“Fecisti Patriam diversis gentibus unam.”
[Così hai creato (o Roma) un’unica patria per innumerevoli popoli]
Con queste parole, il poeta romano Rutilio Namaziano, alle soglie del V secolo omaggiava la realtà millenaria del dominio romano. Al tramonto dell’età antica e della cultura classica, uno sguardo retrospettivo dell’autore consacra alla Storia la missione civilizzatrice dell’Urbe. Quell’Urbe che ha unito in un’unica realtà più continenti. Ogni civiltà con tutte le sue espressioni culturali, sociali, religiose e non solo. Oltre un quarto della popolazione terrestre si ritrovava a vivere e morire sotto le insegne dei Cesari. Un impero di certo multietnico e straordinariamente vario. La prima globalizzazione “ante litteram” che ha reso “l’Oikoùmene” mediterranea un traguardo di pace e benessere ancora oggi insuperati. L’insieme di un agglomerato così variopinto di genti fu sempre un fenomeno positivo e senza rischi? Come vedremo tra poco, i veri nemici di Roma proliferavano entro i suoi confini proprio a causa della sua vastità; viaggiando sulle sue strade e nutrendosi dei suoi sudditi. Si trattava di un avversario ben più temibile dei barbari e che con il “barbaricum” aveva poco a che fare…
Al principio del secondo secolo, l’impero di Roma si appresta a vivere il momento d’apogeo della sua esistenza. L’ispanico Traiano, asceso alla porpora dopo la breve parentesi senatoriale di Nerva (98 d.C.), rafforza le istituzioni oligarchiche del cursus honorum per garantirsi una macchina statale fortemente centralizzata ed efficiente. La burocrazia sotto il controllo dei genii civile e militare, nominandovi a capo uomini di fiducia (“beneficiarii”), garantisce l’equa perequazione delle finanze tra la popolazione sia italica, sia provinciale. Le distribuzioni di pane, grano e altri generi di estrema necessità, praticate a Roma a fini evergetici dalle elìtes, riescono a colmare il fenomeno della denutrizione e della povertà. Tuttavia i ceti meno abbienti, impossibilitati ad inurbare, decidono di colmare la propria indigenza con l’arruolamento. L’inclusione tra le file dell’exercitus dei nulla tenenti è una tradizione vecchia di secoli. Esso può contare decine e decine di contingenti militari tra “numerus”, “foederationes” alleate, legioni e relativi distaccamenti a presidio dei confini (“vexillationes”). Mai prima d’ora le forze armate dell’antica Roma si erano impegnate nell’aumento dei propri effettivi e nella resa qualitativa del loro addestramento. <<Non è la forza fisica ma la ferrea disciplina, la vera virtù delle armi […]>> scriveva Cicerone nel “De re Publica”, memore del suo stesso fratello, comandante di cavalleria.
L’enorme sforzo bellico dell’Impero aveva garantito gloria militare ai suoi “legati” e nuove provincie, con nuove terre da abitare, nuove “coloniae” e nuova forza lavoro. Le risorse minerarie e di preziosi provenienti dalla Dacia, ad esempio, avrebbero rimpinguato le casse statali già duramente provate dagli anni di guerra (101-106 d.C.). Ben presto l’espansionismo militare si sarebbe però arginato a causa delle scelte del successore al trono. Adriano (117-138 d.C.) infatti volle personalmente intraprendere la stabilizzazione dei territori imperiali prediligendo una politica di consolidamento delle regioni di recente conquista. Decise di viaggiare in lungo e in largo attorno il Mediterraneo per sondare in prima persona l’efficacia delle sue scelte. Non a caso uno degli esempi più celebri di questa svolta è il vallo militare di “contenimento” eretto tra la Britannia conquistata e la ribelle “Caledonia” e che dal suo imperatore prende il nome. Anni dopo l’erede Antonino il Pio (138-161 d.C.), non avrebbe apportato importanti modifiche alla linea guida dei “fines romanorum”. Egli stesso espanse la Britannia erigendo nuovamente un altro vallo, stavolta di “approccio”, diverse miglia più a nord del precedente. Il benessere materiale ed economico, lo scambio commerciale interno all’ecumene e la proliferazione della cultura ellenistico-romana, come del resto il buon governo delle istituzioni, resero questo il momento più florido nella storia di Roma. Molti storici, tra cui l’inglese Edward Gibbon, hanno coniato l’espressione “Secolo d’oro” degli Antonini. Tuttavia, quegli stessi veterani ora di ritorno, sarebbero diventati portatori di una guerra ben diversa e di gran lunga peggiore.
Lungo i confini erano nati splendidi centri di scambio tra culture, incroci carovanieri fra terre lontane e civiltà classica. Qui cittadini e stranieri andavano e venivano. Intrattenevano rapporti di acquisto e di scambio reciproci, importando tante novità entro il “limes”. La “pax romana” garantiva commerci in relativa sicurezza per i viaggiatori. Come dimenticare d’altronde il monumento più importante e duraturo lasciatoci dai romani? Il sistema stradale. Fu proprio il complesso viatico ad avvicinare tra loro località altrimenti troppo distanti e irraggiungibili. Il miliario di Roma ricordava ad ogni visitatore il detto-verità secondo cui “Tutte le strade portano a Roma”. E che dire di quel mare solcato da vele romane e che i romani stessi, fautori di una vera talassocrazia, chiamavano orgogliosamente “nostrum”? Uno dei suoi punti nevralgici era la città portuale di Aquileia. Fondata secoli addietro (181 a.C.) lungo una tratta che univa la Via dell’ambra con l’Adriatico, era la più importante capitale economica dell’Impero. Fulcro degli affari, ogni prodotto proveniente dal nord passava per le strade dei suoi mercati. Punto di raccolta per masse ed eserciti, ma non solo…
Nella seconda metà del II secolo l’impero è governato da un Augusto e dal suo co-imperatore, rispettivamente Marco Aurelio e il Cesare “per orientem” Lucio Vero. Intorno al 168 d.C. sui territori mesopotamici la pressione partica diminuisce (momentaneamente) e le incursioni si fanno sempre più rare. Si decide così di “alleggerire” lo sforzo bellico lungo il Tigri e l’Eufrate per trasferirlo sul Reno. Nella Germania, focolaio di ribellione fin dai tempi di Cesare, stavano raggruppandosi nuove federazioni di popoli: i Quadi e i Marcomanni. L’invasione era un futuro tutt’altro che improbabile e a Roma serviva una pronta reazione per salvaguardare la propria prosperità. Le galee della “classis” imperiale traghettarono quindi i legionari da un confine all’altro. Nessuno scalo e nessun ritardo: la celerità è d’obbligo in momenti di crisi. Si arriva a toccare terra dopo solo poche settimane ad Aquileia da dove diversi itinerari davano accesso al fronte e su più punti strategici. Vengono eretti “castra” con tende e padiglioni per la riorganizzazione delle truppe, le quali alternano nel frattempo addestramento di truppa (“catervarius”) a licenze in città. E’ proprio in questo modo che Roma comincia ad affrontare il pericolo più temuto dai suoi governanti. Esso non si avvale di spada e scudo, eserciti o spie, è un qualcosa di completamente diverso e inatteso: è la “peste”. La prima vera epidemia dell’occidente civilizzato. Già una “febbre miliare” affliggeva le periferie dell’impero da almeno tre anni, senza però destare troppa preoccupazione. Si trattava di un “morbus” localizzato e non virulento. Le cose però sarebbero cambiate di lì a poco…
Contratta in Mesopotamia dai legionari, questa nuova forma di “peste” ha viaggiato per mezzo degli infetti fino all’Adriatico e qui, dopo le cabine delle navi, trova un nuovo ambiente per il contagio tra le mura di Aquileia. L’inverno è alle porte e gli accampamenti militari diventano fissi (“stativa”), prolungando il soggiorno delle truppe. Alcune sono già partite ma larga parte è ancora acquartierata in città. In quei giorni di dicembre approda nella capitale il medico personale dell’Augusto e del suo Cesare: Galeno di Pergamo. E’ un sapiente di formazione ellenistica, ha fatto esperienza nelle accademie di tutta la “koiné” greca. Si diletta nella filosofia e nella stesura di trattati. Ha prestato servizio quale “moedicus” per gli ufficiali nella guerra partica e ha avuto modo di approfondire le arti curative nelle scuole gladiatorie. E’ un esperto delle avanguardie mediche e ha il compito di indagare sul morbo dilagante tra i reparti dell’esercito. Si tratta della famosa “peste antonina” (dal nome della dinastia regnante). Il morbo è terribile, pare sia già arrivato a Roma dove, mesi dopo, si avranno intorno ai duemila morti al giorno. Galeno non perde tempo, convocato da Marco Aurelio e Lucio Vero, decide di indagare e al meglio coordina le infermerie degli accampamenti (“valetudinarium”). La situazione si è aggravata nel giro di poche settimane e rischia di minare mesi di pianificazione militare. L’impero non può restare sguarnito ora che i suoi nemici sono alle porte. I migliori cerusici dalle province dell’impero accorrono ad arginare il contagio.
I mesi passano e nulla si riesce per fermare il contagio. I morti abbondano e a sempre più soldati, altrimenti in armi, viene diagnosticata la malattia. Agisce con violenza, dapprima con la sola febbre, poi con una malformazione epidermica, infine con la morte. Galeno, che lungo tutto il 169 ha modo di approcciarsi alla malattia, ne descrive i sintomi e i suoi effetti. Nel “Methodus Medendi” riporta in passaggi brevi ma concisi il triste “aspetto” della peste:
<<Essa si diffonde in modo grande e perdurante [nei mesi] causa spossatezza e dapprima si manifesta come semplice malanno di stagione, [poi con] febbre […] alle male lingue che deridono siffatto pericolo Apollo scocca il suo dardo che infiamma e castiga [le vie respiratorie] provocando l’increscioso bisogno di evacuare le proprie impurità [diarrea?] in modo ferale e non senza miasmi [cioè in modo “animalesco”] senza contegno o indugio che si confà all’uomo […] come se ciò non bastasse vi compaiono [sulla pelle] orrende piaghe a volte purulenti a volte sanguinanti poiché sfregiate dalle mani del posseduto […] in preda ad agonia […] >>.
L’ultimo passaggio della descrizione è forse la chiave per decifrare l’identità di questa “peste”. Stato febbricitante e bronchi compromessi sono sintomo di una comune influenza, certo. Se sommiamo però pustole infette, sanguinanti a causa del prurito che provocano, possiamo certamente risalire a due tipi di virus: sia il Vaiolo che il Morbillo. Quest’ultimo, secondo i recenti studi epidemiologici, avrebbe avuto un’eccezionale accelerazione evolutiva a livello molecolare proprio negli anni di fine II secolo. Una coincidenza notevole. I morti non si contano più, ammassati agli angoli delle piazze a marcire. Si appiccano roghi e si scavano le fosse. Oltre il 30% della popolazione mediterranea viene fatalmente contagiata dal morbo. L’economia è presto al collasso e nelle campagne spopolate si cerca riparo. Pochi optano di rimanere all’interno delle proprie dimore cittadine. Si diffondono paura e sconforto. La crisi religiosa che già si era manifestata col sincretismo enoteista, spinge i più a procurarsi amuleti e a praticare sortilegi di ogni sorta. Sui rostri di Roma, tra le tribune dei fori, non sono più gli oratori a pronunciarsi ma i maghi. Le fattucchiere sostituiscono le proprie pratiche rituali alla dialettica del raziocinio. La superstizione diventa l’unico metro di misura, senza logica e senza riscontro. Presto si finisce col dare la caccia ai presunti untori, colpendo le minoranze etnico-religiose, colpevoli di essere “diverse”. Una delle tante persecuzioni spontanee contro i cristiani risale proprio a questi anni. Lo stesso Marco Aurelio affermerà che la menzogna era più pericolosa della peste stessa. Indistintamente vengono contagiati patrizi e plebei, padroni e schiavi, senza distinzione di censo o condizione sociale. L’anno 169 si conclude con un triste bilancio: migliaia di morti, una generazione sacrificata e la scomparsa dello stesso Lucio Vero. Come se la situazione non fosse già di per sé compromessa, nel 170 i Marcomanni forzano la linea del fronte danubiano, sbaragliano le legioni e dilagano all’interno dell’impero. Il golfo di Venezia, già impoverito dall’embargo commerciale post-contagio, viene ulteriormente devastato. Stupri, omicidi, saccheggi e distruzioni sono notizie all’ordine del giorno. La stessa Aquileia è posta sotto assedio e la peste sembra avere un impatto minimo sulle perdite degli invasori. Pochi periscono a causa del morbo, i più superano le febbri entro pochi giorni. Com’è possibile? Procediamo dal principio.
In alcune zone dell’impero si assiste ad un mutamento della realtà provinciale. I confini verso il “barbaricum”, a causa della pericolosità delle incursioni, vengono via via fortificati. Il “limes” facilmente attraversabile per mezzo di salvacondotti diventa l’esatto opposto. Muta in una barriera da dove nessuno entra o esce; il cui accesso è consentito per i soli militari di ricognizione e per gli autorizzati come “missi” dell’alto comando (“praetorium”) della guarnigione: nasceva il “limen”. Ora, dal momento che l’irrigidirsi del confine non permette permeazioni di nuove genti, si assiste ad un isolamento degli abitanti di una zona rispetto all’altra. Questi individui, separati da contaminazioni esterne, hanno e sviluppano proprietà genetico-ereditarie ben definite; le stesse, col tempo, si accentuano diversificandosi da quelle degli stranieri. Lungo larga parte delle frontiere si assiste ad una “stagnazione” dei geni.
Tra questi vi è il “CCR5”, particolare proteina presente sulla superficie dei linfociti che contribuisce al rafforzamento immunitario senza però proteggere lo stesso da agenti eziologici molto aggressivi ed estranei.
In poche parole, senza che il corpo abbia mai affrontato virus simili a quello della “peste antonina”, difficilmente potrà superare la malattia. Prima d’allora le popolazioni mediterranee al di qua dell’impero non avevano mai dovuto fare i conti con epidemie di Morbillo o di Vaiolo. Al dì fuori dell’impero, invece, nei villaggi di una civiltà rimasta essenzialmente ai livelli dell’età del ferro, le scarse condizioni igieniche avevano permesso alle epidemie di innescarsi e di falciare i soggetti più deboli. Chi sopravviveva trasmetteva di generazione in generazione geni non più estranei ai nuovi virus e quindi più forti. Questi anticorpi notevolmente più resistenti, combinandosi con una variante della proteina “CCR5” sopra descritta, davano origine ad un nuovo gene: il cosiddetto “Alfa-32”. Quest’ultimo offriva una buona difesa immunitaria in grado di annientare la minaccia del virus dopo il contagio. Una peculiarità che consentì ai barbari del nord-nordest di sopravvivere. Ancora secoli dopo gli eventi della “peste antonina”, durante il Medioevo, i portatori dell’Alfa-32 si sarebbero ritrovati praticamente immuni all’imperversare di epidemie quali la stessa Peste propriamente detta. Un segreto che i Quadi e i Marcomanni, protagonisti della prima età delle invasioni, portavano con sé e che permetteva loro di difendersi al dilagare del morbo.
Mesi dopo le incursioni nelle “Venetiae”, la reazione dell’Imperatore Marco Aurelio non si fece più attendere. Gli invasori vennero ben presto ricacciati al di là del “limes”. Ci vollero oltre dieci anni di guerre, con l’assembramento di forze e mezzi senza precedenti, per recuperare una certa stabilità politico-militare. Per il 180 la campagna marcomannica era finalmente conclusa e non senza conseguenze. Nel forte di Vindolanda Marco Aurelio aveva spirato, indebolito dalle fatiche in anni di estenuanti campagne militari. Una delle ipotesi, avvallata da “rumores” coevi agli eventi, ricondurrebbe la morte dell’antonino proprio morbo che dalla sua dinastia aveva preso il nome. Il secondo secolo segna definitivamente il passaggio dalla maturità classica all’epoca tarda, gravida di crisi. Un romano su tre aveva perso la vita, causando un calo demografico difficilmente riparabile in poco tempo. La fiducia nella religione aveva vacillato di fronte ad un nemico nuovo e invisibile. Presto le preghiere cedettero il passo ai sortilegi. I vecchi culti erano ora largamente ignorati. Rischiavano di scomparire di fronte ad usi nuovi ed esotici; quali ad esempio il Mitraismo, l’adorazione del “Sol Invictus” o lo stesso Cristianesimo. La speculazione filosofica aveva smesso di interrogarsi sul perché di un simile castigo e ora cercava di premunirsi con dissertazioni sulla magia. La popolazione centro-mediterranea, notevolmente ridotta, deficitava di forza lavoro; fondamentale per garantire la produzione di risorse utili all’approvvigionamento urbano e allo scambio commerciale. La penuria di prodotti aveva rincarato notevolmente i prezzi, provocando una stagnazione del valore monetale dei pezzi meno preziosi. Minori volumi di scambio, minori introiti. Le imposte non poterono risanare l’erario dello stato. Causarono, anzi, il malcontento generale e rivolte diffuse lungo le regioni ispaniche e di tutta la Gallia. I più facinorosi decisero di unirsi nel movimento contadino dei “bagaudae” portando la lotta amata tra le campagne e i centri abitati. Un fenomeno che si acuì nel corso dei decenni e che mai venne del tutto a sopirsi. Una nuova piaga fu di seguito l’inflazione, colmabile soltanto con altre ricchezze. Per quest’ultime si sarebbero dovuti arruolare i soldati. Gli stessi però risultavano indeboliti. Grandi numeri di combattenti non erano più reperibili a causa delle perdite. Come rimpinguare le file dell’esercito contro un temibile avversario? Semplice, si sarebbero reclutati quelli stessi barbari contro cui si combatteva fino a poco tempo prima. Tale pratica, sugellata da un patto (“foedus”) tra amministrazione civile e mercenari stranieri, avrebbe preso piede sempre più nel tempo a venire, causando notevoli cambiamenti nella struttura stessa delle legioni. Queste sono soltanto alcune delle conseguenze riconducibili alla “Peste Antonina”. Un morbo tremendo, un evento quasi “apocalittico”, un “unicum” nella Storia che avrebbe definitivamente portato al collasso una realtà, quella greco-romana classica, per partorirne, a lungo termine, una radicalmente diversa: la civiltà tardo-antica.
Francesco Rossi