Roma e i barbari: migrazione o invasione?

Roma e i barbari: migrazione o invasione?

Gli storici dibattono da lungo tempo sulla caduta dell’Impero romano d’Occidente: secondo alcuni le invasioni barbariche “assassinarono” l’Impero, mentre secondo altri con la nascita dei regni romano-barbarici furono gettate le basi dell’Europa.

La tesi delle “migrazioni” barbariche ha fatto breccia soprattutto nella storiografia nordeuropea e anglosassone, a dispetto di quella latina che rimane legata all’idea di “invasione”.

Ebbene, se si volge lo sguardo alla fondazione della civiltà romana, non può non osservarsi che il suo tratto caratteristico era la contaminazione fra culture diverse.

Roma venne alla luce proprio grazie all’incontro fra le tribù latine che stavano sui colli del Palatino, dell’Esquilino e del Celio e i Sabini sul Quirinale cui si aggiunsero, in seguito, gli Etruschi.

I sette re che si alternarono sul trono dell’Urbe erano espressione delle varie etnie che l’avevano costruita: Romolo, Tullio Ostilio e Servio Tullio erano latini, Numa Pompilio e Anco Marzio sabini, Tarquinio Prisco e Tarquinio il Superbo etruschi.

Insomma, già agli albori Roma poggiava sull’incontro e la mescolanza fra etnie.

Questo atteggiamento di apertura e inclusione permise ai Romani secoli dopo di fondare un Impero che inglobava nei suoi confini genti diverse, cosa che i Greci non avrebbero mai potuto fare, gelosi com’erano del loro patrimonio culturale e alieni a ogni idea di integrazione con i “barbari”.

Solo Alessandro Magno sembrò intuire le enormi potenzialità della fusione tra Occidente e Oriente, ma non visse abbastanza per realizzare il suo grande sogno di un Impero cosmopolita e universale.

I Romani, al contrario, erano sempre pronti ad accogliere nuovi usi e costumi, purché apportassero miglioramenti all’intera società.

Eloquenti sono le parole del senatore pagano Quinto Aurelio Simmaco, ritenuto il “Cicerone” dell’Età tardo-antica: “Arma a Samnitibus, insignia a Tuscis, leges de lare Lycurgi et Solonis sumpseramus”.

Dunque, i Romani appresero la tattica militare dai Sanniti, le insegne del potere dagli Etruschi e le leggi sulla famiglia dai Greci.

La cultura ellenica, e con essa la filosofia, giunse a Roma verso la fine del III secolo a.C. e duecento anni dopo ogni romano di alto rango era bilingue.

Più tardi ancora, imperatori-filosofi come Marco Aurelio e Giuliano Augusto, l’uno stoico e l’altro neoplatonico, scrivevano le loro opere in greco.

Lungi dall’affrontare le vicende legate all’immigrazione con la bontà d’animo, Roma ne fece una mera questione di utilità.

Le culture dei popoli vinti erano assorbite e rielaborate per arricchire la romanitas, ossia l’identità romana che era forte, condivisa e unica, come si evince da un discorso pronunciato in Senato dall’imperatore Claudio: “I Galli si sono assimilati a noi nei costumi, nelle arti, nei vincoli di sangue”.

Pertanto, i Romani preferivano assimilare gli sconfitti piuttosto che annientarli, salvo che rappresentassero una minaccia per l’ordine e la stabilità, come avvenne, ad esempio, con Cartagine, sulle cui rovine, secondo la tradizione, venne addirittura sparso il sale in modo che non potesse più risorgere.

La chiave di questa saggia strategia politica fu la progressiva concessione della cittadinanza a coloro i quali rappresentavano “il meglio per talento, coraggio, influenza”, come scritto dal retore greco Publio Elio Aristide nel 143 d.C.: ergo, apertura agli stranieri, ma nella misura in cui conveniva a Roma e alle condizioni imposte da quest’ultima.

Chiunque, senza discriminazioni di razza, poteva ambire alla cittadinanza, ma doveva abbracciare i valori che sostanziavano la res publica, contribuendo così a dar vita ad una società multietnica e rigorosamente monoculturale.

Con la consueta dose di pragmatismo, i Romani non esitavano a ricacciare chiunque costituisse un pericolo per gli equilibri costituiti, come accadde sovente alle tribù germaniche che chiedevano il permesso di stanziarsi sulla riva destra del Reno per coltivare la terra.

L’Impero si mostrava intransigente, a tratti persino crudele e anche dopo la “peste antonina” del II secolo d.C., quando si dovette fronteggiare il problema dello spopolamento delle campagne, perseverò nella strategia dell’integrazione “alle sue condizioni”.

Basti pensare alla figura dei dediticii, barbari che letteralmente si consegnavano alle autorità romane con la promessa di avere salva la vita e poi a gruppi venivano collocati nelle varie province, diventando ingranaggi dell’economia imperiale.

Sempre ragioni utilitaristiche determinarono uno storico provvedimento come la Constitutio Antoniniana con cui Caracalla nel 212 d.C. concesse la cittadinanza a tutti coloro che vivevano entro i confini dell’Impero, così moltiplicando le entrate tributarie: avere più cittadini significava avere più contribuenti, quindi maggiori risorse finanziarie per il mantenimento dell’esercito a beneficio della difesa dei confini e del mantenimento dell’ordine interno.

D’altra parte, nel IV secolo un politico, storico e militare romano di origine africana, Aurelio Vittore accusava gli imperatori tardo-antichi di aver attuato una politica di accoglienza troppo generosa, aprendo le frontiere e facendo entrare chiunque, “i buoni e i cattivi, i nobili e gli ignobili e molti barbari”.

A questo punto, ritorna la vexata quaestio inizialmente posta: l’Impero d’Occidente fu distrutto dai barbari entrati a frotte oppure conobbe una fase di transizione verso la genesi dell’Europa moderna?

La verità sta nel mezzo.

Chiedendosi se fino agli albori del V secolo la politica di integrazione degli stranieri avesse dato o meno buoni frutti, la risposta non può che essere affermativa.

Basti pensare che dopo il fatale 31 dicembre 406, giorno in cui masse di barbari attraversarono il Reno ghiacciato, le province occidentali furono difese da Flavio Stilicone, un “meticcio” figlio di un ufficiale di cavalleria di origine vandala e di una donna romana.

Abile tanto con le armi quanto nelle manovre politiche, egli era il custode di Onorio, imperatore d’Occidente solo in apparenza poiché, di fatto, era Stilicone ad avere il potere.

La sua caduta, provocata da una sedizione dell’esercito a sua volta sobillato dal ristretto entourage di Onorio stesso, non poteva capitare in un momento peggiore per l’Impero : in Gallia spadroneggiavano i barbari e l’usurpatore Costantino III sceso dalla Britannia, mentre il re dei Goti Alarico esigeva denaro e terre per il suo popolo.

Non ascoltato, il 24 agosto 410 arrivò a saccheggiare Roma, nuovamente violata dopo otto secoli dai tempi di Brenno.

Eppure, come l’araba fenice, l’Impero parve risorgere grazie a Flavio Costanzo, subentrato a Stilicone nel ruolo di comandante in capo dell’esercito d’Occidente.

Nell’arco di appena un decennio, egli recuperò i territori perduti e come premio fu nominato “Augusto”, ma pochi mesi dopo l’incoronazione morì improvvisamente.

Non vi era davvero pace per il martoriato Impero d’Occidente il cui ultimo sussulto d’orgoglio avvenne sotto l’egida di Flavio Ezio, figlio di un generale di origini scite e di una nobildonna italica, nonché artefice della sconfitta di Attila nella battaglia dei Campi Catalaunici.

Tuttavia, come per Stilicone, la sua morte fu provocata dalle invidie di palazzo: l’imperatore Valentiniano III, istigato dai suoi consiglieri, lo uccise di sua mano durante una riunione nel palazzo imperiale.

Con Ezio, come qualcuno ha scritto, se ne andava “l’ultimo Romano”.

In conclusione, quale fu davvero il ruolo dei barbari nella caduta dell’Impero d’Occidente?

Non si può certo imputare loro tutta la responsabilità della catastrofe, se si pensa che la parte orientale e bizantina sopravvisse fino alla presa turca di Costantinopoli nel 1453.

Infatti, pur sconvolto dalla grave disfatta militare di Adrianopoli contro i Visigoti nel 378, l’Oriente romano per buona parte del V secolo visse una situazione di relativa tranquillità, senza subire attacchi esterni dai Sasanidi e senza guerre civili tra usurpatori che si contendessero il trono.

È evidente, allora, che la vera differenza tra Occidente e Oriente durante la crisi del V secolo fu l’assenza di stabilità politica, temporaneamente raggiunta solo nei dieci anni di potere di Flavio Costanzo, capace in base alle circostanze non solo di respingere usurpatori e barbari con le armi, ma anche di venire a patti con pragmatismo.

Emblematico è il trattato del 419 che stanziava i Visigoti in Aquitania tra Tolosa e Bordeaux, sennonché alla fine del secolo l’accordo era ormai carta straccia e la tribù barbara controllava la Gallia sudoccidentale fino ai Pirenei, la Provenza, le città di Arles e Marsiglia, Clermont, l’Alvernia e quasi tutta la penisola iberica.

Cos’era accaduto?

Molto semplicemente, dopo la morte di Costanzo e, più tardi, di Ezio, il potere tornò nelle mani di sovrani mediocri, avidi e manipolabili, incapaci di trattare con i barbari da una posizione di forza.

I popoli germanici avevano sempre premuto ai confini dell’Impero, sperando di entrarvi non per distruggerlo, ma per godere delle ricchezze e del benessere che offriva.

Roma, dal canto suo, accoglieva e integrava solo chi reputava utile alla sua economia e ai quadri militari e fino agli inizi del V secolo, salvo la drammatica parentesi di Adrianopoli, la gestione del fenomeno migratorio fu sostenibile.

Nel momento in cui, invece, l’Occidente si ritrovò senza una guida e diviso tra fazioni al suo interno, i barbari entrarono in massa senza alcun controllo.

Uno stimato docente di Storia, Bryan Ward-Perkins nel libro “La caduta di Roma e la fine della civiltà” con sagace umorismo scrive che in base a certa letteratura gli stanziamenti germanici in Occidente furono come “un tè nella canonica della parrocchia, cui venga invitato un timido nuovo venuto nel villaggio che potrebbe essere un buon acquisto per la squadra di cricket”.

In realtà, scrive Perkins, “il nuovo venuto non era stato invitato e portò con sé una numerosa famiglia che ignorò i panini imburrati per avventarsi sulle torte”.

La metafora è sottile.

L’immigrazione non è in sé buona o cattiva, piuttosto è utile o dannosa in base a come viene gestita o non gestita.

L’Impero romano non sarebbe mai sorto senza la contaminazione e l’apporto di varie culture le quali però si riconobbero in un’unica identità, come fu per grandi condottieri come Ezio e Stilicone, di sangue misto, ma fedeli a Roma nel cuore e nella mente.

Dr. Jacopo Bracciale

L’autore

Jacopo Bracciale ha conseguito una laurea cum laude in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Teramo con una Tesi in Teoria generale del Diritto sul problema dei principi generali del diritto nella filosofia giuridica italiana. Dal 2020 collabora con la rivista telematica Salvis Juribus come autore di articoli di diritto civile, penale ed amministrativo ed attualmente presta servizio come funzionario amministrativo presso il Consiglio di Stato. Nel tempo libero si è sempre dedicato all’assidua lettura di saggi storici e grazie a Renovatio Imperii ha scoperto un fortissimo interesse per le vicende legate all’antica Roma.