Con le guerre degli anni duemila, promosse per debellare le organizzazioni terroristiche islamiche, gli Stati Uniti hanno velocemente avuto ragione dei regimi Irakeno e Afghano, grazie ad una dimostrazione di superiorità militare e tecnologica tutt’ora inarrivabile dalle altre potenze mondiali. Dal 2001 in poi quindi, si sono susseguiti nei due stati citati delle organizzazioni territoriali di stampo democratico, create e mantenute da Washington, con lo scopo di favorire la nascita di nuove istituzioni liberali e laiche che fossero in grado di trasportare e proiettare i due paesi del medio oriente verso nuovi orizzonti. Durante gli anni in cui la NATO ha mantenuto le proprie missioni di pace tra le montagne e altopiani afghani, l’Occidente ha tentato attraverso il proprio Soft Power di cooptare le popolazioni musulmane, con l’obiettivo di avvicinare mentalità usi e costumi a quelli della società europea ed americana. Nel 2004 Joseph Nye[1], in piena epoca Bush jr e delle nuove Guerre del Golfo, scriveva a proposito di una nuova forma di potere che gli Stati Uniti quale prima potenza mondiale avrebbero dovuto implementare nella propria strategia internazionale: il Soft Power. La teorizzazione di questa nuova forma di potere veniva così postulata da Nye: “il soft power è l’abilità di persuadere, convincere, cooptare e attrarre, tramite risorse intangibili come la Cultura, i Valori e le Istituzioni politiche”[2]. Questa serie di concetti, già espressi in alcune opere del Preside della Kennedy School di Harvard, divennero tematiche centrali nei dibattiti pubblici e sulla stampa di oltreoceano, poiché man mano si andava avanti appariva sempre più chiaro come la questione terroristica e la generale insicurezza ed instabilità del Medio Oriente non si sarebbero potute risolvere unicamente con avanzate fulminee dei marines. Era dunque necessario integrare il Soft Power nelle strategie che gli USA avrebbero impiegato per creare, in questo caso di studio, il nuovo Afghanistan.
In un momento in cui risuonano da ogni dove urla scandalizzate per il frettoloso e mal organizzato ritiro USA, dovremmo invece chiederci perché l’Occidente non sia riuscito a costruire nuove strutture civili e politiche in Afghanistan, perché queste istituzioni proposte non abbiano funzionato e non siano state accettate, e soprattutto perché quanto costruito a livello di apparato statale e sociale si sia liquefatto come neve al sole sotto i roventi venti afghani. Innanzitutto per semplificare l’equazione va detto che il tema del ritiro delle truppe era ormai una questione fisiologica, posticipata nel tempo, ritardata, rimandata, ma pur sempre in prima linea nei dossier di Washington. Trattandosi come già ampiamente documentato e dibattuto, l’Afghanistan è stata la guerra più lunga che le truppe americane abbiano mai combattuto, facendo registrare spese inaudite persino per l’economia più forte del pianeta. La diminuzione della presenza militare USA era un topic già in cantiere durante la presidenza Obama, epoca in cui si iniziavano a studiare i primi piani di disimpegno. Poi con Donald Trump la teoria lasciò il posto alla pratica e venne ufficialmente redatto e firmato il protocollo per il ritiro USA, infine attuato da J. Biden nell’estate 2021. Come abbiamo visto dunque si tratta di presidenti dalle ideologie trasversali, con curriculum diversi, progetti diversi, partiti diversi: eppure la linea tenuta si può definire lineare. E’ qui che appare il deep state, lo stato profondo. A prescindere dalle varie ideologie e proclami da campagna elettorale, della dichiarazioni pubbliche e dalle sincere intenzioni di chi governa, esisterà sempre un deep state, ed è quello fatto di funzionari di governo, diplomatici, alti ufficiali, membri dell’intelligence ecc.; sono loro che tengono il timone e conoscono gli obiettivi a lungo termine della strategia nazionale.
E quanto accaduto in Afghanistan ha un nome ben preciso, una prassi militare che i lettori ed appassionati di Renovatio Imperii conoscono bene, perché già argomentata in “La riscossa di Roma”[3] ad opera del presidente Davide Montingelli; stiamo parlando del retrenchment. In ambito strategico il termine del “ridimensionamento” è utilizzato per definire una rimodulazione della scala di obiettivi che uno stato persegue nei teatri della politica estera. Allo scoccare degli anni duemila, considerando le nuove Guerre del Golfo, gli States avevano raggiunto una presenza pluricapillare in ogni angolo del globo. La complessità della situazione era divenuta insostenibile, specie con lo scoppio della crisi finanziaria globale scaturita nel 2008: iniziò così una valutazione per individuare quali fossero i commitment[4] più gravosi per la politica militare e finanziaria USA. Lampante fu subito l’esempio afghano e così dal 2010 in poi furono messi in atto studi che riducessero la presenza americana e NATO fino al ritiro completo. Questa analisi è stata proposta per far comprendere in primo luogo come la scelta americana sia dettata da logiche di interesse nazionale (deep state) che vanno oltre il politically correct e le buone prassi, qui si parla di realpolitik[5].
Venti anni. Questo è il tempo di occupazione occidentale in Afghanistan. La chiamano occupazione, ma in questi anni, successivi ad una guerra combattuta per abbattere il regime talebano, gli Stati Uniti ed i loro alleati hanno provato a gettare le basi per la costruzione di una nuova nazione su modelli occidentali, nonostante Biden nelle conferenze stampa post-ritirata abbia affermato il contrario. E’ in questo caso che la strategia doveva prevedere, dopo l’uso vincente dell’Hard Power militare, delle strategie più soft per penetrare nel tessuto afghano, senza costringerlo, senza corromperlo, bensì cooptandolo, creando in loro il desiderio di volersi aprire ad un mondo più liberale, democratico.
Alla fine del secondo conflitto mondiale gli USA riuscirono nei propri obiettivi proiettando il proprio soft power su paesi ideologicamente molto differenti dal modello americano come Germania e Giappone, e da quel momento oltreoceano si è sempre creduto che questa operazione potesse essere ripetuta ed emulata in altre parti del mondo. Ciò che però è stato sottovalutato sono le profonde differenze, il solco, che separano il mondo occidentale da quello medio orientale; un solco che si è acuito dalla Guerra in Iraq in poi e che ha fatto scendere vertiginosamente la popolarità degli States e dei loro alleati in tutto il mondo musulmano. E’ non è una pura questione riconducibile alle differenze/diffidenze religiose di Cristianesimo vs Islam. Cosa è andato storto? Bisognava tenere in considerazione il fattore della cultura popolare (massima espressione del soft power poiché appunto focalizzato sulle masse e non sulle istituzioni), ma la pop culture produce molto potere morbido se le culture sono in qualche modo simili, e non diametralmente opposte. La televisione prima ed internet poi, penetrando in questi anni nel tessuto sociale afghano non hanno fatto altro che alimentare le diffidenze verso un modo di vivere americano ed europeo troppo lontano ed in contrasto con i precetti dell’Islam. Non possono bastare venti anni di occupazione militare per cambiare e sradicare concetti credenze e costumi che fondano il medio oriente da più di un millennio, anche perché poi si ottiene l’effetto contrario. Il sesso, la droga, i soldi facili, la corruzione che trapelano quali argomenti principali della cultura popolare in Europa e Stati Uniti sono stati il maggior concime per far germogliare quel sentimento di ribrezzo verso gli occidentali, così abominevoli per chi segue la Sharia. Sul fronte delle Istituzioni e valori politici la differenza emerge in maniera ancor più chiara poiché come ogni altro ordinamento confessionale, il sistema islamico è preposto principalmente al raggiungimento di fini ultra terreni; ereditando cosi un sistema che per una serie di ragioni storico-politiche hanno reso i paesi musulmani parte, a più riprese, di imperi islamici teocratici che riconoscevano la sovranità del Califfo. La vigorosa ripresa delle aspirazioni universalistiche islamiche nell’ultimo decennio, sulla scia dell’auto proclamato Stato Islamico, ha espresso con prorompente evidenza come queste tendenze storico-religiose-politiche siano quanto mai distanti dagli ideali democratici e liberali dell’occidente, dalle coscienze civili e politiche che l’Europa per prima è riuscita a produrre dalla Rivoluzione francese in poi. La shari’a costituisce ciò che viene chiamato diritto islamico, indicando ai credenti ciò che devono o non devono fare. La concezione che regna nell’islam tradizionale è quella di una società essenzialmente teocratica, in cui lo stato ha valore soltanto in quanto servitore della religione rivelata, ed anche in questo caso l’esempio appare completamente opposto al costituzionalismo sviluppatosi in Europa in Età Moderna. La breve disamina di queste differenze, lungi dell’essere un giudizio sulle società e culture o sulla valutazione di sistemi, è prodotta per rimarcare le profonde divergenze nei modi di pensare e di concepire sia l’individuo che la società, ed è qui che emerge l’errore dell’Occidente. Il non aver saputo (o voluto) approfondire a livello sufficiente, forse trattando con sufficienza, il postulato fondamentale che i temi di Diritti Umani, Istituzioni, Cultura si declinano in maniera diversa ad ogni latitudine del globo; ed in maniera diversa vengono percepiti ed immaginati, e che quindi magari non tutto il mondo desidera vestire blue-jeans, bere Coca-cola o vivere in una società orizzontale.
Nella complessità di questa situazione, a disfida delle difficoltà del Soft Power americano, altri attori internazionali sono comparsi sulla scena del teatro afghano: regimi che utilizzano una propria particolare forma di soft power, ricavato da un diverso tipo di prestigio. Troviamo così da un lato il fascino dell’autoritarismo russo e cinese che nelle società medio orientali, patrie di imperi da millenni, esercitano una forte attrattiva, perché come diceva Bin Laden “la gente preferisce un cavallo forte”[6]; e dell’altro lato le ambizioni panislamiche di potenze teocratiche come il Qatar, le ambizioni neo-ottomane di Erdogan ad Ankara, e di tutti quei centri di potere che puntano ad assumere la guida dei paesi musulmani.
Dopo due decenni, prefigurando come necessaria e non più rimandabile la ritirata dei contingenti NATO, viene dunque spontanea la domanda sul se sia lecito o meno stupirsi di ciò che accaduto in Afghanistan. La corruzione della polizia, il crollo istantaneo e conseguente fuga delle istituzioni politiche, il dissolvimento di un esercito di 300.000 unità, sono davvero attribuibili alla paura dovuta e alla ferocia di 75.000 talebani?
E nel marasma che lo ha travolto per la pessima gestione del dossier, viene forse da credere al presidente Biden, quando nelle dichiarazioni televisive, afferma “se non combattono loro, perché farlo noi?”. Se gli afghani non hanno creduto ad un modello occidentale e si sono arresi supinamente al nuovo regime è forse esagerato parlare di fallimento del Soft Power americano, nonostante già nel 2004 Nye ammoniva che “la strategia a lungo termine per la trasformazione del medio oriente non avrà successo senza un ruolo altrettanto forte per il soft power degli Stati Uniti”[7]. Le cause sono forse da ricercare nella natura di un Medio Oriente del quale ancora non ci sforziamo di accettare la diversità, e che vorremmo come noi a tutti i costi. Allora non è vero che il Soft Power sia fallito o che il Soft Power sia superato; semplicemente il mal impiegato Soft Power americano è stato ingabbiato, neutralizzato e rigettato da attori che più ispirano l’immaginario del popolo afghano.
Alberto Di Mattia
[1] Joseph Nye, Preside della Kennedy School of Government presso la Harvard University; già Capo del National Intelligence Council e assistente del Segretario alla Difesa USA durante l’amministrazione Clinton.
[2] Tesi espresse in “Il paradosso del potere americano, perché una super potenza non può agire da sola” (2002) e in “Soft Power, un nuovo futuro per l’America” (2004).
[3] “La Riscossa di Roma”, strategia di un impero sull’orlo del baratro, Davide Montingelli, Amazon, 2018.
[4] Commitment: impegni e missioni militari che un paese disloca nel mondo.
[5] Realpolitik: Politica concreta”, realistica, fondata sugli interessi del paese e sulla realtà (interna o internazionale) del momento e non sui sentimenti, le ideologie, i principi.
[6] “Soft Power”, Joseph Nye, Gli Struzzi Einaudi, 2004.
[7] “Soft Power”, pagina 150, Joseph Nye, Gli Struzzi Einaudi, 2004.
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