Ianuario del cinquecentotrentaseiesimo anno dalla fondazione dell’Urbe (Gennaio 217 a.C.), Roma, comizi centuriati: c’è da eleggere i consoli per l’anno venturo. Roma ha vissuto comizi migliori, gli animi non sono mai stati così gelidi ed il freddo, in questo caso, c’entra poco: il bilancio dell’anno volto a termine è stato disastroso, la disfatta nei pressi del Ticino e nella battaglia del Trebbia aveva causato la morte di circa ventimila uomini tra i cittadini romani ed i soci italici.
Ad aver determinato tali nefasti esiti è stato inopinabilmente il genio d’Annibale, il quale diede sfoggi della propria sagacia financo “nella tana del lupo”, vincendo due volte i Romani in Italia nelle succitate battaglie a distanza di un mese dalla discesa dalle Alpi.
Ma per l’assemblea senatoria il genio punico non è condizione sufficiente per la determinazione di quegli esiti, per l’assemblea pesano, come macigni, gli errori tattici e valutativi dei due consoli in carica fino al dicembre precedente (218 a.C.): Tiberio Sempronio Longo, di origine plebea, e Publio Cornelio Scipione, padre dell’“Africano”.
Del secondo venne criticata l’impudenza con cui, al Ticino, s’era inavvertitamente lanciato con la propria cavalleria per esplorare il campo nemico, sottovalutandone le pericolosità e facendo perdere la vita a circa due migliaia di uomini tra giovani cavalieri patrizi, cavalieri galli (che disertarono in favore di Annibale proprio a causa di tale sconfitta) e frombolieri.
Del primo venne criticata l’avventatezza, la bramosia e la vanagloria con cui ordinò alla fanteria romana (ampiamente d’estrazione plebea) di caricare il nemico cartaginese al di là della Trebbia, al fine di dimostrare la presunta superiorità bellica dei plebei rispetto ai patrizi, noncurante delle reticenze del collega Scipione che invece preferiva s’evitasse lo scontro e lo si rimandasse in primavera.
Al Senato fu chiaro, a quel punto, l’intento politico di Sempronio Longo: voleva forzare la battaglia affinché gli onori e le glorie venissero attribuiti al proprio consolato e non a quello successivo. Ma tale avidità di gloria costò la perdita di circa quindicimila persone, tra morti e prigioneri, uomini di cui Roma fu costretta a fare a meno.
Giunti a termine i dovuti ammonimenti si passò alle elezioni dei nuovi consoli: furono eletti Gaio Flaminio Nepote, plebeo, e Gneo Servilio Gemino, patrizio. Il senato dichiarò la Gallia Cisalpina non difendibile e, pertanto, cercò di ottimizzare le forze nel tentativo di difendere l’Etruria, il Lazio, la via Flaminia e Rimini: così fu affidato a Flaminio il compito di difendere la parte occidentale, ovvero le vie d’accesso che collegavano Etruria e Lazio, mentre a Servilio fu affidato il compito di difendere quella orientale, cioè la Via Flaminia e Rimini.
Ambedue i consoli ricevettero due legioni per un totale di circa 25 mila uomini, cifra straordinariamente superiore alle canoniche composizioni legionarie ed adeguata in extremis alla minaccia cartaginese
– La battaglia del Trasimeno e le conseguenze –
Annibale che ben conosceva l’ambizione e le caratteristiche di Flaminio, condottiero tendenzialmente incline all’azione più che alla riflessione, cercò sin dal principio di indurlo all’offensiva e farlo cadere in errore.
Dal canto suo Flaminio si mostrò più saggio delle aspettative di Annibale e, messosi in contatto con il console Servilio, optarono per ricongiungere le quattro legioni, individuato Annibale in Etruria, al fine di unire le forze per un nemico tanto potente.
Tuttavia grazie all’imponente attività di spionaggio, di infiltrazione e di esplorazione del territorio Annibale riuscì ad intercettare il piano dei due consoli e addirittura ad individuare la posizione del console Flaminio, il quale in prossimità del Trasimeno stava marciando per ricongiungersi, a metà strada, con le due legioni di Servilio. Tuttavia, essendo arrivati al Trasimeno all’imbrunire del 20 (o 23) giugno, i romani dovettero accamparsi per riprendere la marcia il giorno successivo.
Il condottiero punico, ancora una volta, diede sfoggio del proprio genio: raggiungendo in largo anticipo la zona adiacente il Trasimeno in cui i Romani si accamparono, gli bastò guardarsi intorno e analizzare la conformazione geografica del territorio a sé circostante per ideare, in men che non si dica, un piano degno da manuale bellico.
Difatti, Annibale aveva notato uno stretto passaggio lievemente in salita che fungeva da congiunzione tra la strada lungo la vallata, che sarebbe stata attraversata da Flaminio, ed alcune colline poco distanti. Tale stretto passaggio era inoltre costeggiato da una folta vegetazione.
Il piano ideato dal generale punico fu il seguente: allestendo sulle colline un piccolo campo in modo tale che fosse appositamente avvistato dai Romani all’alba successiva, indusse i Romani ad ingaggiare un inevitabile scontro contro un nemico che gli sbarrava praticamente la strada.
Ma poiché per raggiungere quelle colline era necessario passare, in colonna, lungo quella strada stretta e costeggiata dalla vegetazione, fece nascondere tra i fitti boschi circa ventimila uomini tra fanti celti e cavalieri, mentre diecimila tra frombolieri e fanti leggeri si apprestavano a tagliare le vie di fuga ad eventuali fuggiaschi. A presiedere il campo lasciò un contingente di dodicimila fanti pesanti iberi e libici.
L’indomani, il 21 (o 24) giugno, andò in scena il piano di Annibale tale e quale a come l’aveva immaginato il dì precedente: i Romani, avvistato sulla collina l’accampamento punico, procedettero ancora in formazione di marcia sia perché la strada non consentiva di procedere diversamente e sia perché per prepararsi alla battaglia mancava ancora molto, data la lontananza del campo.
Ad essere invece terribilmente prossimi erano i nemici “imboscati” tra la folta vegetazione, che al momento giusto, assalirono i Romani dal fianco sinistro e li massacrarono quasi senza che questi ultimi proferissero colpo, colti totalmente di sorpresa ed impreparati allo scontro. Contemporaneamente i fanti leggeri ed i frombolieri discesero da nord, prima travolgendo l’avanguardia romana e poi attaccando il fianco destro.
Malgrado non fossero preparati, i romani si dimostrarono comunque degni della nomea che li voleva ottimi combattenti, avendo resistito per tre ore prima che il console Flaminio fosse catturato e decapitato. A quel punto i Romani entrarono in rotta, tentando la fuga in ogni direzione.
Morirono, oltre al console, circa quindicimila uomini, mentre soltanto i seimila dell’avanguardia, sfondato l’accerchiamento, riuscirono a fuggire presso il villaggio più vicino.
Al seguito di questo ennesimo triste epilogo, assaliti dallo sgomento e presi dalla disperazione il Senato di Roma fu costretto a ricorrere all’ultimo asso nella manica a disposizione della Repubblica: nominare un dittatore. La scelta ricadde sul savio e veterano Quinto Fabio Massimo.
Michele Zabatta
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