Spesso nella percezione comune l’archeologia appare come qualcosa di vecchio e polveroso: magari bello sì, interessante, qualcosa che si voleva fare da bambini… ma sostanzialmente scollegato dai problemi dell’attualità. Niente di più sbagliato in realtà, poiché l’archeologia, come ogni attività che si svolga nel presente, è più o meno consapevolmente influenzata e indirizzata dalle tendenze attuali, da istanze politiche, sociali, economiche… e anzi, occupandosi di società umane, se pur del passato, è molto meno neutra rispetto ad altre discipline e sono proprio gli interessi del presente a orientare metodi e temi di ricerca, anche quelli apparentemente più astrusi. Basti pensare all’interesse durante il fascismo per i grandi monumenti romani; alla prevalenza nell’archeologia sarda dell’attenzione per la civiltà nuragica, vista come glorioso periodo di indipendenza isolana, anche un po’ a scapito di altre epoche; o al fiorire nel nord Italia, ai tempi ancora secessionisti della Lega, di studi sui Celti e sulla permanenza della loro cultura anche sotto i Romani; oppure ancora all’attenzione nuova che dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento si cominciò ad attribuire agli oggetti comuni, visti non solo come testimonianza della vita quotidiana, ma come espressione delle classi subalterne, in piena connessione con le rivendicazioni sociali e politiche del tempo. Insomma, in archeologia raramente ci si limita a trovare quello che c’è, ma il più delle volte si trova quello che si cerca. Analogo discorso vale per le scienze storiche in generale, tanto da poter dire che la Storia di qualsiasi periodo, finché si ha interesse a studiarla, è sempre Storia contemporanea.
Se di per sé l’attualità dell’archeologia è un fatto positivo, e sola ne giustifica l’esistenza, ci sono però dei rischi connessi di degenerazione, in parte evidenti già dagli esempi che ho riportato, e l’archeologia rischia di perdere la propria onestà intellettuale, facendosi trascinare in conflittualità presenti che, peraltro, spesso ripropongono quelle del passato.
A tal proposito voglio raccontarvi una storia. Nel 1989 a Manhattan, New York, venne scoperta una grande necropoli con le sepolture dei primi coloni. Grande emozione e commozione, che diedero avvio a uno scavo archeologico sistematico, volto alla conoscenza delle origini dell’attuale metropoli e alla creazione di un apposito museo. Tutto bene allora? In realtà no… Ben presto sorsero delle polemiche, che spinsero a intervenire il sindaco e perfino alcuni deputati del Congresso, finché lo scavo non fu bloccato. Qual era il problema? Nulla a che vedere con motivazioni tecniche o scientifiche, insomma di qualità del lavoro svolto. Il problema era che nel team di ricerca vi erano degli archeologi afroamericani e il fatto che dei neri scavassero delle sepolture di bianchi sembrava a molti inaccettabile, quasi una profanazione. Infine, gli archeologi neri furono sostituiti da archeologi bianchi e lo scavò poté riprendere indisturbato ed essere condotto a termine.
Questa storia è certamente una storia di razzismo, non c’è altro modo di definirla: razzismo cui l’archeologia si è piegata in modo becero. Pensate sia incredibile? In effetti la vicenda è verissima. Però devo confessare, cari lettori, che vi ho un po’ presi in giro e ho volutamente invertito i ruoli: gli uomini sepolti nella necropoli erano in verità degli schiavi africani; gli archeologi che se ne occuparono inizialmente erano bianchi e solo per questo ritenuti da molti indegni; i nuovi archeologi mandati a rimpiazzarli, infine, furono esclusivamente neri. Il monumento oggi visitabile è l’African Burial Ground. Ora che ho fatto ammenda della mia “svista” e tutti gli elementi della vicenda sono ricollocati al loro posto, non occorrono ulteriori commenti: giudicate voi!
Filippo Molteni