
Nel 396 a.C. Roma, sotto il comando del dittatore Marco Furio Camillo, concludeva vittoriosamente l’ultima delle decennali guerre contro Veio e conquistava la città, la più vicina fra quelle etrusche, subito a nord del Tevere. Ma non si sarebbe goduta a lungo la vittoria: pochi anni dopo (390 o 388) si ebbe notizia del minaccioso avvicinarsi di un nemico nuovo, i Celti. Come racconta Tito Livio[1], i Celti – chiamati Galli dai Romani – attaccarono dapprima la città etrusca di Chiusi. Secondo una versione abbastanza leggendaria, questi barbari, provenienti da nord delle Alpi, sarebbero stati spinti ad attraversare le montagne e a dirigersi proprio a Chiusi da un certo Arrunte, un chiusino che voleva vendicarsi del lucumone della città per avergli sedotto la moglie; per attirarli avrebbe fatto loro conoscere per la prima volta il vino, prodotto nelle fertili e miti terre italiche.
Chiusi domandò aiuto a Roma, potenza emergente, che non inviò soldati ma ambasciatori, per dissuadere i Galli dall’attaccare una città che non li aveva provocati e su cui non avevano alcun diritto. Purtroppo, come vediamo anche nel momento stesso in cui scrivo, spesso la diplomazia ha scarso potere e scoppiò ugualmente una battaglia. Gli ambasciatori di Roma commisero il grande errore di parteciparvi personalmente, violando il diritto delle genti e ottenendo di distogliere l’attenzione dei Galli da Chiusi per attirarla su Roma: dopo un vano tentativo di ottenere una condanna degli ambasciatori, essi decisero di attaccarla.

Roma, nel frattempo, aveva perso il più valido dei propri generali, l’ex dittatore Marco Furio Camillo, che era stato mandato in esilio a causa di dissidi coi tribuni della plebe e di una presunta appropriazione illecita del bottino di Veio. I nemici incontrarono dunque una resistenza scarsa e male organizzata presso il fiume Allia e poi piombarono su Roma, totalmente nel caos, dove trovarono addirittura le porte aperte. Le Vestali e i principali sacerdoti avevano trovato rifugio nell’etrusca Cere, le donne e i giovani in grado di combattere si erano asserragliati sul colle del Campidoglio, l’area più sacra e dotata di fortificazioni proprie, mentre i vecchi inabili alla guerra, senza distinzioni di ceto, avevano scelto di sacrificarsi, restando nella città indifesa, per non sottrarre le scorte di cibo. I Galli, dopo una certa esitazione (probabilmente per il timore di una trappola) iniziarono a uccidere, saccheggiare ciò che potevano e mettere ciò che restava a ferro e fuoco.
Il sacco di Roma non fu un episodio estemporaneo, ma si inserisce nel quadro delle “invasioni storiche”, ovvero la calata da nord delle Alpi di genti di stirpe celtica per stanziarsi nel nord Italia; da qui condussero poi delle scorrerie verso l’Italia centrale, come quelle contro Chiusi e Roma, probabilmente più a scopo di saccheggio che di conquista. Questa invasione viene generalmente collocata agli inizi del IV secolo a.C., dunque a ridosso dell’attacco contro Roma, in quanto è solo da quel momento che si registra archeologicamente in Pianura Padana una presenza non più solo sporadica, ma consistente, di materiali di La Tène, la cultura celtica riconosciuta per la prima volta nell’omonimo centro della Svizzera e sviluppatasi oltralpe dalla metà del V secolo a.C. come evoluzione della precedente fase culturale celtica, quella di Hallstatt. Tito Livio, tuttavia, propone un arrivo dei primi Celti in Italia più antico di circa 2 secoli. All’inizio del VI secolo a.C., infatti, Belloveso avrebbe per primo attraversato le Alpi alla guida di uomini di diverse tribù galliche. Giunto in un territorio, che venne a sapere appartenente agli Insubri, avrebbe trovato di buon auspicio il fatto che in Gallia vi fosse una tribù omonima (di cui non si sa nulla) e avrebbe deciso di fondarvi Mediolanium (Milano). Questa “cronologia alta” liviana a lungo è stata semplicemente considerata inattendibile, ma sembra per lo meno adombrare confusamente una realtà sulla quale ormai vi è un diffuso accordo di archeologi e linguisti (sebbene si debba sempre essere cauti nel sovrapporre etnie, culture, culture materiali e lingue): gli invasori del IV secolo non furono i primi “Celti” in Italia, ma furono preceduti da un’altra cultura diffusa fra Lombardia occidentale, Piemonte orientale e Canton Ticino, chiamata di Golasecca, dal nome di un centro all’uscita del Ticino dal Lago Maggiore[2]. Le loro iscrizioni in alfabeto “leponzio” (un adattamento di quello etrusco meridionale), sono indubbiamente in lingua celtica e compaiono già dalla fine del VII secolo, mentre la cultura materiale, prima ancora delle iscrizioni, si manifesta dall’inizio dell’Età del Ferro (IX secolo a.C.), con una precedente fase Protogolasecca dal XII secolo, sviluppandosi senza discontinuità che facciano ipotizzare arrivi di nuove genti: alla luce di ciò la cronologia di Livio, ritenuta troppo alta, è semmai troppo bassa. I Celti golasecchiani, grazie alla loro posizione geografica, prosperarono facendo da mediatori negli scambi fra Etruria ed Europa transalpina e ricevettero apporti culturali da entrambe le parti. Oggi, mentre alcuni annoverano gli Insubri fra gli invasori di IV secolo[3], altri ritengono che gli Insubri di cui parla Livio, stanziati nel territorio della futura Milano, fossero essi stessi un popolo della cultura di Golasecca (assieme a Orobi e Leponzi) e che, dopo gli arrivi gallici di IV secolo, abbiano acquisito la cultura La Tène pur senza discontinuità con quella golasecchiana, fondendosi con i nuovi arrivati[4]. Gli Insubri divennero il popolo più potente della Transpadana (pianura a nord del Po), controllavano un territorio esteso in Lombardia occidentale (escluso l’Oltrepò Pavese di pertinenza ligure) e nel Piemonte orientale e si ritiene esercitassero la propria influenza anche su gruppi minori stanziati in queste aree, come i Comenses del comasco e i Vertamocori nell’odierna provincia di Novara[5]. Quanto a Milano, il loro centro principale, al momento non sono documentate fasi di VI secolo, secondo la cronologia di Livio, ma i più antichi livelli sono di V secolo e rientrano nelle fasi più recenti della cultura di Golasecca[6]. Nelle aree prealpine e alpine invece la cultura golasecchiana mantenne una certa autonomia e proseguì[7], in particolare fra i Leponzi del Canton Ticino[8], che seguiranno vicende anche politiche diverse da quelle degli Insubri.
Da Livio e altri autori si ricavano i nomi di altri gruppi, la cui provenienza da nord delle Alpi sembrerebbe più certa. Nella Lombardia orientale e nel Veneto occidentale vi erano i Cenomani[9], che avevano come centri principali Brescia e Verona, mentre il resto del Veneto restò al popolo italico dei Veneti. Livio afferma che i Cenomani giunsero dopo Belloveso. A sud del Po (Cispadana) si stanziarono poi, agli inizi del IV secolo, altre tribù galliche, le quali, sempre secondo Livio, avevano trovato la pianura a nord già occupata: ciò ha fatto ipotizzare che la calata dei Cenomani fosse leggermente precedente, di V secolo a.C.[10], ma in realtà al momento è documentata da inizio IV. I Galli a sud del Po andarono a occupare territori dove un tempo erano presenti in parte gli Umbri e soprattutto gli Etruschi, le cui città come Felsina (odierna Bologna) e Marzabotto (BO)[11] e centri minori come Casalecchio di Reno (BO)[12] non furono distrutti ma occupati dai nuovi arrivati, mentre altrove non furono fondate nuove città ma si mantenne il tradizionale sistema celtico “kàta kómas”[13], cioè per villaggi sparsi. Gli Etruschi riuscirono però a resistere in una loro enclave a nord del Po, Mantova, che si sviluppò al posto della vicina Forcello, abbandonata in quanto meno difendibile[14]; forse non furono cacciati completamente a causa dell’atteggiamento meno ostile dei Cenomani[15]. All’incirca negli attuali territori di Parma e Piacenza erano presenti gli Anari, in quelli di Modena e Bologna i Boi (il gruppo più potente a sud del Po), nella Romagna i Lingoni e fra Romagna e Marche i Senoni[16]. Proprio nelle Marche vi era la colonia siracusana di Ancona, dalla quale il tiranno Dionigi di Siracusa avrebbe arruolato mercenari gallici contro gli Etruschi. La parte appenninica dell’Emilia sembra invece essere rimasta principalmente in possesso dei gruppi liguri, come i Friniates e gli Eleates, anche se i confini sono piuttosto sfumati e in certe aree sembra esservi stata una convivenza[17], facilitata peraltro da una possibile affinità linguistico-culturale e dall’alleanza antietrusca e, in seguito, antiromana. Fra i gruppi della Gallia cispadana, pare che l’iniziativa degli attacchi contro Chiusi e Roma sia stata presa dai Senoni, che peraltro erano i più vicini.

Tornando alla presa di Roma, i difensori dell’ultimo baluardo sul Campidoglio decisero di richiamare in aiuto dall’esilio il vecchio Marco Furio Camillo, che accettò e iniziò a raccogliere un esercito. Nei giorni successivi però l’aiuto tardava ad arrivare e, spinti dalla fame e dalla disperazione, gli assediati decisero di trattare coi Galli la resa. Brenno, capo dei Galli, e i tribuni militari romani si accordarono per il pagamento di mille libbre d’oro perché fosse tolto l’assedio. Si dice che i Galli avessero portato dei pesi truccati e, di fronte alle proteste romane, Brenno con disprezzo abbia aggiunto ai pesi anche la propria spada, dicendo “Vae victis”, “guai ai vinti”. Ma proprio allora giunse Marco Furio Camillo, nominato di nuovo dittatore, che dichiarò nullo il trattato e disse ai nemici di prepararsi alla battaglia, esortando i concittadini a “ferro non auro reciperare patriam”, ossia “riconquistare la patria col ferro, non con l’oro”. Infine i Galli furono sbaragliati e cacciati via e la città ricostruita. Questo almeno secondo la versione romana dei fatti, sicuramente tendente a edulcorare il disonore di aver comprato la libertà: in un modo o nell’altro, comunque, gli invasori se ne andarono.

Il sacco gallico di Roma fu un grande trauma che rimase vivo nella memoria anche nei secoli successivi e fornì la motivazione (o il pretesto) per una politica antigallica. I Romani infatti già dall’inizio del secolo successivo passarono alla controffensiva[18]. Nel 295 a.C., presso il torrente Sentino nelle Marche, sconfissero una coalizione di Sanniti, Umbri, Etruschi e Galli, nell’ambito della terza guerra sannitica. Ciò aprì loro la strada alla conquista dell’ager Gallicus, ossia il territorio dei Senoni, e nel 268 a.C. fondarono la colonia latina di Ariminum (Rimini), prima città romana nella Pianura Padana. Nel 225 a.C. vi fu un’altra importante vittoria a Talamone (GR) contro i Galli – in questo caso Boi e Insubri – che stavano nuovamente tentando di scendere in Italia centrale, mentre poco dopo sconfissero i Galli Insubri a Clastidium (Casteggio), nell’Oltrepò pavese, e in breve conquistarono la loro capitale Milano. In questi anni invece i Cenomani, assieme ai vicini Veneti, divennero alleati di Roma. Nel 220 a.C. fu costruita la via Flaminia, che collegava Roma a Rimini, mentre nel 218 vennero fondate le due colonie latine “gemelle” di Cremona e Placentia (Piacenza), inviando in ciascuna di esse 6000 coloni (da intendersi non come individui ma come famiglie). Con la loro posizione dovevano fare da baluardo difensivo presso il Po, importante confine ma anche via di comunicazione, e consolidare così i risultati delle recenti vittorie; Cremona in particolare fu la prima colonia a nord del fiume[19].
Ma proprio nello stesso anno vi fu un’importante battuta d’arresto, in quanto scoppiò la seconda guerra punica e Annibale attraversò le Alpi, giungendo dapprima nella Pianura Padana. Diverse tribù galliche approfittarono della situazione per ribellarsi, attaccando e saccheggiando le due colonie stesse e i loro campi. Negli anni si susseguirono diversi attacchi, prima dei Galli da soli, poi alleati coi Cartaginesi: molti fra i cittadini morirono, scapparono o furono fatti prigionieri e schiavi. Tuttavia le città resistettero e nel 209 a.C. ricevettero anche il pubblico ringraziamento dei consoli in Senato, per essersi mantenute fedeli a Roma. Nemmeno con la fine della guerra (202 a.C.) finirono i loro guai, anzi nel 200 le truppe galliche, assieme al generale cartaginese Asdrubale rimasto in Italia, presero e saccheggiarono Piacenza, per poi passare all’assedio di Cremona, ma furono respinte dall’esercito romano in una battaglia nella quale morì lo stesso Asdrubale. In tale occasione anche i Cenomani cambiarono alleanza e si unirono agli altri Galli, ma furono sconfitti e richiamati all’ordine già nel 197. Gli Insubri vennero poi sconfitti definitivamente nel 196, mentre i Boi nel 191. Se però i primi furono costretti a un’alleanza (foedus) che, per quanto sbilanciata a favore dei vincitori, lasciava un certo margine di autonomia, i secondi ebbero un trattamento più duro e i superstiti furono deportati o spinti in aree marginali.
Nel 190 a.C., una volta superate le ultime resistenze, le colonie di Cremona e Piacenza furono rafforzate con l’invio di nuovi coloni, su loro stessa richiesta, dato che erano uscite dalla guerra devastate e ridotte demograficamente. Da lì partì un rilancio della romanizzazione della Gallia Cisalpina (il nord Italia): nel 189 viene fondata la colonia latina di Bononia (Bologna), nel 183 le colonie romane di Mutina (Modena) e Parma, nel 181 la colonia latina di Aquileia, come baluardo difensivo nell’estremo nord-est della penisola. Nel 187 venne anche realizzata la via Aemilia fra Rimini e Piacenza, mentre nel 148 la via Postumia, che collegava Genova ad Aquileia.
Mentre in questo periodo la pianura a sud del Po è caratterizzata da un deciso intervento romano, motivato anche propagandisticamente dal fatto che i Galli vi avessero occupato terre altrui[20], la parte a nord subisce una romanizzazione molto più indiretta. Fatta eccezione per la già esistente Cremona e per Aquileia, non furono fondate nuove città romane, ma si avviò comunque una trasformazione in senso romano, anche monumentale, nei centri preesistenti, guidata dalle élite locali e ben visibile soprattutto a Brescia[21]. Un ruolo nella romanizzazione deve aver avuto anche l’arruolamento di transpadani nell’esercito romano, previsto dai trattati di pace, e il trasferimento spontaneo di mercanti e artigiani romani e italici in questi territori[22].
Nel 90 a.C., con la lex Iulia, tutte le colonie latine, comprese quelle nel nord Italia, ottennero la cittadinanza romana, essendo rimaste fedeli durante la guerra sociale fra Roma e gli Italici. L’anno successivo, la lex Pompeia estendeva ai centri urbani non coloniari della Transpadana la cittadinanza latina, una condizione giuridica, senza alcuna valenza etnica, che garantiva alcuni privilegi, pur senza i diritti politici della piena cittadinanza romana; in precedenza solo i cittadini delle colonie latine e romane avevano avuto le rispettive cittadinanze. Più avanti Giulio Cesare riservò particolare interesse alla Gallia Cisalpina, ormai una vera provincia, dove aveva un’importante rete di sostegni. Già nel 59 a.C., quando era console, fondò la colonia romana di Comum Novum presso il centro di origine golasecchiana di Como. In seguito, durante le sue campagne in Gallia Transalpina, fu anche governatore della Cisalpina e nel 49 promosse la lex Roscia, che estendeva la cittadinanza romana a tutti i suoi abitanti, a prescindere dall’origine e dalla distinzione fra città e campagne. Infine, sotto il secondo triumvirato, la provincia della Gallia Cisalpina fu abolita nel 42 a.C., entrando a far parte dell’Italia: la romanizzazione era compiuta.
Filippo Molteni
Note:
[1] Liv., V, 33 e seguenti.
[2] Sui “Golasecca” si vedano: COLONNA 2017; GAMBARI 2017 a, pp. 43-48.
[3] Si veda ad esempio BIONDANI 2014, p. 233.
[4] RAPI 2011; GAMBARI 2017 a, pp. 45-47.
[5] Dormelletto 2009, pp. 15-21; BANDELLI 2017, p. 295, nt. 42; POGGIANI KELLER et alii 2017.
[6] CASINI, TIZZONI 2015, pp. 72-74.
[7] DE MARINIS 1986, pp. 97-98.
[8] DELLA CASA 2017.
[9] SOLINAS, BIONDANI, SALZANI 1996, pp. 101-102; POGGIANI KELLER et alii 2017.
[10] GAMBARI 2017 a, p. 47.
[11] MORPUGO 2016.
[12] FERRARI, MENGOLI 2005; ORTALLI 2008.
[13] Plb., 2.17.
[14] RAPI 2011, p. 62.
[15] GAMBARI 2017 a, p. 48.
[16] Sul popolamento preromano della Cispadana, si veda ORTALLI 2017, pp. 317-320.
[17] Ad esempio, in Val Tidone: si veda GROSSETTI 2002, pp. 11-25.
[18] Sull’espansione romana in Gallia Cisalpina e la romanizzazione, si vedano: GRASSI 1990-1991; BIONDANI 2014, p. 233; BANDELLI 2017; ORTALLI 2017, pp. 321-328.
[19] Sulle vicende di Cremona e Piacenza in questo periodo, si vedano anche: TOZZI 2003; SANTANGELO 2017, pp. 25-32.
[20] GAMBARI 2017 b, p. 66.
[21] BAIGUERA et alii 2012, pp. 206-209.
[22] BAIGUERA et alii 2012, pp. 197-198; BIONDANI 2014, p. 233.
Abbreviazioni bibliografiche:
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Fonti antiche
Per le abbreviazioni delle fonti antiche (autori e opere) si fa riferimento a:
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http://www.perseus.tufts.edu/hopper/text?doc=Perseus%3Atext%3A1999.04.0057%3Afrontmatter%3D5
C.T Lewis & C. Shorts, A Latin Dictionary online
http://latinlexicon.org/LNS_abbreviations.php
Liv.:
Tito Livio, Ab Urbe condita libri.
Plb.:
Polibio, Ἱστορίαι.
Dello stesso autore potete leggere anche: “La signora di Pioltello: come arte e scienza hanno riportato in vita una donna romana di 1800 anni fa” e “Bedriacum, vita di un tranquillo villaggio padano da cui un giorno passò la Storia“.