irrispettoso delle alleanze prese e della parola data. Fu così che più di centocinquantamila cittadini provenienti dalle polis etoliche ed epirote che avevano tradito furono ridotti in schiavitù e venduti, mentre altri furono condotti ai giochi gladiatorii. Rodi, che aveva goduto dell’amicizia di Roma come precedentemente detto per guadagnare egemonia ed il controllo della Caria, aveva tentennato e prestato scarso supporto ai Romani: allora il Senato costituì un porto franco presso Delo e riuscì a togliere una grossa fetta del commercio a Rodi. Lo stesso Regno di Pergamo, amico di lunga data e che in questa circostanza tanto aveva voluto la guerra, fu accusato di non aver fornito il giusto supporto durante la guerra, quindi come punizione alcuni territori affidatigli vennero sottratti e posti sotto la diretta egida di Roma.

Questo cliché si ripeterà più volte nella storia di Roma: gli alleati onorati e rispettati, i traditori perdonati. Ma, per i perseveranti al tradimento, erano riservate punizioni esemplari, con schiavizzazioni di massa, città rase al suolo, talvolta perfino genocidi: era il prezzo richiesto a quanti calpestassero la clementia.

Grande vincitore di questa guerra fu il console Lucio Emilio Paolo, che ottenne il trionfo a Roma ed il soprannome di Macedonicus. Perseo e la sua famiglia furono costretti ad esibirsi in catene durante la processione trionfale di Emilio Paolo, come da consuetudine durante i trionfi. Alla fine della manifestazione, fu posto agli arresti domiciliari ad Alba Fucens e visse lì fino alla sua morte insieme alla sua famiglia. Sono ancora visibili al museo archeologico di Delfi i frammenti del monumento che Emilio Paolo fece erigere in loco per celebrare la sua vittoria su Perseo, dopo aver fatto demolire la statua che il figlio di Filippo V aveva fatto erigere in suo onore.

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Questa mappa esplica in modo molto chiaro lo scenario geopolitico alla fine della terza guerra macedonica: la spazientita Roma, era stata costretta a sottrarre dai Rodi e da Pergamo quei territori al sud dell’Anatolia che vedete in viola. Illiria (di cui si dirà tra poco), Macedonia, Epiro e Tessaglia divise in repubbliche e posto sotto il controllo di Roma. In bianco le polis greche centro-meridionali cui Emilio Paolo, mantenendo la promessa, aveva concesso l’indipendenza. Erano tutte ovviamente alleate di Roma.
Il regno numida era alleato sin dai tempi della battaglia di Zama, dell’alleanza con Pergamo e l’Egitto s’è detto. Anche i Seleucidi, vinti dai Romani, ne divennero poi formalmente alleati.

Il tradimento di Genzio viene punito con la terza guerra illirica

Sempre nel 168 a.C., mentre avevano luogo le ultime manovre belliche contro Perseo condotte dal brillante console Lucio Emilio Paolo, il suo collega Ancio Gallo era invece alle prese con il traditore Genzio Re d’Illiria, il quale aveva in quel periodo rotto l’alleanza con Perseo al seguito di un mancato pagamento: la guerra si risolse in meno di trenta giorni, Genzio messo alle strette si arrese presso Scorda ai Romani, il console Gallo ottenne analogamente al suo omologo il trionfo portando in processione un Genzio in catene. Il Regno di Illiria fu abolito e rimpiazzato con quattro repubbliche, esattamente come avvenne in Macedonia, poste sotto la protezione di Roma e rette dalle aristocrazie locali.

La fine dell’indipendenza macedone alla fine della quarta guerra macedonica

Nel 149 a.C. un macedone di umili origini di nome Andrisco, insediandosi nella debolezza politica delle quattro repubbliche e nel serpeggiante malcontento e risentimento per l’umiliante condizione imposta dai Romani, riuscì ad aizzare tanto le masse quanto le grandi aristocrazie ed a farsi incoronare Re col nome di Filippo VI, al cui atto riunificò le repubbliche in un unico regno. L’usurpatore, complice anche l’usura cui fece ricorso e la crudeltà con cui amministrò il Regno, si rese subito alieno alle simpatie e agli entusiasmi inizialmente raccolti presso il popolo macedone: molti smisero di sostenerlo concretamente.

L’anno successivo fu semplice al console Quinto Cecilio Metello vincere definitivamente il fantomatico Filippo VI, seguito non più che da un disparato manipolo di ribelli.

A questo punto, i Romani, onde evitare l’ennesima guerra macedonica, pensarono di ridurre definitivamente l’intera Macedonia in provincia, ponendo fine ad ogni altra futura velleità: del regno fondato dal mitico Carano nell’VIII secolo a.C. rimaneva ormai un nostalgico ricordo. L’Epiro e la Tessaglia furono incluse nella provincia.

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148 a.C., viene istituita la Provincia di Macedonia, direttamente controllata da Roma mediante un proconsole o un propretore, annualmente nominato dal Senato. Anche l’Epiro, la Locride e la Tessaglia ne facevano parte.

I tafferugli intraellenici portano alla distruzione di Corinto

Nel 150 a.C., mentre Andrisco si preparava per il gran colpo, imperversavano con forza le beghe campaniliste che avevano visto contrapposte le realtà achee, beotiche, attiche, euboiche in quel protagonismo affascinante che era stata la storia della Grecia arcaica e classica (IX secolo – IV secolo a.C.) e che mai si erano spente nemmeno durante l’ascesa di Filippo e di suo figlio Alessandro Magno, che avevano avuto prosieguo persino durante le avventure dei diadochi e che erano state terreno fertile, come visto sinora, dell’intervento romano nell’Ellade in funzione antimacedone. Tali beghe continuavano imperterrite quando Metello si preparava a fronteggiare lo pseudo Filippo VI.

Praticamente la gloria mundi transitava, passavano i regni, si susseguivano gli eventi, ma non c’era modo di spegnere le rivalità tra Sparta ed Atene, tra Argo e Sparta, e tra le varie grandi polis egemoni e protagoniste della storia ellenica.

Nel 150 a.C., come dicevo, a capo della Lega Achea c’era lo spartano Menalcida. Egli veniva in quell’anno accusato di esser stato corrotto dagli Ateniesi per confermare che fossero legittime le pretese ateniesi sulla polis Oropo. In breve vi fu una crescente escalation di tensioni che portò gli Achei ad invadere il Peloponneso. Roma aveva invitato a mantenere la calma in attesa che un’apposita commissione costituita ad hoc, composta da giuristi ed esperti, giungesse in Grecia e facesse luce sulle vicende. L’appello fu invano: infatti, gli Achei invasero la Laconia e ne occuparono una parte. Menalcida, osteggiato dagli stessi cittadini spartani che l’accusavano di aver causato quei casini, decise di suicidarsi.

Dopo attente valutazioni, la commissione romana decretò che avessero ragione gli Spartani ed intimò la Lega Achea a rimuovere i presidi militari da Corinto, Orcomeno, Argo e dalla Laconia Spartana.

I Corinzi ne furono profondamente risentiti ed elessero alla strategia del 146 a.C. un cittadino profondamente antiromano, Critolao. Egli persuase Focesi, Eubei e Beoti a defezionare da Roma per unirsi alla sua causa. Entro la fine dell’anno, le forze congiunte del propretore Quinto Cecilio Metello e del console Lucio Mummio, ivi da poco arrivato, vinsero la coalizione antiromana.

La Lega Achea fu sciolta, le mura delle polis focesi, eubee e beotiche unitesi ai Corinzi furono distrutte. La stessa città di Corinto fu rasa al suolo dal console Lucio Mummio che ottenne il soprannome di Acaius. Di queste polis insorte, furono abolite le costituzioni e create di nuove di stampo oligarchico e funzionali al controllo da parte di Roma. L’Eubea e il territorio adiacente Corinto divennero parte dell’ager publicus romano. Furono vietati i matrimoni tra le maggiori famiglie di queste polis. Furono gravate da tributi maggiorati, cosa che favorì l’emigrazione verso le città che si erano invece tenute fedeli a Roma.

Epilogo: considerazioni sul rapporto Grecia-Roma e sulle letture ideologiche

A conclusione di questa lunga ed intensa trattazione, possiamo asserire dunque con forza che la tesi posta a titolo di questa indagine, “Roma non ha mai attaccato la Grecia”, è confermata se a questa frase vuol significare un’aggressione espansiva voluta da Roma per annettere nuovi territori. Roma si è trovata coinvolta nella politica greca per ragioni prettamente difensive, nel momento di sua maggiore difficoltà, con Annibale ad un passo dalla vittoria: quei 69 lunghi anni che vanno fino alla distruzione di Corinto sono conseguenza diretta del connubio antiromano orchestrato da Demetrio e Filippo V nel 221 a.C. Tutto ciò che viene dopo, fino alla riduzione della Macedonia in provincia, non può essere letto in maniera estrinseca da quel principio: perché è soltanto nei princìpi che si trova la ragione delle cose.

E Roma, in questo lungo ballo da cui è uscita ballerina più brava, è stata tirata da chi aveva intenzione di umiliarla perché riteneva non sarebbe stata in grado, sapendo che le facesse male il piede.

Ancora una volta, insomma, l’analisi dettagliata degli eventi risulta essere il miglior modo per mettere a tacere le letture ideologiche di quanti vogliano accodarsi all’acritica vulgata che tanto ama applicare il moderno concetto di imperialismo alla Roma del tempo. Questa tesi, repetita iuvant, è smentita dall’analisi stessa degli eventi.

Infatti, nella fattispecie, la narrazione di una presunta civiltà semibarbara che va ad insediarsi in un mitizzato mondo che vive di sola cultura e pacifismo risulta assolutamente priva di fondamento. Niente di più lontano dalla realtà. Al contrario, ci è sembrato di vedere lo sfoggio di una grande e stoica clemenza da parte di Roma, malgrado gli spergiuri con cui le varie polis ed i vari regni ellenistici, di volta in volta, si son rimangiati le parole, violando gli accordi, facendo e disfacendo tutto ed il contrario di tutto.

 

Michele Zabatta

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