De Violentia,  ipotesi di superamento

De Violentia, ipotesi di superamento

Il comportamento dell’uomo pare avere i tratti di un problema tanto connaturato quanto indotto, le scienze sociali, inoltre, non fanno che confermare questa verità.
Una verità, appunto, maturata lungo l’esperienza storica pervenutaci.
Il tema della violenza è sempre stato ritenuto fondamentale nella dimensione dell’uomo quale legislatore della natura, e, nei diversi modi in cui è stata letta, ha dato vita a paradigmi politici e ideologici non di poco conto. La violenza intesa come attività di lesione dell’altrui interesse, volontà e libertà si esprime, molteplice e multiforme, in tutti i campi che soddisfano l’indole sociale della nostra razza. Essa trova la sua origine nella fedele attuazione dei principi di autoconservazione, ereditati dallo stato di natura. E’appunto all’alba della storia dell’uomo che Thomas Hobbes, massimo teorico politico del XVII secolo, identifica la prima espressione di quei caratteri egoistici e brutali propri dell’uomo e delle sue azioni. In un contesto pre- civile, non moderato da tradizione o legge alcuna, l’uomo assumeva le sembianze di un lupo per l’altro uomo, scaturendo le condizioni per quella che dallo stesso autore veniva considerato un bellum omnium contra omnes. In un contesto siffatto, perpetuamente votato alla violenza fisica e psicologica, Hobbes ne identificava la soluzione nella figura del cosiddetto Leviatano: esso nasceva dalla cessione di tutti gli uomini del proprio diritto alla violenza, in cambio di un più elevato grado di sicurezza e di uno più basso di incertezza e timore. Dunque, legittimato dagli stessi uomini, compito del Leviatano era rendere lo scotto della violazione della legge più elevato del vantaggio traibile da una sua infrazione. Sue rappresentazioni fisiche erano monarchi assoluti eo assemblee di uomini aventi il medesimo compito.
I confini della manifestazione dell’amoralità umana – inoltre – non sembrano limitarsi all’interazione col prossimo, ma appaiono confermarsi in qualsiasi comunità umana.
L’intera storia dell’uomo è storia di conflitti dialettici.
L’idealizzazione del conflitto come oppressione di classe rende il concetto della sistematicità della violenza sull’altro, perpetrata dal padrone sull’operaio, dal possidente sul nullatenente. In Marx la concettualizzazione del conflitto tra oppressori e oppressi è un punto inamovibile, sviluppato tramite la prassi, destinato ad un avvenire rivoluzionario ma soprattutto mirato alla problematizzazione di un tema quasi sempre accettato sotto la bieca luce della normalità. In una chiave di lettura meno politica e più intima del comportamento umano, Freud fornisce una attentissima trattazione dell’argomento, tanto ne “Il disagio della civiltà” quanto nel monolite della psicanalisi “Psicologia delle masse e analisi dell’io”. Così come Hobbes aveva fatto, anch’egli argomenta criticamente l’attitudine insita nell’uomo a sfogare la propria aggressività e le proprie nevrosi sul prossimo, senza distinguere in quello null’altro che materia da sfruttare. L’archetipo della violenza dell’uomo sull’altro uomo è quindi, parole di Freud, un prodotto del desiderio di abuso sessuale, di appropriazione dei beni altrui o del generale perverso piacere nell’esercitare la propria volontà di potenza. Quella che lo psicanalista attua alla luce di profonde elucubrazioni è quindi un’attenta ricostruzione dei fattori, consci ed inconsci, che rendono tale quel trionfo di cielo e terra chiamato uomo. Ne “il disagio della civiltà”, l’autore ricerca incessantemente le varianti che partecipano a rendere tanto centrale il tema del sopruso nella psiche umana. Egli s’immerge nella politicità della violenza e giunge – decostruita l’immagine eterea dell’essere umano – a giustificare disincantamento morale e disillusione scientifica.
Ecco compiuto, all’alba del XX secolo, l’omicidio dello ζῷον πολιτικόν d’aristotelica memoria. L’indagine condotta da Freud in merito all’uomo e alle sue passioni, però, non si limita certamente a questo. Otto anni prima della pubblicazione di “Il disagio della civiltà” Freud aveva steso un piccolo saggio: “Psicologia delle masse e analisi dell’io”. Nel suddetto, Freud evidenzia i meccanismi subconsci che agiscono nel pensiero umano e nelle manifestazioni di aggressività.
Gli sfoghi violenti di queste passioni, alla luce dei suoi studi, sarebbero frutto della mancata coincidenza tra desiderio e condizione effettiva, così come della distanza tra soggetto pensante e oggetto del proprio desiderio. Mentre fisicamente v’è una netta differenza tra atto e potenza, nel nostro subconscio, invece, essi van confondendosi, scambiandosi senza sottostare a precise formule o leggi. E’ dunque la mancata identità tra queste due variabili a determinare gli atti di violenza e, inoltre, varie forme di nevrosi, depressione e stati di deficienza psichica. Ciò che rende interdipendenti uomo e violenza sembra essere – in ultima istanza – la rispettiva necessità di esistere. In ultimo, giacchè dell’uomo non si vuole qui offrire un ritratto esclusivamente negativo, si rivela necessario domandarsi come – di questa negatività – potersi liberare.
Se si procede coll’abbandono dell’idea di uomo in perpetua tensione verso il bene, altrettanto deve essere fatto con l’interpretazione pessimista, buia e senza speranza di altri pensatori.

Ciò che rimane, quindi, non può essere che la liberazione dalle suddette categorie per adottarne di nuove e appena zincate, non ancora corrotte da miti e interpretazioni parziali.
L’asse delle nostre speculazioni deve quindi mutare posizione, non più giusto o sbagliato ma contro o secondo buon senso.

Samuele Vasapollo

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