Il Ius – Introduzione al Diritto Romano

Il Ius – Introduzione al Diritto Romano

<< Ius lex humana, Fas lex divina […] >>

“Il diritto designa la legge per gli uomini, il costume morale indica la norma della religione” come scriveva Isidoro di Siviglia nelle sue “Etymologiae”. Il celebre savio originario dell’Hiberia visigota fungeva da tramite, nel turbolento secolo sesto, tra l’antica memoria e la nuova “aetas”. Sviluppatosi in un periodo storico di difficile comprensione, quello Alto Medievale è un ambito che esime da ogni categorizzazione degli storici del diritto. Da un lato abbiamo il termine ultimo della continuità imperiale in Occidente; dall’altro il trionfo della cultura latina sui popoli conquistatori della “volkswanderung”. I feroci guerrieri, invasori di Roma, furono a loro volta conquistati -“romanizzati”- di fronte all’edificio virtuosistico della complessità classica. Una civiltà che ha saputo rappresentare dietro alte colonne in marmo e capolavori scultorei tutta una “forma mentis” oggi insuperata. Nella stessa possiamo annoverare forse il monumento più importante in duemila anni di Storia, un “unicum” irripetibile, cui ancora oggi dobbiamo eticamente ispirarci per progredire come uomini e come collettività.

Si tratta del Diritto Romano, l’insieme di tutta la teoresi procedurale nella classificazione della realtà; nel corretto amministrare, predisporre e recepire la variabilità umana di una società. L’esperimento non era che la fattispecie, la scoperta diveniva innovazione della tradizione.
Il diritto romano è stata la forma primigenia di classificazione oggettiva, quasi “scientifica”, della realtà circostante. Insieme di canoni poi divenuti chiave irrinunciabile per fondare e insieme crescere, sia come singoli, sia come comunità. I primi hanno assunto la “mnemos”, l’abilità di interiorizzare e interpretare, le seconde hanno così saputo abbandonare l’istinto per la “ratio”, la ragione.
In un’epoca remota, collegamento ideale tra le fasi protostoriche e i secoli della “Storia” propriamente detta, nacque la figura di colui che riusciva a scindere il mistico dal terreno. Il giurista era il custode di una nuova cultura, un modo di “facere ac cogitare”, quindi di concepire, il comportamento umano. Gli idoli derivavano la loro “potestas” in quanto espressione della speranza, dell’incerto. La legge doveva rendersi al contrario “signum” certo e presente in costante divenire con lo sviluppo sociale. La legge può punire all’istante, i Numi no. Il sacerdote, nella veste di solo interprete di una realtà altrimenti insondabile, può forse profetizzare il futuro, il magistrato, rivestito della “signoria” comportamentale, interpreta il passato e non può che applicare. Il diritto segue la retta via, ispirata dai canoni morali dei progenitori (“mos”), scindendo la sfera ultraterrena (“fas”) ed erogando l’imperativo cui attenersi (“lex”). Dal culto nasceva la legislazione, “Jus” deriva dal sommo Dio (“Juppiter”, Giove) ma non viceversa. Avvenne allora che gli agglomerati urbani, sempre più numerosi e cosmopoliti, agissero per il meglio cercando di prevenire ogni degenerazione dell’umana condizione. La violenza, la prevaricazione sulle classi inferiori, persino la guerra dovevano rispondere non più ai ministri divini, in una “tirannide” del Tempio, bensì ad una “paritas” normativa uguale per tutti. Ecco perché il diritto, a partire dalle prime comunità italiche poi romane, è unità sostanziale: perché è l’insieme di fondamenta (“sub-stantia”) da cui si ergerà l’edificio istituzionale di una comunità. E soltanto attraverso il diritto una “societas” di uomini, quali animali politici nella concezione aristotelica, può sperare di ascendere ai gradi più alti dello sviluppo umano.

Con esso deriva la rilevanza del criterio oggettivo, sulla base prestabilita di norme. Non è più la soggettività di una figura, il “sacerdos”, che acquisisce potere per nome di una mistica astratta. La preminenza di una “auctoritas” non si sviluppa più per delega, “sacerdos” cioè colui che presta il sacro (“sacrum do”). Ora la sovranità di colui che viene elevato “super partes” è originaria, esistente in quanto tale, ha origine da se stessa. La legge ora giustifica le cariche istituzionali, quindi le rappresentanze dei nuclei urbani; i quali altrimenti cercherebbero assurgere con violenza al proprio “status”. E’ inoltre legittimata la forma di governo, sia essa “justa”, secondo diritto-Jus, sia contraddittoriamente ingiusta, cioè contro il buon grado dei popoli. Allora si giunge al parossismo.

Se la “lex” è certa, è ancor più semplice scoprirne i difetti normativi, i cosiddetti “vitia”. Ecco allora che “Sub lege facta mendacia”, scoperte le peculiarità più vulnerabili della regola, la stessa può venir aggirata. Possiamo forse dimenticare gli innumerevoli esempi di despoti e padroni? Possiamo tralasciare coloro che, pur garanti della legalità, hanno anteposto il proprio “io” alle pubbliche istituzioni? Di conseguenza i giuristi si preoccuparono di rendere imperativa una morale per amministrare sapientemente. Ciò che veniva percepito apprezzabile, quindi accettato, andava a coincidere con il corretto secondo legge. Il “justus” era il giusto secondo la tradizione, il popolo partecipava alla giustizia. D’altronde rende efficace la comprensione del fenomeno il seguente brocardo: “Vox populi vox Dei”. Un periodo tra i più floridi della produzione normativa, sia a livello istituzionale che informale. Un periodo – tuttavia – che manifestò tale “libertas” solo molto tardi, dopo generazioni di facinorose lotte per l’emancipazione plebea. Eppure non è forse questo il significato stesso del diritto? Lo “jus”, quale promanazione mortale dell’ordine divino, non è la concretizzazione di quanti aspirino alla pace sociale?

Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi”, scriveva il grande giurista Ulpiano, a cavallo dei “saecula” secondo e terzo.  “La giustizia consiste (esattamente) nella continua volontà attribuire a ciascuno degli uomini il giusto” secondo diritto. Ogni soggetto venne così preso in considerazione nelle fonti normative. In base a suddivisioni ipotetiche riguardo appartenenza censitaria, territoriale e non solo, trovò applicazione ogni forma e sfacettatura dello “jus”. Il primo dei quali fu senza dubbio la legge “quiritaria”, poiché destinata ai discendenti del “divus Romulus”, fondatore ancestrale dell’Urbe e trasfigurazione umana di Quirino. Poi, con l’assogettamento dei territori dell’antico “Latium Vetus” si originò la legge delle popolazioni (“Ius gentium”), quindi degli stranieri (“peregrini”).
Più tardi, andando a costituire una “summa” pratica di tutte le emanazioni precedenti, si antepose un concetto bilaterale del diritto: l’antico “Ius civile”, l’appartenenza alla piena cittadinanza”, e lo “ius praetorium”, il diritto riservato a stranieri sotto vigilanza di un magistrato.
L’insofferenza alla continua introduzione di consuetudini diverse e tra loro contrastanti, sottopose le istituzioni al problema dell’espansione e dell’integrazione. Si ebbe quindi il fenomeno del diritto “edittale”. Ogni anno il pretore, sommo magistrato con potere di “dicere” e “facere” nei contenziosi, l’antica “iurisdictio”, aggiornava il suo editto. Cioè confermava, rinnovando, le precedenti liste di azioni legali abilitate all’utilizzo in tribunale. Ogni lustro il sistema normativo veniva quindi mutato in forme sempre nuove. Fu questo un segreto della sopravvivenza giuridica romanistica in seno ai millenni. La “lex romana” entrava nell’età matura o preclassica. Il “praetor” quindi aggiornava il “jus perpetuum”, “di lunga data”, con soluzioni legali nuove e aggiornate alle esigenze della quotidianità (“ius repentinum”).

“Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere […]”

I precetti, canoni imprescindibili, dell’amministrazione pubblica sono dunque i seguenti: vivere con onestà, non danneggiare alcuno, attribuire a ciascuno quel che merita.
Ogni uomo aveva piena facoltà, in base allo “ius” d’appartenenza, di farsi carico della sua posizione giuridica riconosciuta, oppure di nominare un rappresentante. Un “alter ego” dietro cui riparare per non soccombere all’ingerenza legale dell’avversario. Nacquero così quei “defensores” della virtù legale che ancora oggi costituiscono il nerbo del tessuto giuridico-sociale: gli “advocati”.
Ulpiano prescriveva agli stessi di deliberare e mai di litigare, di confrontarsi col dibattito e mai di affrontare con la violenza. Esautorando la giustizia personale altrimenti mandataria di delitti e prevaricazioni.
Esponendo le proprie tesi di fronte a dei pari, cioè quei “iudices”, privati cittadini, designati arbitri e controllori della legalità estemporanea, compivano un esperimento sociale senza precedenti.
La complessità normativa superava la realtà cui si era ispirata per mutarla in fattispecie chiara e interpretabile.

Ora era la “veritas” giuridica a piegare la quotidianità a proprio uso e consumo. La necessità legale era satura di richieste, ogni possibilità “de facto”, prevista e catalogata negli editti, era compresa anche “de nomine”. Ogni litigio, ogni problematica e tutte le alterità tra individui sarebbero state risolte con un aggiornamento delle “leges” e la loro sincera applicazione.
Così facendo però, non si giunse forse ad una stagnazione della medesima fonte normativa? Spieghiamo ulteriormente: con una tradizione plurisecolare di continuo sperimento della novità giuridica, non si giunse a sondare il conoscibile e oltre? Ogni sapiente aveva esposte le proprie argomentazioni contribuendo al miglioramento e insieme aggiornamento della complessità legislativa. Ogni probabile fonte di produzione del diritto, ossia capace di creare i presupposti in materia legislativa, era stata affrontata. Talvolta quindi poteva accadere di consultare sul medesimo ambito più autori, riscontrando pareri opposti.

“Absurda sunt vitanda.”

L’interpretazione si fece caotica, soggettiva e a discrezione della potestà personale del magistrato. Talvolta l’eccezione diveniva la regola e l’assurdo fungeva da normale amministrazione. Occorreva senz’altro fare ordine. Gli imperatori, quando la Storia era giunta al momento d’apogeo della “Romanitas”, si circondarono di validi “periti(i)”. Si emanarono “edicta” in merito a quale interpretazione preferire, sulle tecniche di argomentazione. Nasceva dunque la presupponenza verticale, lo “ius” era un complesso a parte, fermo e immutabile. Era diventato un qualcosa di fermo, rigido e imposto dall’alto: aveva origine il diritto “positivo”.  Un “iter” normativo lungo circa tre secoli e che ha il suo culmine non con i codici Teodosiani o la “lex” sulle citazioni, cioè di quali autori citare in atto “probatorio”, di supporto alla propria tesi. Il vero traguardo della civiltà giuridica del millennio romano occidentale si ebbe, di contro, nell’immediato oriente. Su quelle rive di antica memoria, fra le tumultuose acque del Bosforo, nella “Nova Roma Costantinopolitana” si sviluppò l’ultima stagione del ciclo normativo antico. Giustiniano, erede diretto dei Cesari e Augusto “per orientem” aspirava a divenire “Imperator” anche “per occidentem”. Certamente la riconquista della vecchia Oikoumene mediterranea doveva far ricorso alle legioni, ma essa si sarebbe dovuta accompagnare alle leggi. Acquisire è semplice, mestiere di spada e strategia, consolidare è compito delle norme e mantenere della tradizione. La “libertas” di vivere in armonia coi propri pari in una “societas” unificata sotto il potere centrale doveva essere accompagnata da un “corpus” di regole senza precedenti. Giustiniano fu il protagonista e compilatore dell’impresa classica più importante e attuale. Come un novello Ercole alle prese con dodici fatiche, il sovrano riorganizzò tutto lo “ius” conoscibile dell’antica Roma: vedeva la luce il “Corpus Iuris Civilis”, destinato a fama imperitura.

Inter arma enim silent leges” scriveva l’oratore Marco Tullio Cicerone, nella grande rivoluzione istituzionale della fase tardo repubblicana. Nella guerra perdura la violenza e tacciono le leggi, quelle stesse leggi garanti della pace sociale. La Storia ci insegna che la “Renovatio Imperii”, il progetto di ridimensionare l’Orbe a livello universale, riconquistando le antiche “provinciae”, fu un conflitto durevole e rovinoso. Tuttavia la continuità civilistica romana non doveva mantenersi con le legioni o i “palatia” del potere. Essa avrebbe ricorso alla sopravvivenza su vecchie pergamene, tra gli scaffali colmi di libelli. Nelle riscoperte delle compilazioni classiche e tarde. Il vero monumento che, in un certo senso, fa di Roma un fenomeno storico mai sopito e in continuità con i tempi moderni è proprio il suo “Jus”.

L’associazione Renovatio Imperii, che dal sogno di rinnovo culturale romano di età Giustinianea prende il nome, è orgogliosa di introdurvi all’opera omnicomprensiva della civiltà giuridica latina. Partendo in un viaggio nel tempo e nello spazio, dalle insalubri paludi tiberine alla magnificenza degli “officia” palatini, dall’etrusca monarchia dei Tarquini alla dinastia bizantina dei Komnenos. Se è vero che “Historia magistrae Vitae”, tanto vale assurgere a tale disciplina e  impararne i dettami, attraverso una tecnica quasi “scientifica”. Il diritto non è che il raziocinio rapportato al caos, l’elemento primordiale che incontra una realtà ragionata. La logica unificante che rende chiaro e consequenziale il turbinio socio-culturale dei popoli in quel crogiuolo di stirpi che furono Roma e i suoi territori.

 

Francesco Rossi

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