La riforma monetaria di Nerone: opportunismo o lungimiranza?

La riforma monetaria di Nerone: opportunismo o lungimiranza?

Nel 64, il princeps Nerone impegnò l’imponente zecca romana ed il suo apparato dirigente in una riforma monetaria che perseguisse una svalutazione del denario dell’17% e dell’aureo del 11%.

Circa le ragioni di tale provvedimento, tanto la storia quanto la storiografia hanno ipotizzato vari scenari, non necessariamente l’uno esclusivo dell’altro: in primis, Plinio il Vecchio ha sostenuto che la produzione delle miniere d’argento ispaniche si fosse avvicinata ad un esaurimento di scorte dopo quattro secoli di onorata attività. Questo è un fatto storico conclamato, che tra l’altro spiegherebbe ragionevolmente l’apprezzamento dell’argento in favore dell’oro, da cui la naturale necessità di svalutazione del denario tanto nel peso quanto nel titolo: costituito sino ad allora da argento puro, venne allungato con leghe di materiali meno preziosi.

Ma la spiegazione addotta da Plinio non sarebbe esaustiva della ratio della riforma del Princeps, giacché non spiegherebbe la svalutazione dell’aureo, specialmente se si considera che proprio in quel periodo venivano scoperti nuovi giacimenti d’oro in Dalmazia.

Un’altra ipotesi, sostenuta illo tempore dalla classe senatoria male avvezza al princeps e che rimane al vaglio delle ipotesi presso i moderni storiografi, è quella che l’imperatore volesse trovare un espediente con cui liberarsi dei debiti di cui era oberato: della serie, non può mancarti del denaro se sei tu a creare denaro.

Sarà presto fatto notare come questa spiegazione possa risultare tuttavia faziosa, per una ragione molto semplice: gli aurei erano sovente utilizzati dai patrizi e dai più abbienti di Roma come garanzia di risparmi, id est come tesaurizzazione e deposito di capitale. Considerato che grossa parte del Senato di Roma era composto dal non plus ultra dell’aristocrazia romana, è manifesto scorgervi del conflitto d’interesse nel disprezzo della classe senatoria verso questa riforma. Ciononostante, non sarebbe nemmeno legittimo destituire totalmente di fondatezza questa possibilità, ma si potrebbe quanto meno aprire – nell’ammissione della veridicità della suddetta – ad uno scampolo di compromesso tra la veduta senatoria e la realtà: vale a dire, tutt’al più, che parrebbe ragionevole credere che la stessa riforma gli abbia anche potuto giovare personalmente, ma non che questa necessità esaurisse in toto la ratio della riforma, giacché anche solamente le ragioni esposte da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia (quelle di cui s’è scritto poco sopra sulla questione dell’argento ispanico) lasciano intendere una dimensione più ampia del mero tornaconto personale.

Avendo premesso dunque che la questione è tutt’oggi aperta ed oggetto di dibattito, questo articolo non ha la pretesa (né potrebbe altrimenti) di dare una risposta definitiva alla questione, piuttosto vuole sic et sempliciter portare all’attenzione – e magari alla conoscenza del lettore – questo fenomeno complesso e misterioso. Passeremo ora – dulcis in fundo – all’illustrazione di quella che tra le varie ipotesi pare essere la più affascinante e suggestiva, anche se molto intraprendente: Nerone (ma soprattutto il genio degli economi di cui si era circondato per ideare la riforma) come responsabile di un New Deal ante litteram!

Fautrice di questa ipotesi è la ricercatrice americana M.K. Thornton che ha esposto la sua analisi nell’articolo «Nero’s New Deal».

Secondo la studiosa, la riforma esprimerebbe la necessità di ovviare ad un preciso e ben compreso momento di stagnazione dell’economia romana mediante una politica monetaria scientemente ponderata per la circostanza.

In poche parole, con l’alleggerimento del peso e l’allungamento della lega con materiali spuri, l’equipe di economi di Nerone avrebbe trovato il modo per prendere non due, ma ben tre piccioni con una fava: vale a dire ovviare alla precitata questione della diminuzione dell’offerta d’argento; rispondere all’aumento della domanda di moneta contante tra le province dell’impero, presso le quali la pacificazione stava producendo benessere e dunque espansione dei mercati e necessità di contante; sfruttare (e qui il punto della Thornton) la svalutazione di aureo e denario quale stratagemma per aumentare la spesa dello Stato in una sorta di finanziamento in disavanzo, sì da garantire un aumento dei redditi, altresì tenendo a bada l’inflazione: in breve quindi, il ceto medio (equites) poté disporre di maggior liquidità, così da rimettere in circolo l’economia e poter ottemperare agli oneri fiscali; la pressione fiscale non fu aggravata, ché diversamente avrebbe messo in difficoltà molti contribuenti già di per sé con meno denaro in tasca, avendo l’aumento di domanda dell’argento portato ad una contrazione di denarii circolanti, poiché iniziarono ad essere utilizzati dal ceto medio come tesaurizzatori; grazie alla precisa svalutazione, adeguatamente misurata per la circostanza, non si ebbe (come accade spesso in questi tentativi) un caro prezzi di ritorno considerevole, essendo rimasto circoscritto il fenomeno inflazionistico, ché altrimenti gli effetti del provvedimento sarebbero stati controproducenti.

Se quindi, al di là della particolare condizione di espansione economica delle province, il fiscus imperiale generalmente soffriva una stagnazione figlia dell’ingente spesa di mantenimento dell’esercito non più sostenuta delle conquiste tardorepubblicane – veri e propri autofinanziamenti delle spese militari – i cui benefit or ora andavano cessando (non a caso Augusto aveva intuito non fosse più sostenibile un’ulteriore espansione), con questa riforma si intendeva aumentare il volume del reddito senza ricorrere ad un inasprimento della pressione fiscale: giacché non si verificarono, come predetto, particolari problemi di inflazione (il fenomeno fu minimo), questo provvedimento riuscì perfettamente nel suo scopo e risulta essere stato di lungimiranza impressionante per l’epoca, specialmente se consideriamo che un tale possesso dei principî di macroeconomia andranno ravvisandosi soltanto nella fase più matura del XVI secolo e, per un pieno possesso, dobbiamo ancora attendere il XVIII secolo. Lungimiranza che, purtroppo, non avrà Caracalla qualche secolo più tardi, la cui svalutazione sarà causa di una spirale negativa di fattori diametralmente opposta a quella neroniana e che condurrà Roma (di certo unitamente ad altri fattori) sulla via del tracollo.

Quanto tutto ciò fosse stato pienamente previsto e determinato ab origine resta ovviamente una supposizione intraprendente della studiosa americana, come ampiamente premesso. Tuttavia, la storiografia moderna riconosce quanto la nostra concezione delle conoscenze macroeconomiche presso la Roma alto imperiale tenda ad essere oltremodo sottostimante, soprattutto per la mancanza di fonti, non essendoci presso i Romani un’esigenza approfondita verso l’elaborazione di una letteratura economica.

Michele Zabatta