La propaganda di Augusto: come la letteratura celebrò l’Urbe e il mos maiorum

La propaganda di Augusto: come la letteratura celebrò l’Urbe e il mos maiorum

La battaglia di Azio nel 31 a.C. segna la fine di epoca storica. Grazie alla vittoria, Ottaviano poté riunire nella sua figura tutte le principali caratteristiche dell’antichità: l’imperium, volgarmente esemplificato come il comando militare, coinvolge anche la possibilità di decidere della vita di qualsiasi cittadino romano; la potestas, il potere civile; l’auctoritas, grazie alla quale riceve il titolo di Augustus; il potere religioso, attraverso il quale viene proclamato pontifex maximus. Nonostante tutto ciò, Augusto non assunse mai il titolo di dictator: ufficialmente, la res publica continuava ad esistere, con le sue magistrature ed i suoi organismi. Il potere di Augusto affondava le proprie radici nel consenso non solo della classe senatoria, ma anche dei cittadini.

Il popolo romano aveva recentemente affrontato un periodo molto difficile. Prima dell’83 a.C., i romani erano abituati a considerare la guerra come “esterna”: combattevano uniti contro un nemico comune, una civiltà estranea a quella romana. Con l’inasprimento dello sconto fra Mario e Silla, i romani affrontano un nuovo concetto di bellum, che viene definito dagli storici latini e posteriori con l’aggettivo di civile: combattono contro altri cittadini dell’Urbe, pari a loro in sangue e diritti. Questo sconvolge completamente non solo le istituzioni che controllano la vita della res publica, ma anche i valori morali cardine dell’interiorità del cittadino romano.

I cives romani affrontano la prima guerra civile con lo scontro fra Mario e Silla, la seconda guerra civile tra Pompeo e Cesare e, dopo la morte di quest’ultimo, la terza ed ultima guerra civile fra Marco Antonio e Ottaviano. Con la battaglia di Azio, Ottaviano pone fine all’ultimo bellum civile, riportando nell’Urbe la pace tanto agognata.

Augusto viene quindi visto come il portatore della pace, colui che, grazie alle sue imprese, ha dato vita alla nuova età dell’oro, donando prosperità e serenità al popolo romano. Il Senato decide di omaggiarlo con la costruzione di un edificio volto a simboleggiare la pace augustea, e che da essa prende il nome di Ara Pacis.

Tuttavia, il consolidamento dei consensi popolare e senatorio era una priorità: all’interno del suo programma di riforme delle istituzioni e della società romana, Augusto avvia una propaganda volta non tanto alla sua persona, quanto ai valori da essa sostenuti, sollecitando un ritorno all’antico mos maiorum dal quale Roma aveva tratto il suo potere.

Gran parte del suo programma di restaurazione fu avviato attraverso la letteratura, considerata perciò come mezzo di divulgazione privilegiato nell’antichità. Augusto si avvalse della figura di Gaio Mecenate, suo stretto consigliere e amico. Egli, dopo che Ottaviano divenne imperatore, si ritirò a vita privata sull’Esquilino, radunando attorno alla sua persona letterati ed artisti, riuniti in un circolo letterario che intendeva promulgare le idee augustee inerenti al mos maiorum e alla cultura, esaltando al contempo le imprese dell’imperatore e di Roma stessa. La figura di Mecenate fu essenziale all’avviamento e allo sviluppo di questo processo propagandistico, al punto che, nel linguaggio moderno, la parola “mecenate” connota colui che protegge e sostiene artisti e letterati. Il suo patrocinio permise al circolo letterario di arricchirsi con personalità uniche, come Virgilio, Orazio, Livio, Properzio, Ovidio.

Virgilio ricevette in dono una villa a Napoli e vari terreni nei dintorni. Proprio in quei luoghi compose una delle sue opere più conosciute, le Georgiche, dedicate proprio a Mecenate: l’autore esalta l’agricoltura dal punto di vista etico, come ritorno ai valori del mos maiorum. Virgilio narra che, tempo addietro, Giove avesse posto fine all’età dell’oro con lo scopo di fermare il torpore che stava infiacchendo gli uomini.

«Il padre Giove in persona decise che non fosse facile la via del coltivare, e per primo fece sì che i campi fossero arati, affinando i cuori dei mortali con gli affanni e non sopportando che il suo regno giacesse inerte in un pesante letargo».[1]

Solo attraverso il duro lavoro gli uomini potranno fuggire dalla grauis ueternus, riportando l’età dell’oro sulla terra: il labor non è una punizione divina, ma un dono di Giove affinché le menti degli uomini non si assopiscano nell’ozio. Solo il lavoro permetterà agli uomini di affinare le loro capacità intellettive e tecniche:

«Il duro lavoro vince su ogni cosa, dal bisogno che è presente nelle dure vicende ».[2]

Ad Augusto, Virgilio dedicò la sua opera più celebre: l’Eneide. Si racconta che alla sua morte, Virgilio ordinò, fra le sue volontà, di dare alle fiamme l’intero manoscritto dell’Eneide, poiché ancora imperfetta. Ottaviano, tuttavia, che tanto aveva atteso quest’opera, ne ordinò la pubblicazione, salvando il grande capolavoro di Virgilio dalle fiamme.

L’Eneide vuole ricordare al popolo romano che, attraverso la pietas, si deve accettare il piano che gli dèi realizzano attraverso gli uomini: Enea doveva fondare Roma, Augusto deve guidarla. L’eroe troiano, incarnando tutte le qualità tipiche del mos maiorum, segue il destino disegnato precedentemente dalla divinità e presente nelle parole pronunciate dall’anima di Anchise:

«Tu, o Romano, ricorda di governare i popoli:
queste saranno le tue arti, e d’imporre la civiltà con la pace,
risparmiare gli arresi e sconfiggere i ribelli.
»[3]

I Troiani si prefigurano quindi come gli antenati dei Romani ed i greci, che avevano saccheggiato e distrutto Troia, ne sono i nemici. Tuttavia, in un momento storico nel quale i greci si prefigurano come un popolo sottomesso all’autorità di Roma, Virgilio ha il dovere di proteggerne e salvarne l’onore, quando asserisce che mai i Greci avrebbero vinto se non avessero usato lo stratagemma del cavallo, ma combattuto in campo aperto. Infatti, i Romani hanno conquistato la Grecia, così come Enea

«Sarebbe colui che l’Italia, gravida di dominatori e di guerra fremente, governerebbe, una stirpe propagherebbe dal nobile sangue di Teucro e intero il globo ridurrebbe sotto le sue leggi.»[4]

Augusto, in quanto figlio adottivo di Cesare, discende dalla Gens Iulia, antica gens di Enea. Nell’VIII libro, Enea riceve, all’alba della battaglia con Turno, uno scudo forgiato da Efesto, dio del fuoco, nel quale sono raffigurati gli eventi futuri di Roma. Tra le scene, incombe in oro l’immagine della battaglia di Azio, con i due schieramenti:

«Di qui Cesare Augusto, che guida gli italici all’attacco

con i senatori e il popolo, i Penati e i Grandi Dei,

[…] Di qui con fasto barbarico e con vario armamento Antonio,

vincitore sui popoli dell’Aurora e sul rosso litorale,

l’Egitto e le forze dell’Oriente e l’ultima Bactra con sé

trasporta, e lo segue (sacrilegio!) l’egiziana consorte.»[5]

 

Augusto trionfante culmina sulle altre scene rappresentate sullo scudo: le vie di Roma sono percorse da una folla in festa, mentre l’imperatore guarda sfilare le genti sconfitte. L’intera Urbe celebra la vittoria di Ottaviano Augusto.

La battaglia di Azio è un tema ricorrente all’interno del circolo di Mecenate: la conquista dell’Egitto e la morte di Cleopatra concludevano il lugubre periodo delle guerre civili.

«Ora bisogna bere, ora con piede libero

bisogna colpire la terra: ora con cibi degni dei Salii

ornare l’altare degli Dei

era tempo, o compagni.»[6]

Orazio brinda alla notizia della morte di Cleopatra, la grande nemica di Roma. Ne evidenzia i tratti negativi, frutto di una tradizione ostile: la depravazione della sua corte, le accuse di ubriachezza. Tuttavia, nel corso del carme, Cleopatra non appare più come un nemico in preda al furor, una regina demens, bensì acquista totale dignità con la sua morte, vista come un comportamento fortis et ferox. Orazio ammira sinceramente Cleopatra in questo suo ultimo gesto, rendendola un vero e proprio eroe tragico.

«Lei che più nobilmente

volendo morire e non da donna

temette la spada né in terre nascoste

con la veloce flotta riparò.

Osò anzi guardare la reggia abbattuta

con volto sereno, e forte maneggiare

gli aspri serpenti, affinché il nero

veleno assorbisse nel corpo,

più fiera per aver deciso di morire;

naturalmente sdegnando di essere condotto

come una persona qualunque con le crudeli Liburne

lei donna regale in un superbo trionfo.»[7]

 

In questo carme viene celata la figura di Antonio, il cui nome non viene mai menzionato, volgendo tutta l’attenzione sulla regina egiziana, che si prefigura come l’unica protagonista del componimento. Così facendo, Orazio vuole evidenziare il ruolo passivo del comandante romano, che appare come un fantoccio nelle mani di Cleopatra.

È dunque evidente che la letteratura assumeva un ruolo di centrale importanza nella politica antica.

Ciò potrà apparire insolito, quasi strano in un mondo dove la società considera la letteratura e l’arte forme marginali di divulgazione. Al giorno d’oggi, un capo di Stato che investe nella cultura, nella letteratura, nell’arte per catturare il consenso del popolo non sarebbe mai considerato all’altezza dell’incarico affidatogli. Il motivo è molto semplice: la cultura non è più considerata un canale di trasmissione idoneo a coinvolgere l’attenzione della popolazione. Al contrario, nel 2020 ad avere maggiore presa sulla popolazione sono i cosiddetti “influencer”, personaggi che, pubblicando video in rete, hanno raggiunto una enorme fama. È naturale che le alte cariche di uno Stato si rivolgano a questi enti per promuovere linee politiche, pensieri, atti, ed è altrettanto naturale che questi personaggi senza né arte né parte commentino pubblicamente eventi lontani dall’area di loro competenza, riscuotendo molti consensi nel loro seguito.

I tempi cambiano e con essi si evolvono gli usi e i costumi dei popoli. Il cambiamento è parte integrante della storia, pertanto, non deve essere rifuggito. Tuttavia, sarebbe lecito volgere sempre un occhio al passato e domandarsi quali valori hanno avuto più successo, così che possano fungere da esempio per i posteri, non ricoprirsi di polvere all’interno dei libri di storia.

 

Sabina Petroni

 

 

[1] «Pater ipse colendi/ haud facilem esse uiam uoluit, primusque per artem/ mouit agros, curis acuens mortalia corda/ nec torpere graui passus sua regna ueterno.» Virgilio, Georgiche I, vv. 121 – 124.

[2] «Labor omnia uicit/ improbus et duris urgens in rebus egestas.» Virgilio, Georgiche I, vv. 145 – 146.

[3] «Tu regere imperio populos, Romane, memento/ (hae tibi erunt artes), pacique imponere morem,/ parcere subiectis et debellare superbos.» Virgilio, Eneide VI, vv. 850 – 853.

[4] «Sed fore qui gravidam imperiis belloque frementem/ Italiam regeret, genus alto a sanguine Teucri/ proderet, ac totum sub leges mitteret orbem.» Virgilio, Eneide IV, vv. 229 – 231.

[5] «Hinc Augustus agens Italos in proelia Caesar/ cum patribus populoque, penatibus et Magnis Dis/ […] Hinci ope barbarica uariisque Antonius armis,/ uictor ab Aurorae populis et litore rubro,/ Aegyptum uiresque Orientis et ultima secum/ Bactra uehit sequiturque (nefas) Aegyptia coniux.» Virgilio, Eneide VIII, vv, 678 – 688.

[6] «Nunc est bibendum, nun pede libero/ pulsanda tellus, nunc Saliaribus/ ornare pulvinar deorum/ tempus erat dapibus, sodales.» Orazio, Odi I, 37.

[7] «Quae generosius/ perire quaerens nec muliebriter/ expauit ensem nec latentis/ classe cita reparauit oras,/ ausa et iacentem uisere regiam/ uultu sereno, fortis et asperas/ tractare serpentes, ut atrum/ corpore conbiberet venenum,/ deliberata morte ferocior:/ saeuis Liburnis scilicet inuidens/ priuata deduci superbo,/ non humilis mulier, triumpho.» Orazio, Odi I, 37.