Virtus romana: la riscoperta dell’età classica negli eserciti moderni e napoleonici

Virtus romana: la riscoperta dell’età classica negli eserciti moderni e napoleonici

<< La resurrezione dei morti servì dunque in quelle rivoluzioni a magnificare le nuove lotte, non a parodiare le antiche; a esaltare la fantasia e i compiti che si ponevano, non a sfuggire alla loro realizzazione […] >>

Così enunciava un giovane Karl Marx agli albori della nazionalizzazione delle masse, focolaio di rivoluzioni ed eventi epocali. Correva l’anno 1852, negli stessi mesi dei moti risorgimentali, l’intellettuale tedesco notava sempre più come la Storia facesse il suo corso e i suoi ricorsi. Identicamente non una ma ben due, tre, quattro volte, all’infinito (ri)accadono gli eventi. Questo vale tanto nella politica quanto per la guerra. Se si assisteva impotenti alla salita al potere di un novello Napoleone, il terzo, cogli stessi colpi di mano del suo precedente omonimo, Marx rifletteva anche sul recupero del passato. In particolare, l’esempio delle antichità romane. Una grande civiltà lunga secoli che ha plasmato una “forma mentis” durevole, esemplare, nel diritto e nelle arti, sia negli usi che nei costumi. Tuttavia, cosa celebra i fasti classici meglio delle sue spettacolari armate? La religione civile dei consoli e dei magistrati è oscurata. Il culto militare che generali come Alessandro, Annibale o Cesare evocano a distanza di millenni è tale da suscitare la passione di chiunque ne legga le gesta. Accade così che i generali di mezzo continente europeo, per nobilitarsi in vista della propria “grandeaur”, riscoprano con piacere le letture greco-latine. Da Erodoto a Senofonte, passando per Vegezio e Arriano. Si potevano recuperare le strategie degli antichi? Aveva senso adottarne le tattiche e metterne i simboli nuovamente in auge? Risultava conveniente rievocare le legioni in luogo dei reggimenti? Fiumi d’inchiostro sarebbero stati scritti a riguardo…

Partiamo dal principio. Agli albori del secolo diciottesimo la guerra è un’esplosione di brutalità, polvere da sparo, genio tattico e fortuna. I grandi confronti d’armata vengono decisi oltre che dalla potenza di fuoco anche dall’ingegno dei generali. Ogni idea era messa in atto e, in caso di vittoria, replicata e dal nemico emulata. Il secolo dei lumi aveva dato accesso al pensiero sofisticato e al calcolo sui campi di battaglia. Francesco Algarotti, patrizio veneziano esperto nei “discorsi militari” ripeté più volte, nelle diverse corti dov’era ospitato, quanto la matematica si confacesse al leader. I calcoli risultano fondamentali per l’artiglieria, per il calibro, le libbre e le distanze. Scriveva che << […] gli ottimi duci degli esserciti e della militia debbono qualificarsi periti nella geometria [per capire su che suolo combattere], nella cosmografia [per capire se le condizioni ambientali e astrali saranno favorevoli] e nell’astrologia [cercando di estrapolare una previsione] >>. Aveva preso spunto dai testi religiosi pagani. Esoterismo a parte, il bisogno della formazione accademica degli ufficiali fu una necessità avvertita a lungo. Già monarchi come Luigi XIV “Roi Soleil” avevano finanziato la costruzione di accademie, lasciandone beneficiare non solo i ceti nobiliari. Nacquero infatti i “borsisti”, coloro che vincevano i bandi di concorso per entrare a far parte di quella didattica altrimenti preclusa ai più poveri. Tra loro vi erano non solo cadetti ma anche scienziati e filosofi. Ogni branchia del sapere apportava il proprio contributo per armonizzare un ambiente culturale senza pari. Una conoscenza a tutto tondo, un’educazione disciplinare di tipo “circolare”, secondo il concetto greco di “EnkylosPaideia” e da cui si sarebbe originata la “Enciclopedia”. Ci si rifaceva alla mitica Biblioteca d’Alessandria, un modello rimasto insuperato. Il Settecento è altresì, fin dai primi anni, un secolo di innovazione, specie scientifica.

Lo stesso Algarotti cercò di ricollegarla alla guerra, sottolineando in particolar modo come le invenzioni dovessero asservirle come equilibrio tra forza bruta e virtù umana. Provò perdippiù a combinarla con le filosofie del suo tempo, definendo la passione che arde nei cuori di chi combatte come una carica di tensione che si propaga, che aleggia, che affranca gli animi dal timore. E’ una saetta a ciel sereno che viene a sprigionarsi solo con l’esempio del comandante, le cui parole si diffondono come nubi tra le fila dei soldati: “Vapore Elettrico” lo chiamava. Oltre a questi tentativi grossolani di re-inventare l’arte della guerra, Algarotti scoprì con piacere i “Commentarii” cesariani. In essi Algarotti estrapola la necessità della “celeritas”. In guerra è fondamentale fornire, con buona rapidità, ai soldati il miglior supporto logistico per garantirne il massimo dell’efficienza. Ecco allora che le preoccupazioni dello stato maggiore vertono sulla questione delle vettovaglie. Come debbono essere trasportate? In che sistema? Tutte assieme?

Dai resoconti della campagna gallica, Cesare sintetizza due tipologie di marcia principali da adottare su suolo nemico. Una volta fatta l’avanscoperta e mappato il territorio si procede per tre diversi ordini di itinerario. L’esercito è diviso in tre macro-linee (“Agmen Tripartitum”) che attraversano le radure e le valli scoperte per un buon tratto. Esse vengono divise in questa maniera per percorrere ampie porzioni di territorio simultaneamente, nel minor tempo possibile e occupandone gli avamposti. Una volta raggiunta la linea del “fronte” propriamente detto occorre ricongiungere i contingenti. Ecco allora che i rifornimenti (“impedimenta”) sono spostati al centro di un’unica linea di manovra ampia ed estesa (“Agmen Pilatum”). Lo schieramento ora, più numeroso e meglio equipaggiato, è pronto a resistere ad attacchi veementi ed improvvisi. La fanteria ha la sua forza non nel singolo ma nel tutt’uno.
Algarotti infine propone la questione etico-morale: Cesare militava per senso civico e non per soldi. Facendosi fautore del vecchio pregiudizio tra la casta guerriera e i mercenari, il noto esperto si cimenta nella teoresi del senso patriottico. Nella cronaca del Rubicone e di Farsalo abbiamo l’exemplum massimo che può darci il famoso “dictator”: la rapidità d’azione e l’orgoglio per la propria fazione. A Farsalo infatti non vinsero i Pompeiani, scrive l’autore a metà secolo, proprio a causa della mancanza di un senso d’appartenenza. Ad imbracciare scudo e lancia non erano i cittadini di una nazione in pericolo ma soldataglia di irregolari avidi e corrotti. I “milites” del condottiero dovevano legarsi al proprio eroe come fosse un padre, non un notaio al quale richiedere la paga.

Riguardo il secolare pregiudizio di coloro che combattono per tradizione nei confronti di coloro che guerreggiano per sola professione, ricorre alla mente un altro autore. Monsieur De Pas, Marquis de Feuquières, a cavallo del Sei/Settecento, teorizzò un ritorno alle guerre “di lega”. Mi spiego meglio. Accadeva in quegli anni che gli equilibri geo-politici europei risultassero ciclicamente infranti dalle conquiste militari quasi annuali. Ad esempio l’egemonia francese concretizzò la crisi dinastica spagnola, causando una guerra di successione che insanguinò l’Europa per oltre quindici anni. Al termine del conflitto ci si adoperò per formare delle alleanze, le “leghe”. Recuperando le cronache Liviane sull’espansionismo romano repubblicano, si guardò con interesse al fenomeno dei “socii”. Quest’ultimi non erano altro che i componenti delle popolazioni inglobate nell’Orbs romana e nella stessa reclutate, dietro contratto di alleanza, per il servizio militare, favorendone l’integrazione e la sudditanza. La fedeltà era questione di appartenenza. Come ci si poteva fidare di coloro che combattevano su di un fronte per poi abbandonarlo in favore di altre fazioni prima avversarie? Il mercenariato è deplorevole. La decisione dev’essere ferma e irrevocabile. Vanno privilegiati i sudditi e non i professionisti. L’unica retribuzione dev’essere il merito. Ricompensare con i gradi militari i più valorosi, quasi fossero novelli “centuriones”. Occorre infine svuotare i ranghi di tutti gli aristocratici, ormai decadenti e << […] di proverbiale mollezza nella condotta […] >> (riprendendo i biasimi di Procopio sulla decadenza sociale).
Inutile dire che il Marchese non vide mai un simile cambiamento. Dopotutto siamo ancora nella società del privilegio, l’Ancient Regìme.

Un suo conterraneo, tal Puysegur, sostiene le stesse motivazioni. Egli aggiunge, inoltre, il bisogno di ritornare alla “frugalitas”, di abbattere la centralità di fama e potere nel sistema educativo. Le nuove generazioni di cadetti dovranno trascorrere le proprie campagne militari tra i disagi della truppa. Debbono constatarne coi propri occhi le condizioni. Si carpirà solo così lo spirito della stessa per poterne meglio disporre durante le esercitazioni, le adunanze e le manovre. E a proposito di manovre, quest’ultime abbisognano di una maggiore semplicità. Accade infatti che i coscritti richiamati a servizio siano semplici contadini o artigiani che nulla sanno della disciplina. Non hanno frequentato alcun corso di formazione né sostenuto un addestramento. Sono perciò inadatte a combattere eseguendo ordini complessi, troppo artificiosi. Le tattiche militari falliscono proprio per questo.
<< [vedrete] presentarsi innanzi al nemico in ordine naturale [le nostre truppe] >> aveva promesso più volte ai ciambellani di Versailles. La sua teoria proponeva una formazione su più linee in base non al censo o al regime tributario (come nelle antiche falangi di arcaica memoria).

La disposizione rispettava le età di coscrizione.
Davanti i giovani, i quali avrebbero ingaggiato per primi il nemico con azioni di disturbo; “tirando” col proprio moschetto e ripiegando velocemente, sull’esempio dei “velites”, che nella prima età repubblicana agivano allo stesso modo in legione. Dietro coloro che avevano più esperienza alle spalle, fino ad arrivare alla terza linea, composta dai veterani meglio equipaggiati. Un ovvio riferimento ai “triarii” romani.

Un accenno ancora più evidente alle strategie di età romano-imperiale lo si ritrova nel classicista Carlo de Folard. Nato da una nobile famiglia di Avignone, fu definito il “Vegezio francese”, attivo nei salotti del buon costume quanto nel gabinetto reale. Intraprese la prima campagna militare come luogotenente alla sola età di diciannove anni. La sua proposta era di “alleggerire” le tattiche in colonna adoperate per il fuoco in linea dimodochè ci si potesse muovere per manovre di accerchiamento. Perché rendersi autori di autentiche carneficine? Inutile affrontare il nemico frontalmente, si rischiano troppe perdite. Ecco allora la soluzione: suddividere in sotto-reggimenti sempre più piccoli l’intero corpo d’armata. Non solo! Spartire a loro volta i reggimenti in sei compagnie, sull’identico modello della “Cohors” romana composta di sei “centuriae”. Queste compagnie avrebbero agito in diversi raggi d’azione, confondendo la percezione che l’avversario aveva della realtà. Senza dimenticarsi di celare col fuoco d’artiglieria i singoli movimenti. Come assicurarsi tutt’al più una ritirata sicura in caso di fallimento? In modo speculare della disposizione antica, ai lati (“alae”) dell’esercito o delle sue componenti avrebbero fatto la loro comparsa i cavalleggeri. Questi potevano spostarsi agilmente su diversi terreni e quasi sempre penetrare a fondo le fila nemiche. L’unica pecca dell’edificio teorico concepito da Folard consisteva proprio nelle basi. La potenza di fuoco in grado di annientare la resistenza era tanto efficace quanto numerosa. Se più moschetti (“fucìles”) potevano aprire il fuoco, v’era maggiore probabilità di falciare il bersaglio. Come anche solo si può ricorrere alla potenza di fuoco se tutto l’esercito è frammentato? Infine, sappiamo che il noto ufficiale insegnò agli attendenti il “muro di baionette”, innastate su fucili come se fossero punte di lancia di una falange. Pratica in rapida diffusione agli inizi del diciottesimo secolo.

Per sopperire alle lacune di un’eccessiva suddivisione reggimentale, diversi autori successivi proposero la frammentazione sì in compagnie del reggimento ma con l’unione delle compagnie stesse a due o a tre. Chiariamo ulteriormente. Come il raggruppamento di due o tre “centuriae” in un unico sotto-insieme detto “Manipulus” (ossia “piccola mano”, dall’insegna di riconoscimento e dalla natura avvolgente delle tattiche per cui erano impiegati), le compagnie prima disturberanno il nemico singolarmente e poi andranno a convergere per formulare un attacco congiunto, un assalto (“impetum”), laddove il nemico è più debole. E’ un qualcosa di completamente nuovo e che viene incontro alle esigenze del tiro di reggimento.
Resta tuttavia il paradosso di cui sopra: come impiegare in tattiche così avanzate le masse di analfabeti senza esperienza? Il problema fu ereditato da tutte le correnti di pensiero senza soluzione di continuità. Fu il generale inglese Sir Loyd a formulare definitivamente quanto di più irrisolto rimaneva negli asintoti sin qui formulati. Egli mise assieme la “celeritas” cesariana di Algarotti, la mancanza pompeiana della “frugalitas”, la semplicità di manovra correlata alla semplicità morale, la lealtà contrapposta alla corruzione mercenaria. Così enuncia: << Uomini infiammati dal fuoco della libertà […] saranno sempre superiori a soldati mercenari, i quali combattono solo per l’autorità di un padrone […] Un esercito, anche se inferiore di forze, ma dotato di un’attività superiore, previene tutti i movimenti del nemico. Esso può, colla rapidità delle mosse, procurarsi la superiorità numerica sul campo […] vantaggio decisivo […] >>. Perdippiù il lord inglese concepì come arma di risoluzione l’artiglieria e l’uso mirato che se ne può fare della stessa. Ecco allora il ritorno dell’esigenza di eccellere nello studio matematico. Non basta saper mirare, occorre calcolare la perfezione. Egli continua: <<Un generale che, per la superiorità della manovra delle sue truppe o per la loro abilità, riesca a mettere contemporaneamente in azione un maggior numero di uomini sopra uno stesso punto [di cedimento, ove possa verificarsi la ritirata nemica, secondo la nozione greca di “τρόπαιο”, “trophè”] sarà necessariamente vittorioso >>.

E a proposito di un uomo forte, risoluto e capace di organizzare l’artiglieria in modo armonico gli eserciti; che possa fare affidamento su soldati caparbi, forgiati da anni di guerre (specie sul fronte interno), il quale sappia ispirare la fedeltà di una nazione, la Francia aveva finalmente partorito il “restitutor” della sua grandezza: Napoleone B(u)onaparte. Il “parvenù” dal trionfo inatteso.

Durante le guerre rivoluzionarie, i francesi, ora non più sudditi di una corona invisa ma fieri cittadini della novella “Res Publica”, sperimentarono il fenomeno della guerra di logoramento. Le leghe di stati avevano ceduto il passo alle alleanze continentali: le coalizioni. Spedizioni su spedizioni, nuove invasioni e le reti spionistiche straniere avevano portato la guerra per le strade delle città. Disordini, rapine e violenze erano all’ordine del giorno. Si era cercato di porre un freno a questa escalation attraverso la costituzione di un corpo statale di armati: la “garde nationale”. Questa, reclutata tra i giovani più infervorati dallo spirito rivoluzionario, armata con quanto di meglio riuscissero a fornire le caserme di tutta la nazione, presidiavano i confini interni ed esterni in egual misura. Ordine pubblico, difesa delle piazzeforti e sostegno alla popolazione. Sostituendo i legami dell’intimità e dell’amicizia, il patriottismo aveva plasmato un nuovo “battaglione sacro” unito non meno di quello tebano. Contrapposti alla milizia vi erano i sanculotti. Quest’ultimi erano nientemeno che i cittadini armati di moschetto e falci che davano sfogo ad anni di prevaricazione sia sociale sia economica in pericolosi assembramenti spontanei. Erano vestiti secondo lo schema propagandistico della moda anti-nobiliare. Le braghe corte in velluto e morbida seta (“culottes”) erano sostituite dai lunghi pantaloni in povero tessuto (“sans-culottes”), da cui la loro denominazione. Emblema d’appartenenza con la coccarda tricolore alla nuova spirale rivoluzionaria.
Erano i protagonisti delle sommosse reazionarie e fautori del rovesciamento istituzionale di ciò che rimaneva dell’orfù monarchia. Il giuramento della pallacorda, nella dialettica di quei mesi, veniva paragonato al riscatto di Bruto dall’onta dei Tarquini. Ci si poneva in contiguo con i grandi eroi classici.

Quando ventimila rivoluzionari posero fine al regime “democratico” di re Luigi nell’estate del 1792, assaltando il “Palais de les Tuileries”, si mostrò sotto gli occhi compiaciuti dei generali cittadini un nuovo ordine di manovra. I sanculotti, supportati dalla milizia, avevano sferrato una serie di assalti in rapida sequenza. Negli angusti spazi cittadini piccole compagnie di rivoltosi erano così organizzate: giovani e caparbi sul davanti, armati di torce e randelli, immediatamente dietro prendeva posto una linea di Sanculotti di comprovata fedeltà alla Costituzione, armati di lame e moschetti d’ogni sorta. Infine, sulla terza linea, si appostavano i soldati delle truppe regolari per fornire supporto e copertura di fuoco. La formazione così strutturata risultò vincente. Anche settimane dopo, durante i massacri settembrini e l’eliminazione fisica degli oppositori anti-rivoluzionari, si ripete lo stesso prodigio. Con le truppe Austro-Prussiane alle porte da nord, si propone alla Convenzione Nazionale di sostituire le tattiche di linea, troppo obsolete, per quelle più dinamiche delle brigate; derivate dalle compagnie di reggimento descritte poc’anzi. Tuttavia, se il reggimento è la coorte, le brigate sono i manipoli, per i raggruppamenti armati pronti al trasferimento e di rapida azione come fare? Si coniarono allora le “demìs-brigades”, le brigate a metà. Esse replicavano il dispiegamento su tre linee a lungo concepito nelle accademie settecentesche. Furono ben presto adottate, rivelandosi strumento efficace. La prime due linee stabilivano l’ordine per età, grado ed esperienza. La terza ed ultima s’avvaleva dei veterani di età regia. Quest’ultimi, oltre ad indossare quale distintivo d’appartenenza la divisa bianca-candida di regia memoria, portavano sul capo non l’usuale tricorno ma il “Tarleton”. Un berretto conico, come un “casco”, dal latino “cassis”, l’elmo romano per eccellenza, munito di visiera e cresta trasversale. Una criniera o un cimiero correva lungo tutta la sommità, colorato in base al reggimento di compagnia. Come non pensare allora agli elmi degli antichi “duces”? Un altro aspetto classicheggiante di un’età, quella dei Lumi, capace di farsi carico dell’eredità culturale classica.

Furono solo queste le innovazioni? Niente affatto!
Quale genere di tattica era prevista per le “brigate a metà” capaci di essere tanto rapide quanto facilmente manovrabili? Il famigerato “ordine obliquo”. Era stato sperimentato fin dai tempi dell’imperialismo prussiano di Federico II “il grande”; quando la spinta espansionistica sull’asse sud-sudest (la celeberrima “Drang Nach Osten”) aveva forgiato nuove generazioni di combattenti.

L’ordine obliquo veniva spesso ripreso nei discorsi dei dotti, durante discussioni di tesi per i diplomi accademici o nelle riunioni dei grandi ministri della guerra. Tuttavia faceva capo ad un sistema di combattimento diametralmente differente. La grande strategia degli eserciti moderni non andava oltre le pesanti linee di tiro che, è il caso di ripeterlo, potevano garantire maggiore potenza di fuoco. I corpi d’armata erano così sterminati nelle dimensioni da poter essere coinvolte solo in attacchi frontali. L’esito di quest’ultimi era determinato dal cedimento di uno dei due eserciti. Un metodo brutale oltre che primitivo. L’Hoenzollern aveva optato quindi per una chiave di risoluzione molto più elaborata. Si era ispirato alle imprese nella Gallia Belgica di Tito Labieno, comandante di cavalleria al seguito di Cesare. Adoperando la celerità dei suoi “equites”, il tribuno aveva facilmente aggirato la massa gallo-germanica riparata dietro un muro di scudi (“Foulkon”), quindi impenetrabile frontalmente, attraverso azioni fulminee sui lati e sul retro. Inutile dire che fu un vero e proprio scaccomatto alle forze d’opposizione nemiche. Se rapportata questa tattica ai fanti appiedati (“pedites”) che nel Settecento erano predisposte allo scontro in massa (“catervarius”) proprio come quelle antiche, abbiamo una disposizione di uomini in alternanza, “sfalsata” per così dire. Le diverse compagnie di reggimento sono posizionate non in linea contigua ma a scacchiera (non ricorda forse la tattica manipolare adoperata da Scipione a Zama?). Così facendo lo schieramento agiva in profondità con corridoi comodi per il cambio della linea o il rientro della stessa dopo le azioni di disturbo e di aggiramento. Grazie a queste manovre “a tenaglia” il re di Prussia garantì fama e successo ai suoi eserciti. Guilbert, studioso francese in quegli anni di rivalsa teutonica, avrebbe teorizzato un uso ulteriore dell’aggiramento operato dai fanti. Esso avrebbe agito in due fasi: la prima attraverso l’ordine obliquo dei soldati, il secondo avrebbe di nuovo fatto riferimento alla cavalleria. Il ruolo dei cavalleggeri era di “celere avanguardia” in grado di falciare i nemici in rotta e romperne i collegamenti con le retrovie. Nel testo appositamente composto per imitare re Federico, si citano espressamente i cavalieri delle ali dello schieramento con la parola “celeres”. Un riferimento alla loro repentina azione di guerra? O un ricordo dei “celeres” della guardia personale di Romolo?

Il colpo di grazia alle residue forze nemiche, sul campo di battaglia, lo avrebbero inflitto le artiglierie, di cui Napoleone fu un vero maestro. Grande innovazione della modernità nella lotta tra fanterie. Le “Demìs-Brigades” avrebbero garantito, lungo gli itinerari che si snidavano da Parigi verso l’Europa, vittorie e trionfi al futuro “empereur”. Aveva inizio l’ultima età d’oro dell’arte militare pre-contemporanea. Basata sull’imitazione, a tratti riuscita e a tratti soltanto parodiata, dei dispiegamenti falangitici e legionari. Come nel Rinascimento, il Neoclassicismo aveva dato lustro alle antiche tattiche militari in uno scenario europeo dove i reggimenti parevano assurgere a ruolo di “legioni redivive”. Come fantasmi di una tradizione, quella greco-romana, scomparsa da secoli ma sempre in agguato per risorgere a canone d’innovazione.
Concludiamo esattamente come abbiamo esordito. Marx scrisse a riguardo dei ricorsi storici tra passato e presente:

<< La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionarie essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli a loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento […] la nuova scena della Storia >>.

 

Francesco Rossi

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