Essere schiavi a Roma

Essere schiavi a Roma

Secondo la dottrina dei tre status a Roma poteva godere di piena capacità giuridica soltanto chi era contemporaneamente in possesso dello status civitatis, familiae e libertatis. Il possesso di questo ultimo status, l’essere cioè un uomo libero, era la prima condizione per poter godere a Roma della capacità giuridica: gli schiavi infatti ne erano fondamentalmente privi.

Quello della schiavitù è un istituto del diritto romano molto antico: esso infatti era già noto alle XII Tavole risalenti al 451/450 a.C. La sua importanza crebbe considerevolmente grazie alle numerose guerre vittoriose e alla conseguente cattura di un sempre maggior numero di prigionieri, fattore che fece conoscere all’istituto una diffusione su larga scala nella repubblica.

Con la cattura il prigioniero diventava schiavo, e un’autorità pubblica si occupava della loro successiva vendita affinché questi potessero essere acquistati in proprietà dai privati. Ovviamente questa regola valeva sia per i nemici catturati dai Romani che per i Romani imprigionati dai nemici. Tuttavia, essendo malvista la riduzione in schiavitù in patria dei cittadini, era per loro previsto un apposito istituto, lo “ius postliminii”, che ne avrebbe garantito la libertà e la cittadinanza in caso di ritorno, oltre che il ripristino della loro situazione patrimoniale precedente alla prigionia.

La posizione dei servi, nella considerazione dei giuristi, è complessa, se non addirittura contraddittoria. Il giureconsulto Gaio infatti distingue il ius a seconda che riguardi personae, res o actiones, sì da pensare che se un’entità è “cosa”, non può essere “persona” e viceversa. I servi invece quali esseri umani sono sì fatti rientrare tra le personae, ma sono allo stesso tempo “cose” in quanto possibili oggetti di proprietà e di altri diritti soggettivi: più specificamente, gli schiavi sono “res mancipi” e come tali assoggettati al relativo regime. Essi non sono giuridicamente capaci, e quindi non può a loro imputarsi alcun diritto soggettivo o potestà o obbligo giuridico; le unioni, anche stabili, tra servo e serva non hanno rilievo per il diritto: esse non sono “matrimonium” ma “contubernium”, e di conseguenza non hanno rilievo giuridico i vincoli tra genitori e figli, né tra congiunti legati da vincoli di sangue. Da ciò deriva anche il potere dei proprietari di separare le famiglie servili di fatto costituitesi.

Gli schiavi erano persone alieni iuris in quanto assoggettate ad altrui potestà: quella del dominus, sotto la sua dominica potestas, nel suo dominium ex iure Quiritium. In virtù di ciò il padrone esercitava sui servi un potere assoluto, pure ius vitae ac necis (di vita e di morte).

La considerazione dei servi come persone e ragioni umanitarie – ispirate da concezioni filosofiche greche, dallo stoicismo e, in seguito, dalla dottrina cristiana – suggerirono diversi temperamenti alla considerazione dei servi quali cose, limitando di fatto il potere personale dei proprietari, tanto da giungere, con Giustiniano, al riconoscimento di un limitato valore giuridico alle famiglie servili.

I servi erano ovviamente alieni iuris e come tali privi di capacità giuridica. Era però riconosciuta loro una sorta di capacità di agire, avendo certi loro comportamenti volontari rilevanza giuridica: gli schiavi, infatti, potevano compiere atti capaci di migliorare (e mai di peggiorare) la posizione giuridico-patrimoniale del loro dominus. Essi fungevano pertanto anche da organi di acquisto del padrone: potevano partecipare ai negozi che comportassero acquisto di diritti soggettivi, quali mancipatio, traditio e stipulatio, con l’unica peculiarità data dal fatto che a diventare titolare della proprietà o del credito non era il servo partecipante al negozio, ma il proprietario.

Il peculio

Per quanto riguarda invece tutti quegli atti leciti diversi da quelli di acquisto (ossia quelli di disposizione e di assunzione di debiti) essi, se compiuti da schiavi, avrebbero dovuto essere completamente inefficaci dal punto di vista del diritto: non potendo avere nulla di proprio, il servo non poteva disporre di alcunché, e non essendo giuridicamente capace non avrebbe potuto obbligare se stesso, né poteva peggiorare la posizione patrimoniale del suo dominus, e quindi nessun negozio compiuto dallo schiavo avrebbe potuto far sorgere obbligazioni a carico del proprietario. Già dall’epoca arcaica1 esisteva però la prassi di concedere ai servi un peculio – un gruzzoletto di denaro, in origine – che il servo poteva guadagnarsi tramite il proprio lavoro o qualche occasionale attività commerciale. In seguito tale peculio andò includendo anche altri tipi di beni, persino altri schiavi e immobili. Ovviamente proprietario del peculio restava il dominus, ma l’istituto permetteva ai servi di poter agire in deroga al divieto che impediva loro di compiere atti che potevano trasferire il possesso delle res peculiari e potevano persino traferirne il possesso anche se si trattava di res mancipi, salva ovviamente la facoltà del padrone di revocare il peculio in ogni momento (ademptio peculii).

Gli schiavi in possesso di un peculio potevano con esso trafficare con i terzi accrescendolo o spendendolo, e ciò significava anche far onore agli impegni assunti. Naturale conseguenza di ciò fu il riconoscimento, prima in fatto che in diritto, della capacità dei servi di poter adempiere validamente agli obblighi assunti con atto lecito, pure se i terzi non avrebbero mai potuto costringerli: uno schiavo infatti non avrebbe potuto stare in giudizio e il dominus non rispondeva dei loro obblighi. Da ciò derivava l’impossibilità, per il proprietario, di pretendere dal terzo la restituzione di quanto il servo gli avesse dato in adempimento di un proprio obbligo, oltre che il riconoscimento, in età classica2, della capacità del servo di poter assumere obligationes da atto lecito, seppur solo obligationes naturales e non civiles. Queste ultime, infatti, erano le obbligazioni vere e proprie per cui il creditore avrebbe potuto, con un’actio in personam, convenire il debitore in giudizio. Le obligationes naturales, al contrario, non davano luogo ad actiones ma consentivano al creditore di ricorrere alla “soluti retentio”, che gli permetteva soltanto di trattenere quanto ricevuto in adempimento (“solutum”).

Le azioni adiettizie

Con la crescita dell’economia romana l’esigenza di utilizzare i servi nella gestione degli affari del dominus fu avvertita con sempre maggiore intensità. Di conseguenza si rese necessario assicurare i terzi sul fatto che il servo avrebbe fatto onore ai propri impegni: non era infatti possibile pretendere che i terzi dovessero fare affidamento unicamente sullo spontaneo adempimento da parte dello schiavo. Il pretore provvide allora a creare uno strumento giudiziario che garantisse loro l’adempimento da parte dei servi: a partire dal II secolo a.C. egli andò promettendo nel proprio editto che avrebbe fornito ai creditori da atto lecito di servo altrui alcune actiones contro il dominus. In queste “actiones adiectictiae qualitatis” veniva in considerazione una responsabilità “aggiunta”: quella del dominus, che si aggiungeva, appunto, a quella “naturale” del servo.

Queste “azioni adiettizie” erano diverse, le più importanti delle quali erano l’actio quod iussu, l’actio exercitoria, l’actio institoria, l’actio de peculio et de in rem verso. Nelle prime tre actiones il dominus rispondeva dell’intero debito contratto dallo schiavo, nell’ ultima la sua responsabilità non andava oltre certi limiti.

L’actio quod iussu (che prende il nome dalle prime parole della relativa clausola edittale) presupponeva che l’obbligazione del servo fosse stata assunta in seguito ad autorizzazione del dominus nei confronti del terzo: permettendogli di contrarre con lo schiavo, il dominus assumeva conseguentemente ogni “periculum” derivante dal negozio.

L’actio exercitoria presupponeva, invece, che il proprietario dello schiavo fosse un exercitor navis (un armatore), il quale poteva affidare la gestione e l’amministrazione della nave ad un proprio schiavo, che assumeva il ruolo di magister navis. Ai creditori veniva concessa, contro il dominus, l’actio exercitoria per tutti i debiti contratti dal servo nell’ambito della sua attività.

L’actio institoria, invece, veniva utilizzata contro il padrone che aveva preposto, quale institor, (direttore, sorvegliante) un suo servo in relazione ad una certa attività economica.

L’ultima azione adiettizia, l’actio de peculio et de in rem verso, era caratterizzata, invece, dall’esistenza di due taxationes nella relativa formula. Una era de peculio e presupponeva che il servo disponesse di un peculio: per essa la responsabilità del dominus per i debiti (naturali) assunti dallo schiavo nella gestione del “gruzzolo” non andava oltre il valore del peculio stesso. L’altra taxatio era de in rem verso; presupponeva un arricchimento del dominus, e per essa il padrone stesso, mancando o risultando insufficiente il peculio, rispondeva dei debiti del servo nei limiti di quanto lo stesso dominus avesse ottenuto concretamente un vantaggio in dipendenza dell’obbligazione assunta dal suo schiavo.

Le liti di libertà

Lo status libertatis poteva essere oggetto di contestazione. Quando ciò accadeva doveva essere istituito un processo di libertà (“causa liberalis”), che poteva essere una vindicatio in libertatem ex servitute – nel caso di libero che viveva come schiavo – oppure una vindicatio in servitutem ex libertate, nel caso opposto.

È interessante notare che la persona al centro della lite non era, da un punto di vista formale il soggetto dell’actio, ma l’oggetto. Ad essere parte nel giudizio, in rappresentanza di colui sul cui status si disputava, era l’adsertor in libertatem, con il ruolo di attore o convenuto a seconda dei casi: la lite si svolgeva quindi tra l’adsertor da una parte e il presunto dominus dall’altra. La ragione di tutto ciò risiedeva nel fatto che uno schiavo non poteva stare in giudizio, essendo sprovvisto di capacità giuridica: essendo lo status libertatis incerto fino alla sentenza, era necessario che qualcuno rappresentasse il presunto schiavo (o libero) in giudizio. Solo con Giustiniano venne abolita la necessaria presenza dell’adsertor, consentendo così all’interessato di litigare personalmente pro sua libertatem.

La cessazione dello stato di schiavitù

A Roma uno schiavo poteva acquisire lo status libertatis in diversi modi, diventando così, in contrapposizione agli ingenui nati liberi, liberti.

Per il ius civile romano esistevano tre diversi tipi di manumissio, atto con il quale il dominus affrancava lo schiavo dalla sua condizione servile: la manumissio vindicta, la manumissio censu e la manumissio testamento. Grazie a queste manumissio lo schiavo, oltre alla libertà, acquistava anche la cittadinanza romana.

La manumissio vindicta era un negozio antico e solenne. Si svolgeva in iure dinanzi al magistrato, presenti il dominus e lo schiavo. In origine si trattava si una finta vindicatio in libertatem, nella quale l’adsertor toccava con una bacchetta (festuca o vindicta, da cui il nome dell’atto) lo schiavo, dichiarandolo libero. Il dominus non si opponeva e il magistrato pronunciava quindi l’addictio secundum libertatem, facendo acquisire al servo la libertà. Nel corso del tempo tale atto andò semplificandosi sempre più, tanto che con Giustiniano il dominus avrebbe semplicemente dovuto dichiarare la sua volontà al magistrato.

La manumissio censu, assai meno praticata della precedente, veniva compiuta in occasione della redazione delle liste del censo, effettuata ogni cinque anni. Era sufficiente per il dominus autorizzare, probabilmente con formule solenni, il censore a iscrivere nelle liste il nome del servo.

La più importante e diffusa forma di manumissione era però certamente la manumissio testamento, risalente già alle XII Tavole. A differenza delle precedenti era una disposizione mortis causa, e aveva quindi effetto solo dopo la morte del testatore. Occorreva, affinché fosse valida, utilizzare termini imperativi (ad esempio “Stichus servus meus liber esto”, “il mio schiavo Stico sia libero”), e potevano essere apposte condizioni sospensive o termini iniziali. Il servo così liberato diveniva “libertus Orcinus” (in relazione al padrone affrancante che era l’”Orco”).

Con il tempo, a partire dagli ultimi anni della repubblica, vennero introdotte numerosi prassi alternative per liberare gli schiavi, in particolare la manumissio inter amicos, effettuata con una dichiarazione informale del dominus ad una cerchia di “amici” e per epistulam, cioè per iscritto, tramite semplice lettera. In questo caso, non essendo queste forme proprie del ius civile romano, gli schiavi non acquistavano la libertà, sicché in pratica sarebbero unicamente vissuti come uomini liberi. Il pretore li avrebbe anche tutelati negando al dominus l’accesso alla vindicatio in servitutem.

Altra prassi che andò consolidandosi durante l’età classica è la manumissio fidecommissaria. Era una manumissione indiretta: infatti tramite essa un testatore obbligava l’erede (o altro obbligato), il quale avrebbe dovuto liberare lo schiavo tramite una delle manumissio inter vivos a disposizione. In caso di rifiuto, l’onerato avrebbe potuto essere costretto ad ottemperare dal praetor fideicommissarius, e, in un secondo tempo, si ammise che l’organo giudiziario potesse, persistendo il rifiuto dell’onerato, attribuire direttamente la libertà allo schiavo con sentenza costitutiva.

Altre forme di manumissio presero forma durante l’età postclassica e con l’affermarsi del cristianesimo nell’impero, ad esempio la manumissio in sacrosanctis ecclesiis, tramite la quale il dominus poteva rendere libero il proprio servo dichiarando la sua volontà dinanzi all’assemblea dei fedeli presieduta dal vescovo.

In sostanza, ricollegandoci all’incipit dell’articolo, è evidente che la vita di uno schiavo, a Roma, potesse essere in prospettiva molto migliore rispetto quella delle controparti presso altre civiltà. Questo non tanto perché titolari di diritti di sorta, essendo loro in ogni caso schiavi ed avendo il dominus persino il diritto di vita e di morte su di essi. Ciò che però rende veramente unica la posizione del servo a Roma, a parere di chi scrive, è l’impareggiabile prospettiva, persino per uno schiavo, una “cosa” di altrui proprietà, di poter concretamente giungere, nel corso della propria vita, ad ottenere pieni diritti e anche di più: uno schiavo liberato non solo, infatti, riotteneva la libertà, ma diventava cittadino, con tutti i vantaggi che ne derivavano. Inoltre i Romani erano molto inclini ad effettuare la manumissio degli schiavi, tanto che durante il principato di Augusto vennero emanate ben due leggi, la lex Fufia Caninia e la lex Aelia Sentia per limitare la libertà di manumissione nelle forme civili, che aveva assunto proporzioni preoccupanti per la stabilità dello Stato romano. In sostanza quindi seppur certamente non idilliaca, parlandosi in ogni caso di schiavitù in un mondo in cui questo istituto era globalmente diffuso e necessario, era certamente una manifestazione concreta di quanto inclusiva Roma effettivamente fosse, molto di più rispetto a praticamente ogni altra civiltà a lei contemporanea e successiva, e in modo molto diverso rispetto a quello che un certo odierno progressismo perbenista vorrebbe fare intendere.

 

Christopher Fucci

 

 

1: L’età arcaica del diritto di Roma comprende il periodo tra il 753 a.C. (fondazione dell’Urbe) e il III secolo a.C.
2: L’età classica del diritto romano comprende il periodo tra l’avvento del principato di Ottaviano Augusto (27 a.C.) e l’abdicazione di Diocleziano (305 d.C.).

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