Nil concordis collegio firmius ad rem publicam tuendam
[Per sorvegliare lo stato è indispensabile un collegio concorde]
Agli albori del tempo, quello stesso tempo da cui provengono poche testimonianze storiche e gran parte dei racconti mitici dei popoli mediterranei, Roma non era che un villaggio. Prendendo il proprio appellativo dall’importantissimo fiume che ne irrigava i suburbi (“Rumen”), l’insieme di comunità stabilitesi sui colli della valle tiberina decise di unirsi, stringere alleanza e rafforzarsi assieme. Vennero stipulate alleanze per salvaguardare i redditizi mercati del sale, in quello scalo commerciale poliedrico e affollato che doveva essere la valle del primo Foro Boario. Da essa una delle prime Viae avrebbe fatto transitare merci, animali e mercanzie da ogni località del Latium Vetus. Sulla base di questo “patto sociale”, le comunità di sarebbero poi federate in un unico agglomerato etnico latino entro una cerchia di mura. Da quest’ultime, innalzate presso la base dei colli centrali, sarebbe infine derivata l’espressione “saepti montes” (“colli recintati”); erroneamente tradotta secondo il canone storico oggi confutato della Roma primigenia sui “sette colli”.
In mezzo al fermento politico delle comunità di pastori e barattieri, le dinastie di capi-villaggio più eminenti dettavano regole secondo i propri usi. L’unanimità dell’agglomerato rurale rispondeva direttamente ai pareri degli anziani e dei loro familiari, fossero essi di sangue o “adfines”, quindi legati per matrimonio. Le “gentes”, questo era il nome delle famiglie più importanti e arricchitesi nel corso dei lustri, discendenti da illustri predecessori della “societas” e perciò aristocratiche, si occupavano di decidere non per sé stesse ma per il tutto. Le emanazioni di regole (“decreta gentilicia”) e tradizioni cultuali (“sacra gentilicia”) erano loro prerogativa, assieme alla decisione di muovere guerra e mobilitare i “pares”. Ogni villaggio aveva proprie prerogative e un proprio micro-ordinamento, il quale era per l’appunto costituito dalla personale concezione della realtà gentilizia, strettamente svincolata da qualsiasi influenza esterna o di gruppo (“ius privatum”). Tuttavia qualcosa cambiò.
Nell’VIII secolo a.C. molte popolazioni italiche, dalla pianura padana alle coste tirreniche, fino allo stretto di Scilla e Cariddi, si trovarono ad essere accomunate da un fenomeno importante e senza precedenti: la “protourbanizzazione”. Per motivi non ancora chiari e tutt’altro che riscontrabili nell’archeologia, le comunità rurali indigene decisero di inurbare in “civitas” già esistenti o addirittura di unirsi in un agglomerato urbano del tutto nuovo. Fu questo il caso di Roma. Di fronte all’imperversare di razziatori e briganti dalle fitte foreste del confine umbro-laziale, le “gentes” non riuscivano a fornire adeguata sicurezza alla zona del basso Tevere. Disunite, organizzate separatamente e tra loro conflittuali, le grandi famiglie aristocratiche opposero più volte una guida comune alla situazione di gravità sempre più crescente. Bisognava trovare un luogo comune, riconosciuto e tutelato da tutti i costumi privati (“mores”) delle dinastie di villaggio. Fu così che venne a costituirsi il “Rex”: colui che regola e delimita. Termine proveniente dall’Indoeuropeo, lingua parlata dai popoli invasori e risalente in Italia al X secolo a.C., ha molte varianti e sinonimi in diverse popolazioni europee. Basti pensare all’irlandese “Ri” o al celtico “Rix”. Il suo significato è quello di “delimitare”, dalla radice “Reg” deriverà infatti il termine “Regula”, cioè piccolo limite. Regolare, per l’appunto, la vita comunitaria significa sorvegliare la stessa, stabilirne gli ambiti e farne ugualmente parte. Ecco allora che Roma ebbe a costituirsi in monarchia elettiva in cui regnava un “primus inter pares”. E non solo! Il “rex” amministrava i culti religiosi uniformando tra loro i numi tutelari del villaggi e manteneva la concordia tra gli stessi affinché potessero cooperare alla buona riuscita della fondazione cittadina (“pax deorum”). E’ quel comportamento che il re conserverà anche oltre il proprio periodo storico e detto “regere sacra”. In questo momento il vivere societario delle tribù tiberine diviene “rectus”, cioè sotto l’egida di un re che amministra il governo terreno e divino.
Dal momento che il rappresentante delle comunità, ora unite sotto un unico nome, dev’essere “super partes”, deve altresì essere dislocato al dì fuori delle medesime. La residenza del re (“regia”) non può abitare entro le palizzate e i terrapieni di uno solo dei villaggi.
Potrebbe subire l’influenza dei vicini e divenire fautore dell’egemonia di un singolo gruppo. Occorre trovare un luogo sacro, quindi rispettato da chicchessia e autoritario per la tradizione che lo circonda. Il colle sacro del “Palatinus” fa al caso loro. Su di essi vi sono già dei templi comuni cui sacrificare agli dei e in cui vengono simbolicamente nascoste le primizie del raccolto in annuale ricorrenza. Da qui l’espressione “Condita”, cioè fondata, proprio perché Roma vide i suoi natali dal gesto di celare (“condere”) le risorse fondamentali per il sostentamento interno all’agglomerato di villaggi.
Questo “mons”, mai annoverato come semplice “collis”, era sormontato da due vette: una più alta e l’altra sempre più degradante in direzione sud-ovest, andando a collimare con la palude tiberina del Foro Boario. La chiamavano “Cermalus”. Era una posizione d’eccellenza poiché tramite spaziale tra la punta più alta e importante del Palatino e il nucleo economico della zona, laddove gli “emporia” accoglievano mercanzie dal fiume e dai “vici” polverosi. Fu così che si volle erigere una capanna più grande e solenne delle altre. Se normalmente una “familia” dimorava in 35 metri quadrati di “domuncola”, il “rex” avrebbe funto a guida comunitaria in un vero e proprio palazzetto di 345 metri quadrati. Esso era fortificato, decorato da ogni genere di produzione artistica, fosse essa vasellame o decorazione sacro-tutelare, quindi apotropaica. Non solo! Tra l’emporium della bassa valle del Tevere e la “regia” si trovava il nume tutelare della prima comunità romana: il santuario dell’Ercole italico. Divinità-simbolo della lotta armata degli abitanti dell’Urbe per sopravvivere alle continue scorrerie nemiche. Quindi il “Rex societatis” diveniva altresì sommo sacerdote, quindi “Rex Sacrorum”. Togliendo effettività alle disposizioni non solo governative ma anche religiose, il re esautorava l’ingerenza politica delle “gentes”. Delle stesse però non poteva fare a meno, decidendo quindi di assumerne i capi-famiglia in un consiglio collegiale. Da questi anziani (“senex”) nasceva il “senatus”. Erano oltre cento, in origine, poi divennero trecento, dieci per ogni curia, ma ci arriveremo via discorrendo.
Quella del “Rex” era una carica vitalizia, unica (nonostante la breve parentesi diarchica sabina di Tito Tazio), investita di potere assoluto. Reggendo il controllo totale “manu militari” attraverso l’istituto dell’Imperium, il sovrano tribale romano si faceva garante di garantire la pace sociale nei contenziosi, cercando di estinguere ogni forma di faida privata. Era designato dal predecessore in accordo col senato, attraverso il quale poi, una volta eletto, avrebbe emanato “leges” e personali disposizioni. Ogni volta che il soglio purpureo rimaneva vacante, in quel periodo tacitamente espresso come “interregnum”, governavano i senatori governano a turno di piccoli gruppo ogni cinque giorni. Dopodiché restituiscono lo scranno al legittimo “Rex” assieme agli “auspicia”, ossia ai poteri legali di amministrazione religiosa e garanzia sacrale dei culti. Più tardi, la “tribus” avrebbe fatto spazio alla “curia”, ossia collettività di tanti (“co-viri”). Era la manifestazione dell’allargamento etnico all’interno del territorio. Includendo dapprima reietti e comunità isolate in un’unica e poi, espandendosi sul territorio, sempre più parvenu dall’ager, Roma crebbe. I tre principali ceppi popolari erano i seguenti: i “tities” (i Sabini), i “Ramnes” (i latini tiberini) e i “Luceres” (gli Etruschi). La dominazione etrusca fu il coronamento dell’imperialismo “tyrrenico” partito dagli appennini toscani e culminata con la “thalassokratia” nel mare tra la Sardegna e la Corsica. Fu allora che si ebbero delle riforme all’ordinamento monarchico romano.
Secondo la “Lex Curiata” il potere del “Rex” era delegato ed esercitato assieme ad organi collegiali prima, assembleari poi. Essi all’unanimità -o quasi- avrebbero governato in armonia col loro rappresentante divino. Le Curie si sarebbero sottomesse solo dopo aver ratificato la nomina del re, nominando poi un loro portavoce riscontrabile, in caso di assenza del sovrano dal suolo cittadino, nella figura del “magister populi”. Esso non era più che un ausiliario del re, il quale s’affidava di più ai magistrati garanti dello “ius regis”. Si trattava anzitutto dei due magistrati giudicanti l’alto tradimento alla “costitutio” cittadina e dei colpevoli che contro la stessa avessero cospirato (“duomviri perduellionis”). “In saecundis”, per ricordare e ancora e una volta garantire una parziale “potestas” alle dinastie gentilizie, vi erano i “quaestores parricidi”, coloro che avrebbero condannato i rei di omicidio di un capo-gruppo dinastico, cioè il “pater familias” e “comunitatis”.
In caso di guerra poi marciavano accanto al “Rex” le figure dei “magistri peditum” (guerrieri appiedati e di basso censo) e i “tribuni equitatis” (i comandanti di cavalleria). Quella stessa cavalleria era rappresentativa di una classe nobiliare arricchita a tal punto da poter sacrificare in battaglia un “equus” altrimenti prezioso per la produzione agricola o il sostentamento alimentare. La cavalleria era inoltre guardia personale del sovrano, affidabile e veloce, perciò detta “celeres”.
Tornata la pace, il governo tornava dai padiglioni di comando sul fronte alla “regia” palatina dove dimorava il “rex” coi suoi “senatores”. Essi avevano un proprio prestigio, un doveroso rispetto, in virtù di una dignità ancestrale e risalente ai padri fondatori: di conseguenza erano chiamati “patrices” e vantavano il sommo veto per custodire la legalità della “res” politica (“auctoritas patrum”). Combinavano poi la redazione scritta dell’ordine del giorno (“committere”) all’interno delle assemblee delle curie (“comitia curiata”). Quest’ultime raccoglievano in commissioni di dieci “curiae” cadauna, tutte e tre le comunità romane. Per i “Tities”, “Ramnes” e “Luceres” vi erano trenta rappresentanze in tutto. Si aggiungevano altre sei “curiae” che, in virtù di una “dignitas” nobiliare-gentilizia, erano dette appunto “sex suffragia”, vantando il proprio elevato censo. Il loro nome, legato alla comunità originaria, aggiungeva il numerale “primus/saecundus”. Vediamo quindi le “curiae” diventare il collante politico tra i discendenti della primitiva organizzazione gentilizia di guerrieri, un tempo a capo del singolo villaggio, e i nuovi cittadini. La “civitas” è unione delle singole tribù, co-partecipazione all’assetto organizzativo della collettività e insieme decisione sulla base del proprio censo. Attraverso la “Lex Curiata” menzionata poc’anzi, queste rappresentanze approvavano o meno sia le disposizioni governative sia le sentenze del “rex” riguardo i contenziosi. Forse dal giudizio popolare della tribù deriva oggi il nome di “tribunale”, dove allo stesso modo si disquisisce sulla risoluzione della lite tra due contendenti. Tutte queste emanazioni normative erano trascritte in “acta” sacri e gelosamente custoditi dai sommi sacerdoti (“pontifices”) e prendono il nome di “Ius papirium” (dal nome di uno di loro vissuto agli inizi del VI secolo a.C.) oppure di “leges regiae”, poiché del “rex”.
Man mano che Roma si espandeva, in “lustri” quinquennali e poi nei decenni, il numero di inurbati s’innalzò, causando la necessità di suddividere ulteriormente la comunità. Vennero quindi a formarsi diversi gruppi riconosciuti istituzionalmente, sulla base di diversi criteri. Le “curiae” si basavano sulla propria qualifica cittadina (“genera hominum”), le tribù sulla provenienza geografica (“regiones et loca”), le “centuriae” infine sulla disponibilità pecuniaria in vista del proprio equipaggiamento militare e sugli anni di servizio (“census et aetas”). Quest’ultime ci interessano particolarmente: sono la prima traccia dell’organizzazione militare legionaria. Non a caso il termine “legio” designa non solo l’unità militare fondamentale “dell’exercitus romanus”, altresì la coscrizione obbligatoria delle sue unità. Dovere prima di tutto civico e, quasi in chiave antitetica, morale quindi imperativo per l’appartenenza ad una collettività da difendere. Se “l’imperium” del re era un “prius” del diritto, l’inizio dell’iter legislativo, la sua approvazione per mano popolare era il suo “posterior”. Coi sovrani etruschi sono inoltre importati i simboli della dignità regia: i “litorii” ad esempio ostentano in parata una scure entro un numero di “cannae”, simbolo della punizione e della morte (“ius vitae ac necis”). Oppure si riscontrano le prime testimonianze di una toga purpurea, di uno scranno o “thronus”, del trionfo militare e infine delle decorazioni ornamentali portate con onore da ogni eroe di guerra (“phalerae”).
Il popolo “ad finem” testimoniava l’inizio e il termine delle sue “gentes”, cioè alla nascita di un nuovo clan che avrebbe in parte amministrato la città o che avrebbe corrisposto il suo potere con un culto religioso dislocato in una comunità. Rispettivamente nacquero gli istituti assembleari (“calatis comitiis”), dell’adozione gentilizia (“adrogatio” poiché sottoposta ad una richiesta rivolta al popolo, quindi “ad-rogare”); e la rinuncia ai propri culti in virtù di quelli civici osannati nella “pax deorum”, in adesione alla collettività (“detestatio sacrorum”). Ma tutto ciò non bastò.
Ben presto la collettività della “plebs”, volle farsi riconoscere anche delle garanzie, delle cosiddette guarentigie contro i magistrati, troppo arroganti e spavaldi nell’arrogarsi il potere grazie al ceto aristocratico cui provengono. Si chiamava “provocatio ad populum” e costituiva l’unico rimedio possibile per un cittadino di comminare una pena troppo severa in una più lieve o, addirittura, per ricevere la grazia.
Erano i primi sentori della lotta plurisecolare del ceto medio-basso per combattere e domare una volta per tutte l’ingerenza patrizia negli affari della collettività. Una lotta per accedere alle istituzioni e comporne le magistrature. Si era però solo all’incipit della “Historia Romae” e i fatti del tempo erano ora concentrati sulla nascita di una coscienza comune, quindi, di un’emancipazione politica da parte di quelle sacre assemblee fino ad ora descritte. La Monarchia di Roma, adesso mero simbolo dell’occupazione etrusca, cessò d’imperare dopo oltre duentocinquant’anni. In quella “rivoluzione” mediterranea che al contempo vide il rovesciamento di innumerevoli tirannidi lungo tutto il “mare interno”; un “exemplum” fra tutte? L’atene di Pisistrato, quella stessa Atene la cui Agorà, pareggiata nella cultura latina dal “Forum”, ispirerà le “costitutiones” di una “Res Publica”, ossia l’importanza agli occhi della sovranità istituzionale del solo bene pubblico e cittadino. Questa – però – è un’altra storia…
Francesco Rossi
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